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Archivio

UN PROCESSO CONTINUO

L’architettura nel centro storico

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 14.06.2004

Ieri, all’Ara Pacis, si è svolta una manifestazione per chiedere al sindaco Veltroni che le nuove opere previste nel secondo appalto dei lavori vengano sostituite, come vuole Italia Nostra, dal recupero del Porto di Ripetta.
Le illustri rovine delle architetture di Specchi, dunque, contro l’innovazione folgorante. Che pure porta la firma, celebratissima, di Meier.
Perché gran parte dei romani mostra una pervicace ostilità all’introduzione dell’architettura contemporanea nel tessuto storico quando è evidente che la grande architettura del passato si è nutrita di interventi contemporanei (rinascimentali, barocchi, settecenteschi)? Interventi spesso violenti, come dimostra la costruzione stessa del Porto di Ripetta. Perché l’inserimento disegnato da Meier dovrebbe essere, dunque, meno legittimo di quello di Specchi?
Si potrebbe rispondere che la cultura dell’antico e dei monumenti, almeno da Pio VII in poi, ha costituito uno dei caratteri specifici che ha reso Roma unica tra le metropoli europee. Ma è una spiegazione parziale e vagamente polverosa.
Una risposta più fertile, ritengo, è scaturita dall’affollato convegno tenuto mercoledì presso l’Accademia di San Luca. A conclusione di un’accalorata discussione sull’architettura romana degli anni ‘60, quando gli interventi si avvolgevano, senza risolverlo, attorno al nodo gordiano del rapporto con la storia, si è levata la voce di Gianfranco Spagnesi: è andato perduto negli ultimi cinquant’anni, ha detto l’anziano professore, il senso dell’architettura intesa come processo, come trasformazione di un patrimonio ereditato. Poche parole che hanno colto il centro del problema: ogni intervento del passato, anche moderno, era partecipe di uno svolgimento continuo, ogni linguaggio la declinazione imprevedibile di una lingua condivisa. Si vedano i tanti esperimenti dimenticati che indagavano sull’aggiornamento di processi in atto: quelli degli anni ’30 (Libera in via San Basilio, Valle a lungotevere Marzio) ma anche degli anni ’50 ( De Renzi a largo Toniolo). Una “processualità” dell’architettura ormai perduta. Il consenso dell’establishment al progetto di Meier, alla sua astratta assenza di radici, è figlio di questa perdita.
Nel 1917, sotto la pressione della pubblica opinione, Piacentini fu costretto a cambiare, a proprie spese, la rivoluzionaria facciata che aveva costruito per il cinema Corso in piazza in Lucina. Un episodio che andrebbe ascritto tra gli esempi più alti dell’appassionata difesa dei romani in favore della continuità e che pure  è stato censurato dalla storiografia ufficiale del dopoguerra in nome dell’espressione individuale. Il cui culto asettico è oggi consolidato dagli eroici furori dei sacerdoti della contemporaneità (ultimo Nouvel, su queste pagine) che si propongono come rinnovatori della Roma storica.
Per questo sarebbe uno straordinario segnale di novità se la dolorosa protesta per la vicenda dell’Ara Pacis, come quella per il cinema Corso, fosse conclusa da qualche ripensamento.

