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L’ EPOPEA BORGHESE DI SANTA MARINELLA

di Giuseppe Strappa

In “La Repubblica”, 1 agosto 1991

ARCHITETTURE DI MARE E DI COSTA
La storia delle architetture moderne delle coste e delle isole del Tirreno (le avventure dei luoghi, le vicende degli insediamenti) giace sepolta nelle viscere delle conurbazioni per le vacanze, come un resto antico e prezioso sotto una colata lavica : frammenti ormai smarriti tra orde di villette kitsch , modernissime  tracce che  appaiono  tra distese di ruderi edilizi vecchi di  soli trent’anni.  Sogni, anche,  rimasti sulla carta, disegni mai realizzati. Documenti  di una vocazione moderna tradita. Storie sommerse  e, a volte , ancora miracolosamente  vitali ed attive.

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“Non amavano il mare, ne parlavano quasi con soggezione; dicevano libeccio sottovoce, temendo di provocarne le furie.” I pastori di rado si affacciavano, all’inizio del secolo, alla costa sotto Capo Linaro. Si accostavano timidi e taciturni  all’osteria a ridosso del castello degli Odescalchi “vestiti di pelo come fauni”, osservavano sospettosi il litorale, ma pensavano ai pascoli sicuri, alle terre d’origine sulle montagne.
Come i pastori descritti da Marinella Lodi, lo sperone di capo Linaro, unico rilievo della costa a partire da Roma, sembra essersi spinto fino al mare per un puro accidente orografico. Sembra appartenere piuttosto all’entroterra, ai Monti della Tolfa, ai Sabatini: un lembo di costa di sicura vocazione terrestre, il cui  continuo rapporto di diffidenza col mare si è rafforzato nei tentativi frustrati di stabilire un legame con le imbarcazioni che, in ogni epoca, si scorgevano in lento movimento al largo, dirette verso il porto vicino  che nei secoli cambiava nome (Centumcellae, Civitas Vetula, Civitavecchia).  Quando, a metà del ‘600, si costruì finalmente  un porto, papa Innocenzo X  ne dispose l’immediato interramento, come un’anatema per aver rotto  l’isolamento marino del luogo  .
A partire dagli insediamenti più antichi destinati all’ otium dell’ aristocrazia  romana, questi piccoli rilievi sembrano propizi, invece, a quella  “civiltà di villa” che percorre gran parte della storia del paesaggio italiano.
Il principe Baldassarre Odescalchi deve aver compreso bene questa lezione quando, nel 1887, acquistò all’asta dall’ Ospedale Santo Spirito la tenuta di Santa  Marinella e il castello quattrocentesco che nel tempo i Barberini avevano trasformato in palazzo fortificato. Il principe dispose immediatamente i piani per una lottizzazione e ne favorì la crescita  utilizzando scaltramente lo strumento della pubblicità: la stampa divulgava l’inaugurazione di ville dove si svolgevano feste memorabili,  residenze lussuose  frequentate dal bel mondo, abitate da soubrette famose. La prima villa fu costruita per sé  dall’ingegner Raffaello Ojetti, che in quegli anni stava ampliando per il principe palazzo Odescalchi in via del Corso a Roma.  Ne seguirono presto altre.  In realtà, tuttavia,  le foto di fine ‘800 mostrano il luogo occupato da costruzioni rade, sperdute tra le sabbie e la macchia mediterranea selvaggia, con  capanne di legno avventurate sull’arenile quasi a sperimentare la rudezza del mare, a rassicurare le sortite sulla spiaggia  di timorose  famiglie borghesi . Costruzioni aggrappate alla ferrovia per Roma come ad un cordone ombelicale, dove non si riesce ad immaginare   il passeggio, le orchestrine, i sorbetti ,i piccoli agi, insomma,  di una   stazione balneare credibile. Capisaldi di una conquista ancora precaria, queste ville adottavano le piante semplicissime, i volumi pragmatici  e un po’ spogli della colonizzazione al primo impatto con un territorio non ancora domato. E’ solo molto più tardi, col  nuovo secolo, che si apre , sotto la regia dell’ammiraglio Astuto, presidente della Cooperativa “Pirgus”, la fiera delle vanità della borghesia romana. Vengono edificate  le prime  residenze  nelle quali l’architettura, come in una vetrina, mostra le condizioni sociali, le aspirazioni, il censo del proprietario.  