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GOOD AND BAD MANNERS IN ARCHITECTURE

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 20.09.2006

Alla metà degli anni Venti esce, a Londra, un curioso libretto: Good and bed manners in architecture. Il suo autore, Trystan Edwards, vi sostiene che il contegno, i comportamenti tra gli uomini come tra gli edifici, rappresenti una delle forme più alte di arte visiva.
In un disegno del libro è mostrata una chiesa che emerge armoniosamente in un quartiere di edifici bassi, dai toni moderati.  Poi, in un secondo schizzo, apparentemente ingenuo, la stessa chiesa è aggredita da edifici “unsociable”, animati, ciascuno, da un prepotente spirito individualistico: come in un’orchestra dove tutti suonano al massimo volume, il risultato è disastroso. L’architettura della città, conclude l’autore, è l’arte della cooperazione, non della competizione.
Edwards, che ingenuo non è, conosce bene la natura economica dei cambiamenti estetici che critica, cosa esprima la rissa architettonica della città capitalista. Sostiene la necessità, tuttavia, di mettere un freno all’incontrollato liberismo formale attraverso l’ urbanity, il rispetto reciproco tra costruzioni.
Forse anche nella Roma contemporanea il suo richiamo all’urbanità non sarebbe inutile.
In via Oderisi da Gubbio, ad esempio, di fronte alla chiesa di Gesù Divino  Lavoratore, capolavoro romano di Raffaello Fagnoni, è in costruzione un nuovo edificio. La sua facciata si annuncia come uno strillo, un contorcimento obliquo rivestito, con gratuita estrosità, in vetro a specchio e travertino.
Si dirà che questa strada non è via Giulia. Ma quale furore artistico, o messaggio rivoluzionario ha spinto ad interrompere la coralità di una quinta urbana, a suo modo, continua e unitaria?
Si potrebbero citare altri casi simili: tasselli “minori” che, isolati, sembrano trascurabili e la cui sequenza va componendo, invece, un mosaico babelico.
Che non risparmia nemmeno l’architettura esistente, come l’edificio in via dei Monti della Farnesina  costruito da Del Debbio e appena “recuperato”, con indubbio estro creativo, sostituendo il vetrocemento originale con un materiale che sembra uscito da un catalogo d’arredamenti per bagno. Non è, questa, un’offesa rivolta a ciascun passante?
Certo, ogni professionista rivendica oggi la propria libertà estetica, il diritto alla propria quota di lacerazioni.  Ma poiché l’architettura è un’arte che impone la propria presenza, è poi tanto bizzarro il richiamo di Edwards ad usare, almeno un po’ di good manners?

L’architettura religiosa in un libro di Strappa

La presentazione

L’architettura religiosa in un libro di Strappa

in “Corriere della Sera” del 26.05.2009

Il tema dell’architettura religiosa è tornato di grande attualità. Anche a Roma si costruiscono nuove chiese, veri poli urbani in quartieri spesso degradati che pongono, anche, il problema di cosa significhi un edificio per il culto nel mondo contemporaneo. Giuseppe Strappa, architetto e ordinario di progettazione, tenta di dare una risposta con un libro, «Edilizia per il culto» (Utet, Torino) che ha la forma e l’ambizione di un vero trattato. Tesi di fondo è che ogni chiesa, sinagoga o moschea costituisce anche un «organismo » del quale occorre comprendere, soprattutto, il processo formativo. In un periodo in cui l’architetto, anche nei temi religiosi, è ossessiona¬to dalle mode, Strappa sostiene che si è originali solo riscoprendo l’origine delle cose, le radici dalle quali le forme hanno inizio. L’opera verrà presentata oggi a Valle Giulia da un esperto del tema come Paolo Portoghesi. Il grande storico e architetto romano non è, infatti, solo autore di importanti architetture religiose, dalla Chiesa della Sacra Famiglia a Salerno alla Moschea di Roma, ma si è posto, tra i primi, il problema della crisi del progetto contemporaneo, dello smarrimento dell’uomo di fronte a un mondo costruito che non sa più leggere e, quindi, trasformare con coerenza.

Alle 18, Aula Magna della Facoltà di Architettura «Valle Giulia», via Gram¬sci 53

Il libro viene presentato oggi pomeriggio alle 16 a Valle Giulia da un esperto del tema come Paolo Portoghesi, in primo piano nella foto qui sopra insieme a Giuseppe Strappa

NODI NELLE CITTÀ


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di Giuseppe Strappa

in «Area» N°27 , 1996.

