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ORGANICITA’ FUTURA

 

ORGANICITA’ FUTURA

di Giuseppe Strappa

In Città di Pietra – L’altra modernità, catalogo della X Biennali di Architettura di Venezia, Venezia 2006.

Il tema della sezione “Città di pietra” all’interno della Biennale d’architettura del 2006, ripropone alla riflessione alcuni temi fondanti delle discipline di progetto che sono stati a lungo ritenuti superati senza che alcun dibattito o, almeno, pensiero compiutamente espresso, ne avesse dimostrato la reale inattualità.

Credo che tra questi temi abbia un ruolo centrale, per il carattere fondante che possiede, quello relativo al principio di organismo e organicità, che informa appieno la nozione stessa di architettura mediterranea. Principio che sembra entrare, secondo una critica sbrigativa quanto settaria, in collisione con i portati più evidenti del pensiero contemporaneo: sembrerebbe non contenere e comprendere le radici profonde delle trasformazioni che sono alla base della formazione della città moderna e le modificazioni che determinano le condizioni di crisi della città contemporanea. Sotto questo riguardo il metodo di leggere la realtà costruita come organismo, a partire dal suo processo formativo, viene non di rado considerato, da una parte, strumento di pacificazione e conciliazione delle lacerazioni prodotte dalle trasformazioni dell’ultimo mezzo secolo ottenuto in vitro, nell’universo perimetrato e protetto dei riferimenti alla tradizione, secondo un consolidato luogo comune che vuole leggere la storia come luogo dell’armonia e la modernità come dissonanza, dall’altra una sorta di archeologia del territorio inapplicabile alla città contemporanea, per la quale  l’unica nozione utilizzabile sembra essere quella di “complessità”. Nozione in realtà ormai vaga proprio per essere divenuta, nell’uso, onnicomprensiva: che sembra documentare, ma non spiegare, la contemporanea frammentazione dell’unità formativa dell’architettura della città. Nessuno sembra chiedersi se dissonanze e frammentazioni, il disordine che sembra mostrarsi privo di significato, non siano in realtà lo strato superficiale di cambiamenti profondi, l’aspetto visibile di strutture in formazione, il segno ancora oscuro, come sempre nella storia, del nuovo ordine che sta emergendo.

Non c’é dubbio che le tecniche di progettazione abbiano subito, negli ultimi due secoli, un progressivo fenomeno di astrazione: dalla conoscenza diretta del paesaggio costruito si è passati alla conoscenza indiretta derivata dall’accumulo di riproduzioni del paesaggio reale (descrizioni comunque critiche e dunque inevitabilmente deformate del reale, che pongono un’attenzione “di parte” su alcuni aspetti dell’oggetto descritto, trascurandone altri) fino agli odierni modi di percezione, esclusivamente mediati. La percezione contemporanea, filtrata e indiretta, contribuisce a separare le forme tra loro rendendole autonome, impedendo di cogliere l’intervallo prezioso tra le cose.  Che diviene vuoto.

Siamo dunque di fronte ad una crisi che ha caratteri inediti rispetto alle grandi fasi critiche, di transizione, che hanno percorso fino ad oggi la storia della città e del territorio:  l’interpretazione artificiale e mediatica del mondo si sovrappone alla percezione naturale della realtà, consentendo di “liberare” la forma dal suo alveo concreto, di staccarla dai legami organici che la tengono unita agli altri prodotti dell’antropizzazione del territorio: di proporre forme analoghe a quelle del mondo reale letto nella sua disgregazione ponendo problemi, e questo è uno dei nodi della questione, appartenenti tradizionalmente ad altre discipline “descrittive” che operano di diritto sulla forma staccata dalla realtà. Trascurando così che l’architettura, nella sua essenza, non è descrizione (né imitazione o interpretazione) della realtà: è la realtà. E separando, nello spazio e nel tempo, le forme dalla loro cornice naturale, tranciandone le relazioni reciproche e dunque perdendo la possibilità di leggerne la ricchezza, la complessa necessità reciproca nel grande flusso delle trasformazioni del paesaggio costruito.  L’organicità dell’edificio, della città, del territorio, non risulta leggibile, infatti, nella forma “principale” sulla quale si focalizza l’interesse dell’osservatore, ma nello spazio che è generato dall’incontro, dall’intervallo o dall’ intersezione tra le forme, che dimostra la con-formazione dell’elemento, la sua maggiore o minore predisposizione ad accogliere il rapporto con altri elementi, a disporsi all’aggregazione, a formare unità di grado maggiore.  Spazi che nelle periferie, nei margini conflittuali e irrisolti della città contemporanea hanno acquisito la dimensione di grandi  schegge nelle quali, tuttavia, non si compie lo sforzo di riconoscere la traccia  alterata della forma che precede l’esplosione. Se non si coglie il senso delle polarità delle quali è intersezione, lo spazio ibrido e vago delle periferie finisce col ricadere nel grande mare del pittoresco metropolitano e l’unica spiegazione della forma che assume la complessità finisce con l’appartenere al dominio della statistica: il reale come caso particolare  e fortuito del possibile. La nuova retorica del vuoto  può essere letta, per questa via, come rifiuto della concretezza dello spazio-intervallo tra le forme, prodotto dell’indagine analitica delle molte espressioni della città e del territorio che riduce ogni oggetto a frammento, ogni forma a rovina, ovvero resto di un processo di mutazioni separato dalla propria dimora organica (si vedano in proposito le anticipatrici considerazioni di Paul Virilio sulla dematerializzione del paesaggio urbano e l’irruzione di tecnologie dell’immagine virtuale in L’orizon negatif,  Paris 1984).