Il tipo edilizio é  quello del “villino di città”, con  una torretta o un’altana che ne segnala l’individualità.  Sono costruzioni  informate ad un eclettismo prudente, secondo la tradizione romana, dove però non mancano  invenzioni discrete,  alimentate da una balneare levitas.  (come nella villa Zamboni-Bertagnolio in via Aurelia , nella  villa Soria a lungomare Marconi  o nel vicino villino Zocchi) e dove non mancano   echi  modernisti  che increspano, ad esempio,  i volumi dell’ eccentrica villa Bettina costruita dall’architetto Gilardoni. E tuttavia, come nota  Marta Francocci in un prezioso libretto che può servire da guida a queste architetture (La stazione balneare di Santa Marinella, 1887-1940 , edizioni Carte Segrete) non è un caso che l’unico esempio di adesione totale alle esperienze moderniste sia costituito da quel   villino Cerrano che Gino Smorti disegna in stile liberty per un direttore del vicino cementificio, per un  ceto imprenditoriale,cioè , dallo spirito innovativo assai raro nell’ambiente romano.
Negli anni ’20 si diffonde l’uso del  terrazzo, sostituito al tetto, mentre si vanno scoprendo, forse con  ottimismo eccessivo, i poteri taumaturgici  delle  radiazioni solari che , sosteneva una rivista dell’epoca “ti scovano il bacillo in mezzo alle viscere e lo annientano inesorabilmente.” Negli anni ’30 si costruiscono anche le prime ville “razionaliste” i cui  volumi elementari   parlano ancora  una lingua comprensibile  , dividono  un codice comune con le costruzioni precedenti, come villa Genesi in via Capo Linaro, che conserva i motivi tradizionali della torretta e del bow-window.
E’ il periodo di maggiore splendore della piccola epopea borghese di una  cittadina divenuta esclusiva ed elegante, dal lusso  non importuno, serena  nonostante la presenza di qualche gerarca.
Una stagione di pienezza  che prelude, tuttavia, alla decadenza.  Le cui  cui prime, lontane avvisaglie  si intravedono   già   negli anni ’20   con la lottizazione dell’area di Caccia Riserva,  dove i “villini” ad alta densità per il ceto medio anticipano  il modello delle palazzine , protagoniste dello sfascio edilizio del dopoguerra. Prima  della distruzione sistematica  del litorale laziale, tuttavia, Santa Marinella  vive ,negli anni ’50,una breve, estrema stagione di fasti. Si costruiscono ancora ville raffinate  che dialogano con la tradizione, come quella disegnata dall’architetto Luigi Racheli in via Ulpiano per l’industriale della birra Franco Peroni, mentre anche  le  palazzine sono costruite con cura, come quelle  sulla via Aurelia ,rivestite di maioliche blu , progettate da Monaco e Luccichenti.
Poi, nel ’54,  Luigi Moretti costruisce in via Capo Linaro  per la principessa  Pignatelli una villa dalle forme assolute, chiare come un gesto  simbolico.  E’ l’immagine  di  una svolta epocale nel destino di Santa Marinella. La “Saracena” (questo è il nome della villa, alla quale seguirà, postuma,  “La Califfa”)  parla un linguaggio nuovo, che rompe col passato. Un linguaggio  presto imitato a sproposito e volgarizzato su tutta la costa laziale . Rivolta al  mare , la costruzione è  protetta  verso la strada da volumi ciechi, rifiniti in intonaco grezzo, respingenti e inaccessibili come bunker. Perduta la cordialità dei “villini signorili”,  la nuova, famosa  villa    volge aristocraticamente (gelosamente, commenta l’architetto) le spalle alla cittadina  dove ancora passeggiano re Farouk e Ingrid Bergman. Quasi un presentimento,un ultimo tentativo di  sdegnosa difesa   dal turismo di massa .
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l’arte della progettazione e l’avvenire delle scuole di architettura in italia