Se si usa appena qualche cautela nei confronti del trionfante luogo ideologico che vuole la modernità associata ad una condizione di perpetua crisi dove, inevitabilmente “tutto quello che è solido si dissolve nell’aria” e si guarda alla semplice evidenza della realtà costruita, non si può non constatare che, dalla contraddittoria fase di passaggio dalla città tradizionale europea alla metropoli contemporanea, emerge una evidente, traumatica innovazione nei tessuti, ma anche una altrettanto evidente continuità negli organismi edilizi.
Alcuni aspetti della sostanziale diacronicità tra organismi abitativi e tessuto urbano sono stati da tempo osservati nella continuità del processo che ha generato l’attuale casa in linea a partire dalle rifusioni di unità di schiera. E tuttavia non è mai stato indagata a sufficienza la complessa continuità formativa, generata dalla nozione di aggregato, di molti edifici specializzati moderni. I quali spesso, lontani dall’imitare la macchina, mostrano al loro interno la spiegazione delle proprie leggi formative “annodando” (trasformando in nodi spaziali) luoghi in origine fisicamente o virtualmente aperti: come molti organismi edilizi del passato, essi nascono dalla dialettica tra recinto e copertura, tra strutture seriali ed organiche, tra città ed edificio.
La derivazione del teatro moderno dal tessuto é, ad esempio, tra i fenomeni più evidenti e documentabili di questo processo. La stessa rappresentazione teatrale si evolve per specializzazione di forme di spettacolo “di base” (le recitazioni religiose, le feste laiche, le giostre). Il famoso disegno eseguito da Johan de Witt nel 1596 del teatro Swan di Londra dimostra pienamente il carattere dell’organismo edilizio in formazione: lo spazio “pubblico” é quello fluido della platea-piazza dove lo spettatore assiste in piedi o in sedili di fortuna; lo spazio “privato” é quello perimetrale dei palchi-tessuto, codificato dalla legge costruttiva del recinto. Se già nel ‘400 si rappresentava Plauto e Seneca nel cortile del palazzo del cardinale Riario coperto da teli, agli inizi del ‘600 si conclude il processo di trasformazione del teatro elisabettiano e inizia quello contemporaneo con la copertura stabile dello spazio aperto del vecchio teatro Fortune.
E un analogo processo formativo può essere colto, ancora in atto, in molti aspetti dell’edilizia speciale ottocentesca. Nelle grandi borse, ad esempio, nate alla fine del XVI secolo come piazze concluse all’interno della serie di uffici e magazzini, la cui protezione genera lo spazio coperto dello scambio (di questo processo la “basilica” di Berlage per la Borsa di Amsterdam rappresenta solo l’esito più noto). Oppure nei grandi magazzini formatisi a Parigi a seguito della nuovissima tradizione dei passages , dove elementi, strutture, sistemi seriali si annodano intorno allo spazio di un cortile coperto.
Ma, soprattutto,esso è individuabile nella dialettica tra spazi urbani e spazi interni agli edifici generati, alla fine del secolo scorso, dall’ organizzazione delle complesse reti di comunicazioni nelle metropoli. L’articolazione dell’edificio per poste e telegrafi nasce, infatti, dal legarsi dei vani seriali, per amministrazione e servizi, intorno alla grande sala per il pubblico, vasto spazio di mediazione tra città ed edificio. L’architetto di fine ‘800, smarrito di fronte all’intrecciarsi di problemi inediti, si rifugia nel patrimonio di esperienze portato a riva dalla storia, nei tipi di edificio tradizionali ancora capaci di propiziare sincretismi, trasformazioni, aggiornamenti. Molti dei maggiori palazzi postali ottocenteschi sono organizzati su impianti basati sulla nozione di recinto, come quelli tedeschi organizzati intorno ad una vasta hof  aperta  (a Breslau, Halle o Potsdam), ma anche protetta da vetrate, come a Berlino.
La transizione dal cortile al vano nodale si manifesta, in tutta la sua evidenza, nel riuso di edifici esistenti organizzati su percorsi interni rigiranti intorno a spazi aperti (conventi, palazzi ecc.). Non si tratta di semplice reimpiego, ma di un processo dove la mutazione dello spazio aperto genera edifici interamente nuovi, di maggiore organicità. Si veda la trasformazione in poste del Fondego dei Tedeschi a Venezia dove l’introduzione, nell’edificio seriale del XVI secolo, di una grande struttura in ferro e vetro a copertura del cortile aperto innesca un processo unitario di trasformazione che coinvolge tutte le componenti dell’edificio: le sollecitazioni indotte dalla copertura, compromessa la stabilità delle pareti murarie sottostanti, si estendono progressivamente (organicamente) all’intero edificio, favorite dalle successive opere di consolidamento. L’intero organismo ne esce rivoluzionato: il nuovo vano centrale risulta, come in ogni edificio nodale, staticamente portato, distributivamente servito e spazialmente dominante, mentre i vani periferici risultano portanti, serventi, seriali.
Nel trasformarsi processuale del grande vano centrale la fase “logicamente” successiva é costituita dalla saldatura di atrio e sala degli sportelli, cioè dalla progressiva fusione del cuore dell’organismo con lo spazio urbano. Nato dalla città, il nodo spaziale torna alla vita delle strade: se ancora all’inizio del XX secolo la stessa manualistica raccomanda di considerare la sala per gli sportelli come “spazioso cortile tutto ricoperto a vetri” (Donghi), in pedanti edifici come le poste di Bologna di Emilio Saffi, si annida l’innovazione, il nuovo carattere urbano degli spazi per il pubblico.
Questo processo, annunciato da molti sintomi, precipita nel fecondo periodo di passaggio dalla fine degli anni ’20 agli inizi degli anni ’30, attraverso mutazioni rapide e complesse, ordinabili in sequenze logiche più che cronologiche, rintracciabili dietro la trama di molte facciate “accademicamente” moderne  come quella del Palazzo delle Poste di Brescia  di Piacentini, o quelle di Bergamo, Agrigento, Palermo costruite da Mazzoni. Fino all’apparizione  della solare modernità delle poste romane di Libera e De Renzi o di Ridolfi, o dello straordinario pezzo di città che Vaccaro ha costruito a rione Carità a Napoli. Edifici che indicano, in modo esemplare, come la riduzione dell’edificio postale a macchina di sterile precisione, (la trasformazione idraulica dei corridoi in “flussi”, di gallerie e portici in “circolazione”) appartenga alle tante mitologie del moderno. Nel suo momento più alto, al contrario, la vicenda dei palazzi postali italiani sembra essere stata sul punto di realizzare l’aspirazione alla sintesi tra organismo edilizio ed organismo urbano inseguita da generazioni di architetti nel corso della storia.