In altri termini, il contributo della nozione di organismo alla lettura della città contemporanea ritengo  possa consistere in un richiamo, critico e vitale, alla realtà: nel dimostrare come non esista il vuoto se non nel modo contemporaneo di percepire il mondo come dematerializzazione della realtà fenomenica, nell’immagine astraente che separa lo spazio dai propri contorni, i quali in realtà lo in-formano, danno aspetto riconoscibile, nella loro interezza, a sequenze di strutture e processi operanti, altrimenti invisibili.

Mi sembra che la leggittimità di questo contributo sia messo in crisi da quattro condizioni al contorno che sembrano vanificare ogni sforzo di aggiornamento della nozione di organismo.

1. A conforto delle tesi sull’obsolescenza della nozione di organismo si aggiunge oggi una nuova, evidente  condizione, mai sperimentata prima d’ora in termini tanto estesi, di enorme abbondanza di risorse disponibili nel mondo occidentale. Condizione che ha inciso profondamente anche nel modo di concepire l’economia dell’architettura col rendere meno stringenti alcune fondamentali necessità nei rapporti interni tra parti dell’organismo architettonico e urbano.

Da tempo il termine “consumismo” è entrato nel novero delle parole abbandonate, retaggio innominabile di un sociologismo polveroso. La spiegazione è semplice:  in realtà la logica onnivora del consumo (unitamente a quella ad essa inevitabilmente collegata della competizione) è talmente connaturata alla condizione contemporanea da essere divenuta invisibile alla critica, da costituire il vero terreno di coltura e di confronto dell’innovazione in architettura.

Con effetti, peraltro, spesso dannosi, come nel caso della costruzione dellaTrés Grande Bibliothéque di Parigi, il cui progetto, come nota J.M.Mandosio (L’effondrement de la Trés Grande Bibliothéque, Parigi 1999), si adegua con tanta partecipazione alle richieste di “spendibilità” politica dell’immagine, da  lasciare irrisolti i problemi legati alla natura stessa dell’organismo architettonico.

Il limite antimoderno ma anche, allo stesso tempo, la forza stessa del metodo progettuale legato alla nozione di organismo, risiede nella sua attitudine esemplificativa e dimostrativa della realtà, nel prefigurare un mondo di regole depurato e semplice (simplex  come contrario di multiplex) : un processo di riduzione critica della realtà dunque che, come tale, contiene allo stesso tempo, si noti, complesse scelte interpretative e programmatiche. La “semplificazione critica” prende atto della complessità-multiformità del costruito e si pone, in questo senso, non diversamente da ogni ipotesi scientifica, come risultato di un atto di selezione: la possibile sintesi unificante ricercata in quanto la realtà costruita contiene di tipico e generalizzabile, come uno strato geologico profondo che si modifica con lentezza al di sotto del flusso delle improvvise e caotiche trasformazioni superficiali. Forzando un po’ la mano possiamo dire che, come in qualsiasi testo, noi leggiamo nella città e nel territorio quello che vogliamo e possiamo leggere (in questo senso la lettura non è mai neutrale ma è, essa stessa, progetto). Se si osserva la realtà costruita con l’ottica cui abbiamo fatto cenno, non è difficile riconoscere come sopravviva, potente, un sostrato culturale che induce all’uso di forme e tecniche costruttive  specifiche e differenziate all’interno di aree che hanno sviluppato, storicamente, caratteri comuni: ancora, e di nuovo, sono oggi riconoscibili i diversi aspetti, perfino nella sperimentazione architettonica, tipici delle aree a tradizione elastica e di quelle a tradizione plastica dando luogo ad una possibile individuazione di caratteri, se non omogenei, almeno leggibili con una certa costanza, interni alle aree di tradizione seriale e gotica (non solo nordeuropee ma anche nordamericane) e di tradizione organica e mediterranea.

