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LE CITTA’ NELLA CITTA’

CONVEGNO INTERNAZIONALE ALL’EUR

in «Corriere della Sera» del 22.10.2006

di Giuseppe Strappa

Nella metropoli della densificazione e della babele dei linguaggi, che, in America come in Cina, esplode e si disperde in frammenti, il virtuale sembra sostituire la realtà e l’immateriale la fisicità dei paesaggi urbani.
La stessa nozione di città, intesa come spazio dove l’uomo non solo vive e lavora, ma s’identifica con i luoghi deputati alla vita civile, sembra sgretolarsi.

Paesaggi di reti tendono a separarsi dalle forme reali, dai luoghi fisici: l’immagine mentale  di una metropolitana, della distribuzione commerciale, dei collegamenti autostradali o aeroportuali, è ormai una rappresentazione convenzionale come le icone sul desktop di un computer. E Bill Gates promette l’avvento di un uomo nuovo, telematico, liberato dall’appartenenza al luogo, che può essere “qui e là e in ogni possibile posto”.

Dopo i fiumi d’inchiostro e di bite spesi ad alimentare questa retorica della delocalizzazione e le sue fughe dalla realtà, forse è il momento di chiedersi se non stiamo perdendo i reali termini del problema. Non tanto perché il 50% degli abitanti del nostro pianeta non ha mai fatto una telefonata, ma soprattutto perché abitare e leggere e-mail in un condominio di Calcutta o in un attico di New York non sarà mai la stessa cosa.

E forse l’uomo, soprattutto il nuovo, mitizzato, nomade metropolitano, ha ancora bisogno di appartenenza, degli spazi essenziali dove la vita affonda le sue radici. L’accettazione della città dispersa, combinatoria, costruita per frammenti sembra segnare, peraltro, la rinuncia definitiva a quella carica ideale, ottimista ed utopica, che aveva dato senso all’architettura moderna, finendo per assegnare all’architetto contemporaneo il ruolo, omologato e rassicurante, di autore di spettacoli urbani.

La crisi della metropoli contemporanea, il suo governo, le ideologie che ha generato sarà il tema di un convegno internazionale che si svolgerà il 13 e 14 maggio al Palazzo degli Uffici all’EUR.

Proprio l’immagine dell’EUR, con il richiamo alla concreta fisicità di città moderna-non moderna che la sua architettura contiene, può indicare alcuni argomenti di riflessione: la validità e la durata dell’architettura urbana; i guasti della specializzazione nell’arte di costruire le città di due momenti separati, il piano urbanistico (lo zoning, gli standard), ed il frammento edilizio che, quando raggiunge la qualità della grande architettura, si compiace narcisisticamente del suo isolamento. La crisi del piano e la caduta di significato civile dell’architettura sono, in questo senso, due facce di uno stesso problema.

La fortuna critica e storiografica dell’EUR ha avuto nel tempo alterne vicende. Oggi  è un po’ fuori moda e si torna a parlare dell’arretratezza del suo impianto “ottocentesco”. Ma, se è vero che il suo modello, rigido e marmoreo, è ormai inattuale, il suo impianto ha in realtà fondamenta molto più antiche che riportano all’essenza della città italiana. E proprio questa  è la sua forza: la capacità di trasmettere, se si guarda oltre le tendenze del momento, la dimenticata, fondamentale nozione di tessuto, il legame tra edificio e città, tra  struttura di percorsi ed architettura, tra episodio eccezionale e continuità edilizia. Nozioni che non sono né vecchie né nuove facendo parte del modo dell’uomo di abitare e orientare lo spazio. Averle dimenticate è uno dei disastri della città contemporanea.

Non a caso l’EUR, che pure nel dopoguerra assomigliava ad una città di rovine più che ad un quartiere in costruzione, ha resistito ai disastri del boom edilizio ed è oggi capace di accogliere il plurale e il diverso, il Palazzo della Democrazia Cristiana come la nuvola di Fuksas.

La vicenda dell’EUR, generato dal demone della compiutezza incorruttibile, dove la  storia ha stratificato nel tempo, invece, segni disuguali e contraddittori, c’insegna come governare i processi di trasformazione della città contemporanea significhi anche accettarne, senza presunzioni di totalità, il carattere aperto, la continua dialettica. Ed anche la sua parte arbitraria e ingovernabile, distinguendo l’essenziale della forma urbana, la struttura profonda e riconoscibile, dall’inevitabile arbitrio del casuale, del particolare, dell’individuale. L’Eur sembra mettere in guardia intellettuali e progettisti dalle seduzioni delle profondità astratte, invita a ridiventare chiari e concreti.