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Universita’ degli studi di Roma “La Sapienza”

Facoltà di Architettura “Valle Giulia”

Venerdì, 18 aprile 2008

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LECTIO MAGISTRALIS

l’arte della progettazione e

l’avvenire delle scuole di architettura in italia

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Prof.Giuseppe Strappa,

ordinario di Progettazione architettonica e urbana

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Il titolo generale di queste lezioni riguarda il ruolo sintetico dell’insegnamento della progettazione.

Non è un titolo neutrale.

Il momento attuale vede anzi, in Italia, una progressiva frammentazione e specializzazione della didattica di architettura, con le conseguenti derive tecniche da una parte, ed artistiche, dall’altra, ponendo quesiti ai quali, ritengo, la riforma stessa dei nostri corsi di laurea dovrebbe dare una risposta.

La tesi di questa lezione è che occorra riconsiderare per intero l’insegnamento della progettazione intendendolo soprattutto nella forma di una scuola.

La scissione cui ho fatto cenno, peraltro, tra le due anime dell’architettura, sintetica e analitica, è parte costituente, da lungo tempo, della pratica e della didattica di progetto.

Questa condizione sembra anzi informare un intero ciclo della storia stessa dell’architettura nel quale possono essere riconosciute due fasi segnate da due opposte condizioni di crisi.

La prima è costituita dalla nascita della grande ingegneria ottocentesca che rivendicava una propria autonomia estetica la quale finiva per relegare il ruolo dell’architetto in uno specialismo comunemente indicato, con una contraddizione terminologica, “artistico”.

Una divisione che non era affatto insita nello spirito dei progressi della scienza i quali sembravano, al contrario, predisporre all’unità delle discipline di progetto.

Io credo che gli architetti non seppero cogliere, allora, le grandi prospettive di reale sintesi artistica aperte dalla comprensione del rapporto tra sapere scientifico e forma architettonica.

Claude-Louis Navier ad esempio, aveva esposto, già nella prima metà dell’Ottocento, attraverso la sua rivoluzionaria raccolta di lezioni di Scienza delle costruzioni un’interpretazione “architettonica” del problema strutturale, legando la lettura della realtà fisica al metodo operativo, la scienza all’estetica.

Anche se sotto il solo aspetto della costruzione, Navier aveva gettato le premesse per distinguere alcuni caratteri fondamentali degli organismi architettonici: la serialità di strutture nelle quali i diversi elementi sono sostituibili senza che cambi il carattere dell’intera struttura, dalla progressiva organicità di altre nelle quali ogni elemento stabilisce con il suo intorno un rapporto di necessità tale che la sua stessa forma e dimensione influenza il carattere dell’intero organismo.

Il termine “congruenza”, impiegato nella soluzione dei problemi iperstatici, legava insieme deformazioni, sollecitazioni e forma delle strutture, ed è lo stesso termine che può essere impiegato per leggere la progressione di organicità nelle architetture, il loro graduale predisporsi alla collaborazione.

La stessa nozione di vincolo, contribuiva a spiegare, in termini logici, uno degli aspetti della nozione di nodo che gli architetti del passato avevano sempre intuito.

Molte delle considerazioni sulla conformità e proporzione tra le parti di una costruzione elaborate per secoli dai trattatisti, trovavano un primo legame, seppure parziale, con la fisica e la matematica, dimostrando come intuizione e scienza potevano divenire due aspetti di uno stesso processo di conoscenza: espressione, appunto, dell “arte della costruzione”.