Funzione ordinatrice e semplificatrice, si diceva, la quale costituisce, si badi, tutt’altro che la banalizzazione dei dati della realtà. Al contrario la semplificazione rappresenta l’atto complesso di riconoscere la struttura portante del problema che permette di superare l’accessorio, il dettaglio, il complemento secondario destinato ad uniformarsi (a comporsi in unità) secondo la traccia generale disegnata nell’insidioso groviglio di segni che ogni paesaggio contemporaneo contiene. Metodo che ha pieno diritto, ritengo, a rivendicare una possibile attualizzazione: la lettura dell’esistente non può, in realtà, oggi, avvenire nella “piena innocenza” della pura constatazione, per le molte conseguenze che il modo di leggere e progettare la città per parti (e la città letta “per frammenti” non ne è che la conseguenza estrema) ha avuto sullo sviluppo disastroso della città europea degli ultimi quarant’anni.

2. E’ evidente che la diffusione a rete degli scambi e la globalizzazione dell’informazione  sono tra i fenomeni contemporanei quelli che possiedono, insieme ad una grande forza di suggestione, le maggiori potenzialità di trasformazione della vita urbana; e tuttavia, nonostante le teorie più aggiornate vi facciano continuo riferimento, non sembra essere stata elaborata alcuna proposta credibile che metta in relazione tali fenomeni con la possibilità del controllo progettuale della realtà costruita, né alcun disegno di architettura è riuscito ad includere, se non attraverso la suggestione dell’immagine analogica, l’innovazione delle mutazioni della comunicazione diffusa.

La quale ha già prodotto da tempo, peraltro, i suoi effetti traumatici nella vita quotidiana con l’introduzione delle reti telefoniche, seguita dalla diffusione del fax e della posta elettronica. In realtà l’architettura possiede una sua non eliminabile fisicità in grado di accogliere soprattutto le mutazioni che riguardano l’ambiente fisico. Molto più delle nuove forme di comunicazione immateriale, i cambiamenti indotti dalla “fisicità” delle forme di trasporto meccanizzato hanno contribuito all’aggiornamento degli edifici, dei tessuti, delle strutture del territorio. Si pensi, a fronte dell’ impatto relativamente scarso prodotto dall’uso del telegrafo o della posta pneumatica, alla rivoluzione operata dall’ introduzione dell’ascensore nella forma degli edifici. L’edificio specializzato seriale assumeva, tradizionalmente, la forma di un tessuto nel quale veniva operato un ribaltamento dei percorsi all’interno (il palazzo, ad esempio, il convento e gli infiniti tipi edilizi da essi derivati).  Rispetto a questi percorsi tradizionali, soprattutto orizzontali, i vani scala non potevano che porsi, per la brevità del loro sviluppo, come prosecuzione o comunicazione tra percorsi e la cui lunghezza veniva limitata da evidenti ragioni antropiche. Con l’irruzione del trasporto meccanizzato il vano ascensore diviene un vero e proprio asse che individua un percorso verticale sul quale si impiantano, seppure instabilmente,  percorsi secondari orizzontali che distribuiscono i diversi piani. Viene così ricostruita, in verticale, la logica della gerarchizzazione delle percorrenze di un tessuto, aprendo fisicamente una terza dimensione all’incremento dell’organismo aggregativo: con le dovute cautele e revisioni, la processualità  formativa delle torri nella metropoli contemporanea, permette ancora di riconoscere la presenza della nozione, aggiornata, di tessuto.