Perché la città contemporanea non è solo il mondo dell’accidentale e del fortuito, è anche un testo continuamente riscritto, alla cui vitalità occorre il grande respiro, la chiarezza di una struttura condivisa nella quale riconoscere la lingua colta delle grandi architetture civili e, insieme, il flusso delle mutazioni combinatorie, il contributo dal basso dei tanti singoli edifici, il molteplice e l’eterogeneo del parlato quotidiano che rinnova e dà ricchezza al linguaggio.

ELOGIO DEL PALAZZO PUGLIESE

di Giuseppe Strappa
in «Dimore Storiche» n° 47/48, 1/ 2002

La grande rilevanza che la formazione del palazzo italiano ha assunto nel quadro della cultura europea non può essere fatta derivare unicamente dal ruolo che esso ha svolto nella storia dell’arte, dallo splendore delle sue facciate, dalla bellezza della composizione architettonica che ne organizza le parti: la sua importanza è dovuta anche, forse soprattutto, al valore di testimonianza dei caratteri di una civiltà che esso contiene, al profondo rapporto che instaura con l’aggregato di abitazioni che lo circonda e dal quale, dato fondamentale, esso trae la propria origine.
Questo processo formativo lega solidalmente il grande o il piccolo edificio nobiliare alla città in cui sorge, in un rapporto organico che vede le stesse nozioni di percorso, aggregazione, nodalità riscontrabili nei tessuti urbani, rispecchiarsi nel palazzo. Il quale finisce per organizzarsi, per dirla con l’Alberti, come una piccola città, regolato com’è dalla gerarchizzazione dei propri percorsi interni, dall’aggregazione dei vani, dalla polarità di scale e sale di rappresentanza.
Tanto a Venezia, quanto a Firenze o Roma, il palazzo deriva, in realtà, da quell’insieme di abitazioni di piccole dimensioni, l’edilizia “di base”, che costituisce la gran parte della città tradizionale, e la sua architettura è pertinente al tessuto che, nelle diverse aree culturali, assume caratteri specifici in funzione delle diverse forme che gli aggregati di abitazioni presentano: la casa-fondaco, e poi il palazzo veneziano, sorgono dalla trasformazione delle domus su cui è stata impiantata la città; il primo palazzo fiorentino nasce dall’incremento della casa mercantile; il palazzo romano ha origine dalla rifusione di modeste case a schiera, unificate da percorsi comuni “ribaltati” all’interno e da una facciata nella quale il ritmo ancora apprezzabilmente irregolare delle aperture lascia trasparire il travaglio del lavoro di unificazione e regolarizzazione svolto dal costruttore. Ma ben presto ai palazzi formatisi per diretta trasformazione dell’edilizia di base succedono strutture progettate ab initio, le quali, pur ereditando per intero i caratteri originali del processo formativo, vengono piegate, tuttavia, alle regole della geometria ed alla retorica individuale dell’architetto. Edifici come Palazzo Corner, Palazzo Davanzati, Palazzo Ossoli contengono, in altre parole, l’eredità operante della storia edilizia locale filtrata dall’apporto critico del progettista che si pone il problema del disegno unitario di un nuovo edificio. La complessità e la ricchezza dell’architettura spontanea vengono, in qualche modo, semplificate dall’ordine generale dell’architettura completamente progettata, mentre scelte estetiche colte e dichiaratamente orientate dalla personalità dell’architetto immettono il nuovo edificio in un contesto culturale molto più ampio di quello locale.
In questo contesto, articolato negli esiti ma comune nei principi, i palazzi e le dimore nobiliari formatisi in Puglia a partire dal XV secolo assumono un’importanza particolare costituendo, nella grande maggioranza dei casi, la testimonianza di una sintesi architettonica fondata con continuità sulla trasformazione diretta dell’edilizia di base della quale permangono, evidenti, non solo le tracce murarie, ma i contributi strutturanti la forma ultima dell’edificio. Nelle tante città pugliesi di illustri (e spesso malnote) tradizioni edilizie, la mano dell’architetto raramente irrigidisce la costruzione di un palazzo in un progetto geometricamente preordinato, derivato da un trattato o dall’esperienza di edifici simili individuati in altri contesti culturali; più spesso opera, almeno fino all’inizio del XIX secolo (quando si abbattono le mura delle città pugliesi e si costruisce su nuovi terreni), per accorpamenti, per raccordi di facciate, per ricuciture di percorsi, che l’architetto, tuttavia,   utilizzando ancora la materia viva del tessuto esistente, del patrimonio di piccole case monocellulari, cortili, vicoli portati a riva dalla storia locale.
Il fluire imprevedibile della vita delle città, che scorre e trasforma piazze, strade, edifici, è dunque ancora leggibile nella forma molteplice del palazzo pugliese, nell’apparente casualità leggibile nonostante la cortina dell’ordine geometrico disposto dall’architetto. Il quale interpreta attraverso la nuova costruzione, a sua volta, le regole che, nella città, unificano, in una comune nozione di tessuto, il frammento nella totalità, l’accidentale nell’ordine generale dell’organismo urbano. Il palazzo pugliese contiene, dunque, la seducente, duplice rappresentazione del desiderio di unificare una parte di città, e della necessità di mostrare il sostrato degli edifici che lo hanno generato: in modo non diverso da quanto avviene per la lingua, dove il parlato quotidiano è il fondamento dei codici della scrittura e, in qualche caso, del linguaggio della poesia.
Constatazione questa, peraltro evidentissima in tessuti che, come a Trani, si sono formati attraverso un lungo processo di stratificazioni successive: qui i grandi e piccoli palazzi delle famiglie che hanno avuto un ruolo importante nella vita economica e civile della città ( i Caccetta, i Lopez, i Filangeri, i Carcano) sembrano affiorare da un potente strato geologico di edilizia “minore” che trasmette loro, in modo diretto, attraverso la fisicità della costruzione, il patrimonio della cultura del luogo.