L’inadeguatezza a comprendere questo momento di potenziale sintesi era, in realtà, conseguenza di una trasmissione dei saperi fondata sulla scissione tra Écoles des Ponts et Chaussées e Academies des Beaux-Arts, portato di una cultura della progressiva specializzazione del lavoro funzionale ai nuovi equilibri sociali ed economici.

Aspetto, quest’ultimo, che Schopenhauer metteva in luce con profetica chiarezza, peraltro, con la pubblicazione del suo “La filosofia delle università” denunciando il ruolo funzionale dell’ insegnamento universitario al potere economico e politico.

Solo un grande, dimenticato architetto e ingegnere romano, Giovan Battista Milani, tradurrà, molto tempo dopo, queste considerazioni in didattica progettuale riproponendo la nozione di organismo come sintesi di strutture collaboranti, come solidarietà tra costruzione e forma.

E, tuttavia, la parzialità delle successive ricerche, non solo tecnico-scientifiche, dimostra come le conseguenze della crisi sia ancora operante, le contraddizioni non risolte.

Questa lunga frattura ha condotto, ritengo, ad una seconda fase di crisi, ancora in corso, simmetrica ed opposta alla precedente, individuabile nell’esaltazione di nuovi specialismi, che inducono alla contemporanea subordinazione dell’intero organismo architettonico alla potenza mediatica di forme elaborate con tecniche analogiche, funzionali al mercato globale dell’immagine.

Il nuovo distacco tra forma e costruzione, il fascino della grafica computerizzata che trascina ad equivocare il mezzo col fine, induce, questa volta, ad esaurire per intero il senso della costruzione nella sua autonoma superficie, proprio quando la tecnica,di nuovo, consentirebbe inediti strumenti di progetto capaci di controllarne, insieme, tutte le componenti. Il risultato è quello di una città dispersa costituita da oggetti non collaboranti, della perdita della nozione di tessuto,

Nell’ansia di immergersi nella contemporaneità, le università hanno coltivato un vero, nuovo genere letterario che sembra produrre una sorta di consenso estetico a questa forma della città contemporanea.

Vorrei dire in proposito, anticipando alcune conclusioni, che forse, al contrario, non bisognerebbe aver paura di introdurre nel nostro insegnamento quel tanto di inattuale che permetterebbe di vedere le cose in prospettiva, favorendo la formazione di una coscienza critica rispetto alle presenti condizioni della città.

In realtà il termine crisi dovrebbe contenere, come indica la sua etimologia, la nozione di critica: la messa in discussione di una realtà in trasformazione che, per ora, sembra ancora non aver luogo.

Si ripropone, ancora una volta, l’inadeguatezza delle università a fornire un’ analisi e un giudizio indipendente dalle condizioni stabilite dal potere. Con la differenza che il potere è ormai costituito da un sistema di mercato sovranazionale nel quale l’ informazione svolge un ruolo fondamentale di mediazione.

Non a caso in molte nostre facoltà vengono proposti come esempi di ricerca progressiva le opere delle grandi firme internazionali, le quali producono, con ogni evidenza, architettura ufficiale. E cioè, per definizione, il contrario stesso della sperimentazione.

Parafrasando una citazione tratta dallo scritto di Schopenhauer sulle università si potrebbe affermare che oggi, di fatto “se un’idea (ma anche un progetto) nega i principi della città contemporanea essa è ritenuta falsa, oppure, anche se vera, è inutile”.

Oggi, in un mondo in convulso e spesso drammatico cambiamento, è invece necessario ripensare in termini liberi e critici la forma dell’architettura, della città, del territorio. Collegandola a necessità reali.

Eppure perfino di fronte alle immense conurbazioni che sorgono nelle aree più povere del mondo, ad esempio, o di fronte alle distruzioni e alle emergenze delle aree di conflitto, l’architetto sembra invece, auto-esonerarsi dal penetrare nella struttura dei problemi, osservare da lontano e proporre distaccate considerazioni estetiche, come isolato in un grazioso salotto.