LA RINASCENTE DI PIAZZA FIUME

di Giuseppe Strappa

Nella travagliata vicenda dell’architettura moderna romana i due magazzini della Rinascente in via del Corso e in piazza Fiume costituiscono altrettanti poli di una ricerca d’identità non vernacolare, capace di accogliere, metabolizzare e trasformare in sintesi originale il diverso: l’innovazione felicemente coniugata alla storia, l’irruzione del metallo e la sua addomesticazione. E poiché tra i due edifici, oggi in vendita, quello costruito da Albini ed Helg di fronte alle mura aureliane presenta i maggiori rischi di trasformazione, è forse il momento di riconsiderarne la singolare attualità.
Certo, l’opera è pienamente immersa nel clima degli anni ’50, quando si poneva la questione, tutta italiana, di ambientare i nuovi interventi con il carattere della città tradizionale. Ma la sua eccezionalità consiste nell’evitare quelle evocazioni letterarie che avevano  indotto Gardella a mascherare un’abitazione plurifamiliare da palazzo veneziano e lo sudio BBPR a edulcorare le forme provocatorie di un grattacielo milanese, la Torre Velasca, in un medioevo da cartolina. Architetture incensate dalla critica, che proponevano, in realtà, soluzioni consolatorie.
La storia che rifluisce nell’edificio di piazza Fiume, al contrario, evita scorciatoie e semplificazioni. I milanesi Albini ed Helg sembrano ripercorrere qui, con gli strumenti moderni dell’acciaio e della prefabbricazione, il processo che aveva portato altri grandi architetti lombardi a costruire le fabbriche della Roma manierista e barocca. Per i quali la condizione di “forestieri” sembra aver propiziato, insieme ad un’appassionata adesione alla lingua muraria romana, un rinnovamento derivato dalla consuetudine nordica con le strutture trasparenti e leggere, con gli snelli pilastri in pietra divenuti, oggi, colonne d’acciaio.
Una sintesi organica, dimostrata dalla logica dei grandi pannelli in calcestruzzo e granito che, dentro la gabbia metallica, si piegano e sembrano pulsare sotto la luce, sposandosi alle necessità delle canalizzazioni ospitate nei corrugamenti delle pareti.
Credo che, in una stagione di fulmineo, scomposto consumo delle forme, occorra custodire gelosamente l’insegnamento di quest’opera, coltivarne la durevole, rigorosa poesia che sembra testimoniare non solo la simpatia ancora possibile tra modernità e storia, ma anche la bellezza senza tempo della regola tanto profondamente compresa da divenire invenzione.

LUNGHEZZA E LO SVILUPPO SOSTENIBILE

di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del 08.01.2008

L’imminente inizio dei lavori per un intervento di abitazioni sperimentali a Lunghezza che prevede, primo caso nell’Italia centrale, sistemi bioclimatici ed ecocompatibili è una buona notizia per cominciare con ottimismo il nuovo anno. Soluzioni tecnologiche avanzate dovrebbero permettere ai nuovi edifici di evitare sprechi ridistribuendo nel tempo il calore raccolto dai “muri solari”, recuperare, trattandola, l’acqua piovana, riciclare i rifiuti. Come in un processo di ritorno artificiale allo stato di natura, piccole serre e torri di ventilazione li disporranno ad accumulare o disperdere energia termica secondo il variare delle stagioni.
Dagli edifici, disegnati dal bavarese Thomas Herzog e dal romano Fabrizio Tucci, non ci si aspettano miracoli, certo, ma che facciano la loro parte nel tentativo di non dilapidare le risorse del nostro piccolo pianeta, unendosi allo sforzo collettivo che da anni coinvolge molte città europee.
Il Comune di Roma ha in programma, peraltro,
di estendere analoghe soluzioni per il risparmio energetico all’intero piano per l’emergenza abitativa attraverso le norme di un “codice di pratica” elaborato dalla Facoltà d’Architettura di Valle Giulia e appena adottato.
Ma c’è di più. L’esperimento di Lunghezza tenta di addomesticare le novità, di mostrarle all’esterno con discrezione, componendo  parsimoniose facciate regolate dalla geometria leggera delle lamelle che si aprono di giorno e si chiudono di notte. Senza averne l’aria, impartisce così una piccola lezione di etica architettonica concedendo ben poco alla  retorica tecnologica e non cedendo alla consueta tentazione di ostentare le innovazioni. Propone agli abitanti, al contrario, le nuove soluzioni come aggiornamenti, come sottili modifiche di forme quotidiane. Non è poco, oggi. Anzi, di fronte alla drammaticità gratuita di tanta architettura, l’immagine originale e composta di queste nuove case che sorgono con civile dignità ai margini della città che cambia, sembra una bella cartolina di auguri per la periferia romana.