Si pensi poi, passando dalla scala dell’organismo edilizio a quella dell’organismo urbano e territoriale, all’innovazione costituita dall’introduzione delle linee tranviarie e metropolitane, delle reti ferroviarie, fino all’attuale meccanizzazione totale: da un luogo della terra all’altro il viaggio avviene oggi solo attraverso la mediazione della macchina (l’auto o il treno metropolitano, il nastro trasportatore, la scala mobile, l’aereo e poi di nuovo la scala mobile, il nastro trasportatore, il treno metropolitano o l’auto) in una sequenza razionale di percorsi che acquisisce un proprio carattere (riconoscibile e programmabile) distributivo, spaziale, estetico. Accanto a questi fenomeni riconducibili entro l’alveo generale del processo di mutazione dei caratteri tipici della città e del territorio, gli altri fenomeni dovuti alla formazione delle reti di comunicazione immateriale (il decremento nella gerarchizzazione dei centri o de-centramento; l’instabilità del rapporto tra attività produttiva e luogo, o de-localizzazione) intervengono come indicazione generale che non può essere articolata in tutta la sua imprevedibile complessità. La quale deve essere ridotta alla sua essenza di orientamento, alla previsione di comportamenti “elastici” ma, riteniamo,  non labili.

All’interno della tendenza largamente diffusa alla mitizzazione estetica della contemporanea congestione della metropoli e del territorio, la diade progetto – realtà si può quindi riconoscere nella coppia di  termini contrapposti e complementari semplificazione – complessità, dando origine alle due nozioni di realtà semplificata e complessità progettata dove la prima indica la conoscenza della funzione critica non solo del progetto, ma anche della lettura di cui il progetto è parte costituente, mentre la seconda si associa al ruolo astraente del progetto contemporaneo, che tende a proporre come fine dell’architettura non lo scioglimento (o almeno il razionale controllo) della complessità intesa come multi-forme (come forma multipla nella quale riconoscere l’unità di grado superiore) ma, come cercherò di chiarire, la sua comprensione generale, l’espressione sintetica dell’ unità frammentata come plesso inestricabile.

3. In questo senso le teorizzazioni dei ricercatori della complessità (il cui fitto stuolo di più o meno dichiarati epigoni ha contribuito in modo rilevante alla contemporanea dispersione del ruolo dell’architettura e dell’architetto) si pongono come cosciente lettura semplificata della realtà alla quale fa seguito un artificioso progetto della complessità.

Tutte le contraddizioni economiche e sociali che hanno condotto alla formazione della metropoli contemporanea come gigantesco nodo territoriale inestricabile, terribile ed affascinante, vengono colte sinteticamente e semplicememte nel loro valore estetico di individuazione dei caratteri estremi della complessità urbana, da riproporre con gli strumenti della descrizione, e quindi fondamentalmente letterari, nella progettazione del nuovo, anche in aree culturali dai caratteri radicalmente diversi.

La Manhattan della Delirious New York raccontata da Koolhaas, non a caso, è il luogo deputato alla trasformazione permanente che contiene non solo l’immagine della mutazione, dell’irrazionalità e dell’utopia, ma anche  degli strati  di architetture possibili, layers  di progetti abortiti che costituiscono possibili alternative alla realtà costruita. L’ interpretazione critica e processuale che la “cultura della congestione” in qualche modo contiene, mette in evidenza la crescita programmaticamente antiorganica della metropoi contemporanea,  l’estremizzazione delle sue matrici seriali, lo sviluppo per addizioni continue in conflitto tra loro.  Ma la critica di Koolhaas contiene, anche, la presunzione di progettare la casualità del molteplice letto nei suoi frammenti separati: l’evocazione della complessità dei suoi primi progetti per Le Havre, Lille, Karlsruhe, finisce per divenire il gesto del samana , per apparentarsi al rito taumaturgico che media forze irrazionali, misteriose, incontrollabili. Perduta la pertinenza con la propria fase storica e con la propria area culturale (tolte dal loro tumultuoso contesto economico e antropico) le forme delle torri-grattacielo si trasformano in oggetti di evocazione,  non dissimili, in fondo, dalla (ormai) nostalgica imitazione di modelli e comportamenti lontani e mitizzati, diffusi in Europa almeno a partire dal secondo dopoguerra. Una tecnica di seduzione, evocatrice di un mondo nuovo della densità e dell’accelerazione, dove le contraddizioni sembrano di volta in volta, illusoriamente e paradossalmente, sciogliersi per eccesso di concentrazione.