E veniamo alla nostra situazione.

Non occorre ricordare come nella didattica di architettura italiana la scissione cui ho fatto cenno abbia configurato un doppio binario formativo il quale, originato dalle accademie di Belle Arti e dai Politecnici, giustappone senza fonderli due opposti tipi insegnamento: intuitivo-artistico l’uno, logico-tecnico l’altro.

Una dicotomia che non solo si va accrescendo, ma che si ripropone oggi in modo ancora più chiaro con la formazione di due corsi di laurea paralleli (in architettura e in ingegneria-architettura) che hanno uguale fine ma ambiti culturali assai diversi.

Credo che l’origine di molti dei problemi della nostra didattica progettuale derivi dal fatto che la formazione delle facoltà di architettura ha recepito appieno lo spirito e la logica dell’insegnamento universitario.

L’ università è il luogo dove si insegnano i principi universali di ogni disciplina la quale, per questo, possiede un corpus autonomo di regole e metodi.

La sua origine, va ricordato, è legata alla sabauda legge Boncompagni che possedeva un forte carattere centralista e statalista, carattere che è rimasto nonostante le tante riforme apparentemente autonomistiche succedutesi nel tempo. Al loro interno le facoltà sono, per istituzione, strutture amministrative delegate a coordinare corsi di studio cui afferiscono discipline indipendenti, “liberate” dall’onere dei rapporti reciproci, legate dalla sola affinità scientifica. La ricerca e le relative occasioni di sintesi avvengono invece all’interno dei dipartimenti, in luoghi lontani dalla didattica.

Ma le esigenze dell’insegnamento del progetto vanno nella direzione opposta.

Io credo che l’avvenire dell’insegnamento dell’architettura non risieda nell’affrontare la complessità del mondo contemporaneo inseguendone i frammenti specialistici, come si è ritenuto di fare con la prolificazione delle lauree triennali, spesso statuti spesso incerti e fragili, ma nella rifondazione del centro disciplinare delle scienze di architettura, che non può che essere la sintesi progettuale.

Occorre cioè rifondare una scuola come luogo dove tutte le discipline, pur nella totale libertà di ricerca, collaborino (convergano) ad un comune fine didattico.

La tradizione moderna indica, peraltro, questa direzione, confermata non solo da esempi internazionali come il Bauhaus, ma anche dal dibattito italiano sulla formazione delle scuole di architettura che, profeticamente, educatori come Camillo Boito avrebbero voluto tenere lontane dalla logica universitaria.

La stessa tradizione di Valle Giulia, dalla sua fondazione nel 1921 è stata quella di una scuola dove Gustavo Giovannoni sulla scia delle convinzioni di Boito, proponeva la figura dell’”architetto integrale”, nella quale ogni materia impartita doveva essere finalizzata alla comprensione della realtà costruita e della sua storia, comprensione che per larga parte doveva coincidere col progetto stesso.

Oggi quel tipo di insegnamento non è più attuale.

Non solo per il numero degli studenti che sono passati dagli iniziali 55 a diverse migliaia, ma perché sono cambiate le condizioni al contorno: il mercato del lavoro, la complessità delle tecniche, la divisione del processo produttivo. E, tuttavia, ritengo, rimangono vitali alcuni principi fondanti.

Perché le mie affermazioni non sembrino astratte, vorrei proporre tre argomenti concreti di riflessione su come i diversi ambiti disciplinari potrebbero concorrere, a mio avviso, alla formazione di una scuola.

I materiali e le strutture

Proprio il processo di crescente astrazione del modo con cui viene comunicata l’architettura, insieme alla progressiva specializzazione delle discipline che concorrono al progetto, ha indotto a considerare i materiali, gli elementi, le strutture che danno forma all’organismo architettonico come la conclusione di un processo ideativo, la parte che riguarda la “realizzazione” , la traduzione di un programma in realtà costruita.