CORVIALE E LE ROVINE DEL MODERNO

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 19.01.2005

Il “Serpentone” di Corviale sembra dare ragione a quanti sostengono che l’architettura non risolve i problemi ma li crea. Proprio il suo carattere di utopia costruita che fa tabula rasa della nozione di tessuto, e l’astrattezza del suo generoso, visionario rigore hanno originato, qui, insolubili nodi e conflitti.
Certo, Corviale costituisce il portato estremo e ritardatario di un impossibile modello di periferia urbana che prevedeva smisurate macchine per abitare sparse, come transatlantici, nel mare verde della campagna incontaminata. E tuttavia il significato etico e civile di quest’esperimento può essere compreso nel confronto con la superficialità di tanta architettura contemporanea, con i grattacieli ritorti, piegati, avvitati senza porre altro problema che quello di un sensazionalismo estetizzante,  promosso da quegli stessi cultori della deregulation architettonica che attribuiscono il fallimento di Corviale  al desiderio di un nuovo ordine delle cose.
Forse per l’attualità del suo contraddittorio messaggio, le università La Sapienza di Roma e Columbia di New York hanno cominciato a riconsiderare, in questi giorni, dopo tante banalizzazioni, questo straordinario “caso di studio”.
Corviale costituisce oggi l’enigmatica rovina del paquebot lecorbusieriano e della sua ideologia. Come in un medioevo selvaggio, si disgrega e ricompone in cerca d’identità: la grande madre di spazi atomizzati, di meandri ingovernabili, ma anche di forme di rinascita civile con spazi per la musica, il ballo, la lettura.
Blade Runner romano e multietnico, il Serpentone è oggi un laboratorio che offre l’immagine concreta e dolorosa della condizione contemporanea, della frantumazione delle forme e delle coscienze. Anche se fossero stati realizzati i servizi previsti non sarebbe mai stato un luogo sereno. Forse lo smarrimento che ne deriva ha indotto molti abitanti a sviluppare una forma di orgoglio dell’appartenenza, dell’abitare un luogo estremo, duro, sperimentale: un sogno fallito e, insieme, un territorio di frontiera da rifondare. Qualcosa di diverso, in ogni modo, dall’avvilimento rassegnato di tante periferie metropolitane.
Per questo occorre resistere alla tentazione di demolire Corviale. E’ necessario, invece, un grande, fiducioso sforzo collettivo per ripensarlo con nuove densità e funzioni: una gigantesca, didattica rovina che disgregandosi, come i grandi organismi antichi, mostra la possibilità di rigenerarsi, di costituire il problematico sostrato di una nuova vita.

MATERIA MATERIALE COSTRUZIONE

SAPIENZA, UNIVERSITA DI ROMA FACOLTA DI ARCHITETTURA “VALLE GIULIA” MATERIA MATERIALE COSTRUZIONE

Inaugurazione della mostra dei lavori del Laboratori di Sintesi finale del prof.Giuseppe Strappa: Lettura e progetto dell’organismo urbano di Castel Madama a.a. 2007/8

Introduce      Benedetto Todaro preside della Facoltà di Architettura “Valle Giulia” Presentazioni di Michele Civita, assessore alle Politiche del Territorio e Tutela Ambientale della Provincia di Roma Giuseppe Salinetti sindaco di Castel Madama Conferenza di Alessandro Anselmi Coordina      Giuseppe Strappa Intervengono:  Carmen L. Guerrero (University of Miami), Franco Cervi   (presidente della Co.Tra.L. Compagnia Trasporti Laziali) i coordinatori dei seminari del Laboratorio: Alessandro Camiz, Paolo Carlotti, Alessandro Franchetti Pardo, Nicola Saraceno Martedì 20 gennaio 2009, alle ore 9,30 Aula Fiorentino Facoltà di Architettura “Valle Giulia” via A. Gramsci 53, Roma mostra a cura di Alessandro Camiz allestimento di Alessandro Franchetti Pardo