Ma non è affatto detto che l’architettura del futuro, sulla scia, in fondo, delle visioni che da Jules Verne a Le Corbusier, da Marinetti a Robert Moses hanno percorso l’immaginario occidentale moderno, dovrà prendere le forme del mondo della velocità, della macchina, dell’intensificazione dei flussi. Ne’ che il fascino della scoperta del caos latente nell’Universo, delle nuove teorie scientifiche che ipotizzano l’indeterminatezza del rapporto tra causa ed effetto, sia qualcosa di più che una giustificazione vaga ed effimera di una frammentazione (di una perdita della capacità di leggere il generale negli infiniti particolari che la realtà di continuo propone) che ha invece ragioni interne alla crisi di trasformazione che l’architettura  periodicamente subisce nei momenti di grande passaggio epocale.

E’ invece possibile che, passata  l’euforia analogica e lo stupore per i cambiamenti in atto, l’architettura della città futura, sulla scia della grande tradizione mediterranea, aggiornata dal portato dei tempi, risulti fondata sull’aggregazione di grandi vani vuoti capaci, anche, di contenere il fragore dei grandi flussi di una popolazione instabile, rumorosa, migratoria senza per questo inseguire un’impossibile adeguamento ad ogni cambiamento in atto: tutto quanto è destinato a seguire una mutazione, non può che prescindere dalle forme della mutazione stessa, dovendo possedere una solidità di grado superiore, capace di ospitare l’incognito. Il naufragio dei miti della “dimensione umana”, delle tante macchine per abitare, curare, riunire disegnate dagli architetti, ha mostrato, oltre ogni ombra di dubbio, la necessità di separare il mutevole, l’accessorio, il transeunte (la parte mobile e fragile del costruito) dalla solidità della pietra che sostiene e separa.  Per questo le nostre città torneranno ad essere, nell’organicità dei loro caratteri, città di pietra, anche se la pietra sarà sostituita da altri materiali a carattere murario (in questo senso l’architetto contemporaneo è il primitivo del nuovo millennio il quale, di fronte delle nuove materie che la scienza e l’industria gli propongono, tenta di riconoscerne faticosamente i caratteri, il processo attraverso il quale la materia nuovissima può essere  trasformata in materiale.

Questa architettura (della quale sembrano già emergere i segni di un’inaugurale poesia) darà i suoi prodotti esemplari, non diversamente dalle basiliche e dai fori dell’antichità mediterranea, proprio nelle grandi infrastrutture a contatto con la velocità e con la macchina: nelle fabbriche dove una tecnologia in continua evoluzione non permette alla forma di adeguarsi a funzioni provvisorie, in continuo mutamento, ma soprattutto nei grandi nodi di scambio territoriale. In tutti quei luoghi, in altre parole, dove la complessità deriva dalla mancanza (dall’impossibilità) di riconoscimento dei nessi tra le cose: riconoscere l’aeroporto (ma anche la stazione della metropolitana, lo scalo dei container ecc.) come nodo di una struttura di percorrenze risulta infatti impossibile di fronte alla mancanza di visibilità fisica della rete di trasporto. E tuttavia sarebbe semplicistico leggere l’aeroporto come frammento, le stazioni delle subways  come tessere disperse nel flusso delle trasformazioni urbane. L’architettura dovrà farsi carico, al contrario, anche del non visibile, dell’organicità non direttamente leggibile che lega gli aeroporti tra loro, come pure le stazioni delle metropolitane e i nodi dell’alta velocità. Non è un caso che le nozioni di organismo e  tipicità riemergano proprio nei contesti dai quali, come espressione riconosciuta della modernità, dovrebbero essere più lontane.

4. Ultimo e consolidato aspetto della questione che prenderemo in esame: la pretesa obsolescenza della nozione di tipicità, strettamente connessa a quella di organismo, a fronte del vortice del cambiamento nei processi produttivi insorto con la modernità ed esasperato dalla crisi contemporanea.

Forse occorrerebbe riflettere, più di quanto non sia stato fatto fino ad ora, sulla permanenza della nozione di tipo nell’architettura moderna: gran parte della didattica e della produzione storiografica contemporanee continuano a proporre l’architettura moderna come risultato di una grande koinè innovatrice la cui coesione era basata su una sorta di eroica negazione del tipo.