La conseguenza è che gli studenti “subiscono” oggi la tecnica costruttiva come un pesante compromesso tra ideazione soggettiva e realtà materiale.

In una scuola di architettura il loro studio dovrebbe indicare come materiali e strutture siano parti costituenti dell’invenzione stessa della forma.

Anzi, se si può propriamente parlare di atto “creativo” nel mestiere di architetto, questo riguarda la scelta del materiale, l’attribuzione (che è frutto della nostra coscienza) di caratteri alla materia, riconoscendone le attitudini alla costruzione.

Presso ogni civiltà la creazione è soprattutto ordinamento della materia operato distinguendone i caratteri con un gesto che è, dunque, fondamentalmente architettonico: la trasformazione del caos iniziale della materia in cosmos, in sistema ordinato di elementi.

Credo che se vogliamo proteggere i nostri studenti dalla cultura delle riviste, insegnare loro a non imitare, ad essere originali, dobbiamo indicargli questa origine, anche fisica, delle cose.

Si pensi, a dimostrazione di quanto detto, al flusso di materiali innovativi che stanno irrompendo nel modo dell’architettura contemporanea (vero caos artificiale che attende di essere trasformato in cosmos) al quale l’architetto ha il compito di attribuire carattere e finalizzazione costruttiva. In modo non molto diverso, a ben guardare, dal primo costruttore che si trovava, all’origine stessa dell’architettura, di fronte alla diversa plasticità della pietra e dell’argilla o all’elasticità dei rami e del tronco d’albero.

E’, in fondo, l’eterna nozione aristotelica di “materia segnata”, che andrebbe riconsiderata in un momento nel quale la ricerca sulle strutture segue ormai una specializzazione estrema, una deriva matematica ed astratta che sembra far perdere, come ci ha insegnato Edoardo Benvenuto, il contatto con la fisicità dei materiali e la forma concreta delle cose.

Credo che dovremmo far comprendere soprattutto ai nostri studenti come l’architettura sia una condizione di precario equilibrio nel grande flusso delle trasformazioni della materia e della storia, e poi riproporre in questa luce l’insegnamento di Mies Van der Rohe che spiegava come “ nuovi materiali, nonché nuovi sistemi costruttivi, di per sé non garantiscono alcuna superiorità. Ogni materiale vale per quello che si sa ricavarne.”

La rappresentazione

Quest’area disciplinare ha sempre avuto, nella Scuola romana, un fondamento critico, a partire dal “rilevamento filologico” di Giovannoni, che prevedeva lo studio “anatomico” dell’organismo costruttivo e il suo collocamento nel contesto più generale dei tipi consolidati, Non a caso nei disegni che ci sono pervenuti di Giovannoni non è possibile spesso distinguere la parte di rilievo dalla ricostruzione per fasi.

E in tempi più recenti i corsi di elementi di architettura e rilievo dei monumenti, confermavano come, almeno nelle intenzioni, lettura e progetto dovessero essere legate nello stesso insegnamento.

Un particolare problema ha sempre posto, sotto questo aspetto, l’insegnamento di disegno dal vero che ha costituito fino a tempi recenti uno strumento fondamentale dell’educazione al progetto.

La sua decadenza negli insegnamenti di architettura è molto precedente all’introduzione del disegno al computer. Nel ’57, in occasione del 1° Convegno dei docenti di Disegno dal Vero, a Firenze, Luigi Vagnetti poneva con molta chiarezza il problema, sostenendo che se il disegno doveva avere solo valore strumentale, sarebbe stato opportuno toglierlo dagli insegnamenti di architettura perché l’abilità manuale che ne derivava poteva essere ottenuta come esito secondario di molti altri insegnamenti.

E tuttavia, notava Vagnetti, alcuni dati della realtà non possono essere indagati attraverso alcuna “scienza del disegno” perché sono legati a fenomeni “la cui percezione ed il cui studio non sopportano il binario di alcuna teoria scientifica”.