LA RISCOPERTA DI CANIGGIA, ARCHITETTO DEL RIGORE

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di Giuseppe Strappa

In «Corriere della Sera» del 14.06.08

Forse il tempo ha finalmente diradato la cortina di silenzio che la critica aveva steso intorno all’opera di Gianfranco Caniggia, architetto e teorico romano scomparso vent’anni fa. Il suo vasto lavoro appartiene, evidentemente, a quel tipo di ricerche che, troppo profonde per il successo immediato, danno i loro frutti su tempi lunghi.
Non è un caso che la sua opera sia riscoperta proprio oggi, quando i superficiali spettacoli dello star system internazionale fanno sorgere dubbi sul ruolo stesso dell’architetto, come testimonia il recente successo di “Contro l’architettura”, impietoso saggio di Franco La Cecla. Rileggere i testi caniggiani significa scoprire una via d’uscita: il progetto contemporaneo non quale semplice invenzione né imitazione del passato, ma “processo”, continuità col grande flusso di trasformazione del costruito e della sua storia. L’architetto non è un artista, ma un artefice orgoglioso del senso civile del proprio mestiere.
Dopo le molte traduzioni dei suoi testi, prossima quella cinese, un importante convegno e due mostre dei progetti di Caniggia (tenute all’ Accademia di San Luca e presso la Facoltà di Valle Giulia) hanno risarcito un debito a lungo rimosso.
Rimosso, non semplicemente dimenticato, perché la sua vicenda umana e intellettuale si lega ad una delle pagine più discusse dell’architettura recente, alle accuse di inseguire una sorta di utopia regressiva sulla scia di Saverio Muratori, suo glaciale precettore di eresie, allontanato dal mondo accademico. Lucio Barbera aveva descritto Caniggia come “un francescano che, con animo mite, si presentò alla società che aveva espulso il Maestro proponendo le ricette sataniche del Vecchio in dosi omeopatiche e salutari, ma mai annacquate”.
Che la sua teoria, lucidamente derivata dalle tradizioni della Scuola romana, sia rimasta per tanto tempo dimenticata è stato, ritengo, un grave danno. Uno spreco che s’inquadra nella più generale crisi dell’insegnamento italiano, che privilegia ormai i “fatti” rinunciando alle dimostrazioni, lasciando i nostri studenti orfani dell’educazione al pensiero unificante, allo sguardo generale che dà senso al particolare. Solo uno storico acuto come Manfredo Tafuri ha avvertito la straordinaria importanza non solo degli studi di Caniggia, ma anche  della sua opera architettonica. Perché l’architetto romano è stato anche un grande progettista, malgrado risulti ormai difficile, in un mondo assuefatto alle tinte forti, apprezzare la sua arte delle cose elementari e delle sottili distinzioni: il raffinato rigore delle case in via Trinità dei Pellegrini, ad esempio, o la composta solennità del Palazzo di Giustizia di Teramo. Le sue architetture possiedono una forma alta e difficile di poesia: non quella dell’emozione che si sostituisce al  pensiero, ma quella disciplinata dal metodo, che tormenta l’intelligenza.
Caniggia tracciava disegni di esemplare chiarezza. Sembrava indicare sulla carta, insieme, la forma dell’edificio e la sua spiegazione.
Fa eccezione il suo ultimo progetto, incompiuto, per l’ampliamento della Facoltà di Valle Giulia. Un progetto misterioso, di incerta interpretazione, del quale abbiamo perso molti dei disegni originali. Come se il mite, grande francescano avesse voluto lasciarci un dono estremo e prezioso: non un teorema dimostrato dal disegno, ma un dubbio e un fertile pungolo