Questa negazione, ultima difesa di un tenace individualismo tardoromantico, effettivamente latente in molti manifesti della modernità, era in larga parte dovuta alla condizione di crisi indotta dall’irruzione della macchina, considerata come innovazione improvvisa che causa il mutamento fulmineo, la rivoluzione estesa ad ogni campo delle attività umane, e quindi, anche al carattere degli edifici.

Orbene, considerando la macchina, anche nella sua versione aggiornata di hardware, sotto un diverso, più realistico punto di vista, non si può non riconoscere il suo evidente contenuto tipologico.

Consideriamo, ad esempio, il divario tra ruolo dell’aeroplano nell’immaginario moderno e la sua essenza fenomenica di prodotto industriale. Dal paragone fra il processo di mutazione dei tipi di edificio e dei tipi di aeroplano nascono sorprendenti analogie: non esiste aereo che sia stato totalmente inventato, ma famiglie di aeroplani dove ogni nuova macchina costituisce un aggiornamento della macchina precedente: si pensi alle grandi famiglie di macchine abitate, ai Latécoère, ai Caproni ammirati da Le Corbusier, ognuna deposito di esperienze e innovazioni, piccole e grandi modificazioni, specializzazioni successive. E, poi, alla trasformazione dei materiali: accanto agli esperimenti, nella produzione corrente, negli edifici come nelle macchine, i cambiamenti improvvisi nei materiali non portano immediatamente a forme nuove: aerei costruiti dapprima in legno e successivamente in metallo rimangono pressoché identici per un tempo relativamente lungo, mantenendo i caratteri del tipo, poi aggiornato sviluppandone nuove potenzialità. Ogni tipo è così pertinente alla propria fase storica: il tipo sperimentale, assolutamente innovativo, non può trovare applicazione che nell’ambito ristretto del laboratorio. Negli anni ’30 è stato costruito, negli Stati Uniti, dalla Douglas, un aereo straordinario, realizzato a seguito di un’inchiesta sulla domanda di innovazione nei trasporti, che conteneva tecnologie degne di una macchina degli anni’70. Eppure, nonostante il costo di sviluppo avesse raggiunto i 30 milioni di dollari,  questa macchina  non è stata immessa sul mercato poiché le condizioni tecnologiche ed economiche, la cultura tecnica, l’intero contesto nel quale avrebbe dovuto operare,  non consentivano di recepire la rivoluzione proposta.

Se si prescinde dalle semplificazioni di una storiografia di parte, i documenti della vicenda italiana dell’ architettura moderna mostrano, peraltro, come fosse evidentissima la coscienza del limite culturale e storico dell’innovazione anche nel processo di identificazione tra edificio e macchina.

Basterà rileggere, in proposito, alcuni passaggi del manifesto pubblicato nel 1926 dal Gruppo 7, una delle prime teorizzazioni italiane dell’architettura moderna: “Le nuove forme dell’architettura dovranno ricevere il valore estetico dal solo carattere di necessità,e solo in seguito per via di selezione nascerà lo stile. Si è detto per selezione,questa parola sorprende. Aggiungiamo: occorre persuadersi della necessità di produrre dei tipi,pochi tipi fondamentali. Questa necessaria, inevitabile legge incontra la più grande ostilità,la più assoluta incomprensione. Ma guardiamoci indietro,tutta l’architettura di Roma nel mondo è basata su 4 o 5 tipi e tutta la sua forza sta nell’aver mantenuto questi schemi,ripetendoli e perfezionandoli per selezione,appunto. Ma l’idea della casa tipo sconcerta, spaventa,suscita i commenti più grotteschi e più assurdi. Si crede che fare delle case tipo, in serie, significhi meccanicizzarle, costruire edifici che somiglino ai piroscafi e agli aeroplani. Deplorevole equivoco,nell’architettura non si é mai pensato di ispirarsi alla macchina. L’architettura deve aderire alle nuove necessità come le macchine moderne nascono da nuove necessità e si perfezionano con l’aumentare di quelle. La casa avrà una sua nuova estetica, come l’aeroplano ha una sua estetica,ma la casa non avrà quella dello aeroplano”.

Passaggio che, mi sembra, possa costituire in questo contesto non solo lo scioglimento di un equivoco ancora persistente  nel dibattito in atto, ma anche la prefigurazione, assolutamente limpida, di un’alternativa, di una via organica e processuale alla deriva estetizzante e tardoromantica dell’architettura contemporanea.