Credo che, nell’attuale fase di progressiva astrazione del rapporto tra realtà e rappresentazione, recuperare la relazione diretta tra l’occhio che osserva e la mano che disegna possa essere ancora uno strumento fondamentale di educazione.

Ma va anche compresa la grande utilità didattica delle nuove tecniche dove software innovativi consentono la costruzione diretta della forma, non la sua derivazione da processi simbolici. Un procedimento che consente di superare l’eterno problema della rappresentazione del progetto secondo i piani della pianta, della sezione e del prospetto che, come sa bene ogni docente di progettazione, costituiscono un ostacolo alla trasmissione dell’idea sintetica di forma come aspetto visibile del sistema di relazioni tra spazio e materiali organizzati in strutture.

La storia, infine

Sull’utilità e sul danno della storia per gli architetti si è scritto molto.

Lo stesso Piacentini scriveva che “la storia non può darci suggerimenti per la vita di tutti i giorni”

La salvezza dalla storia (intuizione latente nel pensiero moderno che i grandi architetti del passato, tuttavia, inconsciamente possedevano) consiste nel riconoscere i nessi che individuano nel tempo la struttura processuale profonda e operante dei fenomeni, nel coglierne la capacità di rigenerazione a partire dalle matrici formative.

Questo uso della storia dovrebbe liberarci, auspicabile corollario, tanto dalle letture estetizzanti che hanno contribuito ad immettere la nostra disciplina nel circuito del puro consumo dell’immagine, quanto dalla storiografia intesa come museo, in fondo, davvero poco utile.

Io credo, dunque, che la storia, agli architetti, serva moltissimo. Non la storia consolatrice, quella che Nietzsche definiva “storia monumentale” del passato come modello, ma la storia critica, la comprensione dei processi formativi che servono all’operare

I padri fondatori di questa Scuola insegnavano la storia dei monumenti come riprogettazione.

Vincenzo Fasolo ricostruiva alla lavagna l’essenza degli organismi architettonici spiegandone i rapporti di necessità tra le parti, come costruendoli davanti agli occhi degli studenti. Era storia, la sua, ma anche disegno, strutture, progetto.

E “la storia operante “ di Saverio Muratori come la “critica operativa” di Bruno Zevi possono essere riguardate come diversi aspetti del comune problema di leggere la storia come rivolta al mondo concreto delle azioni umane, stratificazioni di esperienze e sperimentazioni sul modo di costruire e abitare lo spazio.

L’architettura, a differenza delle arti visive, non è solo raffigurazione della realtà: è la realtà, e la sua storia è quella di un flusso d’esperienze che dimostrano come l’uomo abbia cercato di abitare lo spazio riuscendovi, a volte, con sapienza e gioia e come questo sia ancora possibile.

Quindi non solo la storia della personalità degli artisti, non solo quello che è individuale ed unico, ma, soprattutto, se non vogliamo rendere allo studente un’immagine deformata della realtà contemporanea, quello che è generale e tipico.

Non ho considerato, in queste brevi riflessioni, discipline come l’urbanistica, il restauro, il paesaggio, per l’evidente ragione che costituiscono aspetti diversi di una comune disciplina di progetto dove l’oggetto è di volta in volta, la grande scala, l’eredità storica, la forma del territorio. Campi di applicazione che prevedono problemi e tecniche specifici, ma una comune formazione.

Per concludere.

Il progetto è dunque arte: non solo come espressione di un mondo individuale, nell’accezione romantica che da tre secoli informa la nostra disciplina, ma, se davvero vogliamo rinnovare il nostro insegnamento, come arte della sintesi, della capacità, insieme, di conoscere, interpretare, operare.

Credo che di questa considerazione si dovrebbe tener conto nella formazione delle nuove strutture per la didattica di architettura, cercando di superare il pericolo di arroccamenti e fughe specialistiche, attraverso il tentativo di una ristrutturazione orientata al principio di costruire una nuova scuola, dove il progetto non sia una delle discipline insegnate allo studente, ma possa, di nuovo, costituire il catalizzatore delle diverse discipline.