MUNICIPIO DI S. MARINELLA

di Giuseppe Strappa

in Oltre l’architettura moderna , «Quaderni di Ajòn», Firenze 2006

L’impianto scelto per il nuovo municipio di S. Marinella è quello, consueto nell’edilizia specialistica seriale, dello spazio aperto perimetrato dal costruito che, nella storia dell’architettura italiana, deriva direttamente dalla rifusione e trasformazione dei tessuti legando strettamente il carattere monumentale di un edificio nel quale si riconosce la comunità civile, alla vita quotidiana che si svolge nella città. La forma originale e più tipica di questo processo è quella del  palazzo dal quale, non a caso, sono derivati molti dei tipi moderni per l’architettura pubblica che hanno avuto vita meno effimera. E del palazzo sono stati raccolti non tanto gli esiti formali immediatamente riconoscibili, ma piuttosto la struttura profonda legata al ribaltamento di percorsi urbani all’interno dell’edificio. Il nuovo municipio è, per questo, soprattutto tessuto che si specializza, legato quindi a leggi formative organiche che si aggiornano nel tempo mantenendo saldi i principi generatori: mentre nei tipi tradizionali, ad esempio, i percorsi sono rigidamente inclusi nell’involucro edilizio, nel nuovo municipio essi indicano, anche attraverso la propria gerarchizzazione, come non esista soluzione di continuità tra gli spazi che formano la città e quelli che formano l’edificio.
Polarità e nodalità coincidono, nel progetto, con vani specializzati che svolgono ruoli anche simbolici, come nel caso della sala consiliare, polo ottico della composizione e centro della quinta posta a fondale della piazza, o come la biblioteca, che ne conclude l’asse centrale.
Il carattere della costruzione risponde all’attenzione prestata al processo formativo dei tipi edilizi ed alle qualità del luogo definite, insieme, dalla presenza del tufo come materia/materiale consueto nel paesaggio naturale e costruito dell’Alto Lazio, e dall’impiego di strutture leggere nell’edilizia balneare e nelle ville del primo Novecento. Sono stati dunque impiegati: la parete di tufo nella parte basamentale, letta come portante, opaca, continua, massiva; elementi lineari in calcestruzzo bianco, usati in strutture discrete, trasparenti e seriali nella parte in elevazione; elementi metallici e vetrati a copertura del nodo spaziale della sala polivalente.

