L’ESTETICA DELLO SPRECO

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 6 gennaio 2014

Come mai una collana di architettura pubblicata da un grande quotidiano si chiama Artisti che lasciano il segno nel mondo?   In una recente conferenza, il nuovo direttore della storica rivista Domus, Nicola Di Battista, rispondeva che è quello che il pubblico vuole: tinte forti, geni, magie. L?ostentato ego architettonico esibito dalle più note opere contemporanee coincide, in realtà, con l?immagine che le società affluenti vogliono dare della propria ricchezza, della capacità di realizzare opere preziose e complicate, di costruirle rapidamente, di mantenerle in modo esemplare.Credo che in questo quadro di competizione globale vada inserito il disastro della Città dello Sport di Tor Vergata, se si vuole capirne alcune contraddizioni di fondo. Il semplice progetto iniziale della Siit prevedeva una spesa di 120 milioni di euro. Rielaborato più volte dall?archistar Santiago Calatrava, il progetto raggiungeva la gigantesca cifra di 608 milioni di euro prima che il governo Monti ne frustrasse le velleità olimpiche.Le semplici ed economiche strutture iniziali si erano dilatate, trasformate in un sofisticato virtuosismo geometrico, tanto piene di armature da richiedere calcestruzzi speciali, casseri a tenuta stagna. Le coperture si erano trasformate in faraoniche vele dalle complesse trame d?acciaio e vetro che sembrano studiate per disperdere energia e far spendere una fortuna di manutenzione. Un inno allo spreco. Ora, dopo centinaia di milioni spesi, un ennesimo tavolo tecnico manifesta «la volontà di recuperare la struttura per le sue finalità pubbliche». Come se si trattasse di un rudere.Si potrebbe discutere a lungo su questa strada estetizzante che l?architettura ha intrapreso da decenni e sui segni del suo ormai evidente declino. Ma questa catastrofe annunciata dovrebbe farci chiedere se è proprio necessario che una città piena di problemi come la nostra debba seguire la corsa al gesto spettacolare, alle forme irripetibili che occupano per qualche giorno le pagine dei giornali e lasciano le finanze di interi paesi (come la Grecia delle Olimpiadi) in condizioni disastrate.Una capitale moderna, è vero, deve saper costruire grandi opere. Ma viene alla mente la nobile tradizione romana del «minimo strutturale» di Sergio Musmeci o delle grandi opere di Pier Luigi Nervi e Riccardo Morandi, tanto rigorose da far coincidere, in un?unica sintesi costruttiva, logica, economia e bellezza. Facendo di necessità virtù, Roma dovrebbe cogliere queste occasioni per indicare una via diversa: come si possano costruire, contro le architetture del lusso e della dissipazione che spuntano dovunque, opere autenticamente contemporanee che esprimano l?etica condivisa del buon uso delle risorse.Eppure si continua a giustificare spese enormi e cantieri infiniti con le ragioni dell?espressione artistica. Certo, se il non finito è una delle forme dell?arte moderna che testimonia un mondo in trasformazione, i cantieri romani sono il cuore autentico della modernità. Riflettano su questo gli abitanti e gli studenti di Tor Vergata che si aspettavano solo delle belle, civili strutture dove praticare lo sport.©