Un “organismo didattico” dotato della indispensabile elasticità e capacità di adattamento, ma dove anche, come in un’architettura ben disegnata, ogni elemento stabilisca con gli altri alcune solide relazioni di necessità, in modo che l’alchimia dei crediti non si sostituisca alla chiara visione dei fini dell’insegnamento.

E dove il recente titolo ministeriale di Scienze dell’Architettura non finisca per costituire un bizzarro esorcismo contro la corrente deriva irrazionale di un’ arte ed un insegnamento che rischiano di perdere il loro centro e la loro identità.

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Giovan BattistaMilani, , L’ossatura murale, Torino, s.d. [” 1920]

LA CITTA’ DEI RECINTI

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della sera» del 15.02.2004

Si torna a proporre, anche su queste pagine con un bell’articolo del prof. Mario Sanfilippo, l’uso delle recinzioni per proteggere i nostri  monumenti. L’argomento portato a sostegno delle cancellate è lo stesso da almeno un decennio: la loro presenza “storicizzata” nell’Ottocento, come nel caso esemplare del Pantheon.
Dando per scontato che in alcuni casi le recinzioni sono necessarie (per le emergenze, per i parchi, per le aree archeologiche), la volontà di difendere il singolo monumento contro la malvagità degli uomini, asserragliandolo in un museo a scala urbana, a me sembra un’utopia burocratica e vagamente folle.
Proprio le cancellate ottocentesche ne forniscono la dimostrazione. Esse rappresentavano la coerente conclusione di un processo di isolamento che tentava di abolire il passaggio del tempo, di restituire una forma originale del monumento astratta e mitizzata, depurata dalle incrostazioni della storia. Lo stesso pavimento del pronao del Pantheon, che ha destato tanta ansia di protezione, è stato messo in opera, nessuno sembra ricordarlo, nel 1885 (in sostituzione di un altro in mattoni, pure moderno) all’interno di un piano di restituzione delle forme antiche iniziato con la dolorosa demolizione delle trasformazioni barocche, dei campanili costruiti da Bernini, delle case medievali che vi si addossavano. Interrompendo così il rapporto con il tessuto nel quale il monumento era amorevolmente accolto e deformando il senso unificante dello spazio, cavo e glorioso, intorno al quale si avvolgeva la vita della città.
Dell’idea ottocentesca di monumento, marmorea e sepolcrale, le cancellate costituivano, dunque, l’esatta espressione simbolica.
Da allora la nozione di bene architettonico è molto cambiata: è divenuta dilatata e molteplice, si è estesa all’intero ambiente storico perché, soprattutto a Roma, il senso delle forme degli edifici risiede nel loro carattere di organismo, nella relazione tra  membra della costruzione e città, nel flusso della vita che vi scorre.
Ma è cambiata, soprattutto, la scala dei problemi e con essa la nostra idea di tutela.
Prima della guerra, ad esempio, non esistevano danni dovuti alle polveri e ai gas prodotti dalla combustione di migliaia di motori, all’acido solforico che oggi trasforma, si è scoperto, interi strati di pietra in gesso. Un processo che si va accelerando e che rischia di distruggere in pochi decenni monumenti pure sopravvissuti a secoli di oltraggi.
Cambia così, parallelamente al territorio da proteggere,  l’idea di recinto.
E si pone, con drammatica urgenza, la necessità di un progetto che affronti le cause (non gli effetti) dei problemi, che impieghi, alla scala urbana, nuovi recinti e nuovi limiti: alla pressione del traffico, del commercio incontrollato, delle trasformazioni edilizie, di un turismo aggressivo e volgare che guarda il Colosseo con gli occhi di Russell Crowe e trasforma il tessuto antico in un solo, grande locale per divertimenti. Con l’inevitabile indotto di rifiuti che invadono il pronao del Pantheon come in ogni altro angolo del nostro centro storico.