Gruppo di progettazione: Giuseppe Strappa (capogruppo), Tiziana Casatelli, Alessandro Franchetti Pardo, Fabrizio Maraglioli, Alessandra Schietroma, Maria Letizia Tavella

POESIA DI MARIO RIDOLFI

Mostre all’Accademia di San Luca e alla Calcografia Nazionale

POESIA DI MARIO RIDOLFI

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 3.10.2005

Mario Ridolfi amava appassionatamente l’architettura e la identificava con la vita. Sapeva che poteva essere compresa e consumata, ma che, inevitabilmente sfuggiva ad ogni tentativo di ingabbiarla, ad ogni teoria generale.
Forse per questo la sua opera sembra dirci che, dell’immensa complessità del mondo costruito, il lavoro d’ogni architetto è una trascurabile monade, ma anche che  ogni edificio può racchiudere, di questa complessità, l’essenziale. La comprensione di principi formativi condivise, ad esewmpio, e la poesia della loro interpretazione.
Sembra dimostrarlo la  mostra curata da Enrico Valeriani (organizzata dall’Accademia di S. Luca, dalla DARC, dall’Istituto Nazionale per la Grafica) che indica come, già nel ’29, il progetto di laurea di Ridolfi per una colonia Marina a Castel Fusano, col suo delicato rigore, annunciasse il carattere della ricerca futura: non lo stile “classico modernizzato”, com’è stato detto, ma l’adesione concreta ad un processo di semplificazione delle forme, una modernità “incontrata” più che ricercata, che diviene linguaggio e si distilla, poi, in poetica  personalissima, eppure perfettamente aderente al panorama romano.
Le sue poste di piazza Bologna terminate nel ’35, rifuggendo  dall’ostentata durezza di tante opere contemporanee, piegavano il tema della parete muraria, continua e massiva, in un’onda di travertino che carezza delicatamente lo spazio della città e il fiume della vita che vi fluisce.
Finita la guerra, quando altri architetti distruggevano i progetti eseguiti nel ventennio, Ridolfi recuperava lo smisurato patrimonio dei propri disegni pazientemente accumulato. Nasceva, da qui, il nocciolo di quel Manuale dell’architetto che sembrava la naturale traduzione di un sapere tecnico artigianale nella lingua della produzione industriale, nel mondo della Ricostruzione. In quegli anni, in stretto sodalizio con Wolfgang Frankl, costruiva molto: palazzine, scuole, villini. Edifici modernissimi, in calcestruzzo armato, che, pure, sembravano stare lì da sempre. A Roma, ad Ivrea, in Puglia, soprattutto a Terni, dove nel ’66 si era costruita una strana casa a forma di stella con dieci punte, Casa Lina. Una costruzione a pianta centrale come una chiesa, dal disegno apparentemente ingenuo, tracciato, come ha scritto Franco Purini  “come se si stesse imparando per la prima volta a progettare”. Questa costruzione, che a me sembrava inabitabile ma che Ridolfi abitò per il resto della vita, divenne progressivamente il suo eremo e, insieme, luogo mitico di pellegrinaggio per un’intera generazione di architetti. Quando lo andavo a trovare, con una bottiglia di vino buono,  parlava per ore di come intorno ad un particolare costruttivo si avvolgesse e ruotasse l’intera complessità del progetto, di come questa complessità si potesse sciogliere nel modo più diretto, seguendo lo spirito dei materiali, come sa ogni artigiano che conosce il proprio mestiere, nella forma più evidente, necessaria, felice. Parlava, rapito, della bellezza e del calore della “sua” pietra sponga, materiale ridolfiano d’elezione, poroso, tormentato da cavità che sembrano assorbire e restituire, trasformata, la luce del sole. Io che lo ascoltavo, vedevo nei suoi disegni, palinsesti resi criptici da strati di pentimenti e cancellature, la profezia di una nuova architettura.
In un periodo in bilico tra spettacolari rotture, dilagare dell’International Style, esaltazione della creatività individuale, Ridolfi sembrava aver intuito la necessità e la poesia del limite: come la lotta contro ogni regola si sarebbe tradotta in qualunquismo, nella perdita d’ogni valore, compresa la custodia di un sapere tecnico, di un’arte del costruire in pietra e mattoni che era stata, per secoli, il fondamento, materiale e concreto, del carattere delle nostre città. Perché l’opera di Ridolfi del dopoguerra, spesso identificata col clima del neorealismo, non può essere compresa che all’interno della grande battaglia culturale che la sinistra italiana condusse in difesa dei centri storici. Una battaglia che oggi si direbbe rimossa, ma che era, allora, anche una proposta di continuità, di comprensione profonda del carattere organico della nostra cultura edilizia e delle condizioni di crisi introdotte dai nuovi sistemi di produzione cui Ridolfi dava risposte aggiornate, originali nel senso letterale del termine, come ritorno all’origine dei problemi e delle cose. Ponendo domande elementari, primarie, Ridolfi sembrava indicare anche una strada, divenire il volano di trasmissione di una cultura che si andava perdendo, in questo simile al bambino che, nell’Andrej Rublev di Tarkovsky, ultimo depositario di una tecnica perduta e quindi nuovissima, era ancora capace di trasmettere ai propri concittadini l’arte di costruire una nuova campana, segno della vita civile che riprende e continua.

Mario Ridolfi architetto
Palazzo Carpegna-Accademia di San Luca
Palazzo della Calcografia – Istituto Nazionale per la Grafica.
4 ottobre – 7 dicembre 2005
tel. 06 6798848

OPERE ROMANE DI MARIO RIDOLFI

Ufficio postale di piazza Bologna (1932-35)
Palazzina in viale di Villa Massimo, 39 (1934-36)
Palazzina in via San Valentino, 21 (1936)
Sopraelevazione del villino Alatri in via Paisiello,38 (1948-49)
Palazzina in via G.B. De Rossi,12 (1950-51)
Palazzina in via Marco Polo,96 (1951-52)
Abitazioni INA Casa al Quartiere Tiburtino in via Crispolti (con L. Quaroni ed altri)
Palazzina in via Lusitania,29 (1953)
Case in linea tra viale Etiopia, via Tripolitania, via Adua (1949-54 e 1957-60)
Sopraelevazione del villino Astaldi in via N. Porpora (1954-55)
Palazzina in via Vulci,9 (1959-60)

SALVARE VIA DEI FORI IMPERIALI

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 15.11.2003

Alcuni articoli comparsi di recente su queste pagine ripropongono il problema della sistemazione dell’area archeologica romana dando come scontata la demolizione di via dei Fori Imperiali. Operazione che, peraltro, si va ormai imponendo in modo strisciante attraverso continui scavi che finiranno per dimostrare, immancabilmente, la “necessità scientifica” della distruzione.

Occorre invece, ritengo, riflettere sulla questione nei suoi termini più generali superando ideologie e schieramenti. Cesare Brandi lo fece con grande coraggio civile in un articolo dell’87 sul Corriere della Sera nel quale affermava limpidamente che la città non tollera una zona di demolizioni nel suo centro vitale e che non basta dire che via dell’Impero fu un misfatto fascista, ricordando che “la caratteristica fondamentale di Roma è d’essere una città prospettica impiantata come una città ideale del Rinascimento”.

Quell’articolo impeccabile andrebbe ripubblicato integralmente perché, dopo vent’anni, il problema non è sostanzialmente cambiato. Anzi, si è radicalizzato per la singolare pretesa dell’archeologia di possedere una propria oggettività scientifica, quasi che lo scavo non fosse una trasformazione di spazi, segni, funzioni della città, come dimostrano i crateri da città bombardata attorno alla Basilica di Massenzio, nei quali le rovine messe a nudo si offrono ad una contemplazione vagamente necrofila.

Il carattere profondo di Roma risiede, invece, nell’immanenza nascosta dell’antichità, nel racconto delle origini mescolato agli sviluppi della città rinascimentale, barocca, moderna. Un sedimento collettivo e unificante che si trasmette alla vita quotidiana della città in forma antididascalica, attraverso stratificazioni spesso misteriose che continuano a far vivere, segretamente nascosto, il pathos dello spazio primitivo. Accadeva anche, ad esempio, nei SS. Cosma e Damiano prima che fosse “liberata”, negli ultimi anni, l’aula circolare del “Tempio di Romolo”.

Un malinteso ruolo dell’archeologia sembra oggi voler comunicare, del messaggio dell’antico, una versione asettica e semplificata. Via dei Fori Imperiali diviene, così, solo un intralcio ai lavori di scavo, dimenticando che quell’asse conclude un processo formativo iniziato, almeno, a partire dal piano regolatore del 1873 il quale, di fatto, già prevedeva il collegamento tra piazza Venezia e l’area del Colosseo. Processo poi confermato dal piano Sacconi del 1897 e continuato con le demolizioni previste dai piani di Koch (1907) e Sanjust (1909). Un’eredità ormai storicizzata, dunque, che è costata la perdita dolorosa di preziosi tessuti urbani, ma che oggi non può essere negata in nome di una riesumata retorica della liberazione dell’antico.

Per questo il grande spazio rivolto verso il Colosseo deve essere salvato dalla furia del nuovo “piccone liberatore”: per permettere ai romani di riappropriarsene trasformandolo, magari, in un luogo per spettacoli, manifestazioni, riti civili. Uno straordinario foro moderno capace di tramandare il monito e la nobiltà dei fori antichi sui quali è fondato.