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SALVARE VIA DEI FORI IMPERIALI

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 15.11.2003

Alcuni articoli comparsi di recente su queste pagine ripropongono il problema della sistemazione dell’area archeologica romana dando come scontata la demolizione di via dei Fori Imperiali. Operazione che, peraltro, si va ormai imponendo in modo strisciante attraverso continui scavi che finiranno per dimostrare, immancabilmente, la “necessità scientifica” della distruzione.

Occorre invece, ritengo, riflettere sulla questione nei suoi termini più generali superando ideologie e schieramenti. Cesare Brandi lo fece con grande coraggio civile in un articolo dell’87 sul Corriere della Sera nel quale affermava limpidamente che la città non tollera una zona di demolizioni nel suo centro vitale e che non basta dire che via dell’Impero fu un misfatto fascista, ricordando che “la caratteristica fondamentale di Roma è d’essere una città prospettica impiantata come una città ideale del Rinascimento”.

Quell’articolo impeccabile andrebbe ripubblicato integralmente perché, dopo vent’anni, il problema non è sostanzialmente cambiato. Anzi, si è radicalizzato per la singolare pretesa dell’archeologia di possedere una propria oggettività scientifica, quasi che lo scavo non fosse una trasformazione di spazi, segni, funzioni della città, come dimostrano i crateri da città bombardata attorno alla Basilica di Massenzio, nei quali le rovine messe a nudo si offrono ad una contemplazione vagamente necrofila.

Il carattere profondo di Roma risiede, invece, nell’immanenza nascosta dell’antichità, nel racconto delle origini mescolato agli sviluppi della città rinascimentale, barocca, moderna. Un sedimento collettivo e unificante che si trasmette alla vita quotidiana della città in forma antididascalica, attraverso stratificazioni spesso misteriose che continuano a far vivere, segretamente nascosto, il pathos dello spazio primitivo. Accadeva anche, ad esempio, nei SS. Cosma e Damiano prima che fosse “liberata”, negli ultimi anni, l’aula circolare del “Tempio di Romolo”.

Un malinteso ruolo dell’archeologia sembra oggi voler comunicare, del messaggio dell’antico, una versione asettica e semplificata. Via dei Fori Imperiali diviene, così, solo un intralcio ai lavori di scavo, dimenticando che quell’asse conclude un processo formativo iniziato, almeno, a partire dal piano regolatore del 1873 il quale, di fatto, già prevedeva il collegamento tra piazza Venezia e l’area del Colosseo. Processo poi confermato dal piano Sacconi del 1897 e continuato con le demolizioni previste dai piani di Koch (1907) e Sanjust (1909). Un’eredità ormai storicizzata, dunque, che è costata la perdita dolorosa di preziosi tessuti urbani, ma che oggi non può essere negata in nome di una riesumata retorica della liberazione dell’antico.

Per questo il grande spazio rivolto verso il Colosseo deve essere salvato dalla furia del nuovo “piccone liberatore”: per permettere ai romani di riappropriarsene trasformandolo, magari, in un luogo per spettacoli, manifestazioni, riti civili. Uno straordinario foro moderno capace di tramandare il monito e la nobiltà dei fori antichi sui quali è fondato.

LA LEZIONE DELL’ARA PACIS

di GIUSEPPE STRAPPA
in «Corriere della Sera» del  4.11.2001

Posto nei termini di conservazione o innovazione il problema dei nuovi interventi per Roma, come quello dell’Ara Pacis, risulta insolubile. Se non c’è dubbio, infatti, che la città si vada inevitabilmente trasformando secondo un processo fisiologico inarrestabile, è anche vero che l’ammirazione acritica per le nuove architetture mitteleuropee, per le decostruzioni, per l’ high-tech con cui gli innovatori hanno identificato la modernità (si veda l’esito dei recenti concorsi di progettazione) non possono che propiziare nuovi guasti. Forse bisognerebbe riflettere sul fatto che le rivoluzioni introdotte dai pionieri, consolidate nel tempo come carattere «autentico» del moderno e perno dell’architettura universale, sono in realtà l’esito specifico di un processo che da secoli opera nelle aree egemoni del nordeuropa. Di contro, la cultura legata alla continuità, alla consuetudine costruttiva plastica e muraria, ha sviluppato a Roma un’architettura moderna dove tutto è legato da una stessa nozione di organicità, dove spazio, distribuzione, struttura, obbediscono ad una stessa legge formativa. Un’architettura forse difficilmente apprezzabile da palati assuefatti agli scintillanti exploit alla Frank Gehry, ma che ha dimostrato, attraverso opere straordinarie, come la nozione di durata dell’architettura sia un patrimonio alternativo al mito, in declino, della macchina e a quello, emergente, dell’informatizzazione. Quando pensiamo una nuova architettura per Roma dovremmo forse giudicarla secondo la sua condizione di futura rovina, della quale quella presente non è che uno stato di provvisorio passaggio, una transizione. Basterebbe allora paragonare l’immagine di miserevole disfacimento suscitata dai molti capolavori della modernità ufficiale caduti in rovina, con la nobiltà che collassi statici e perdita di funzione hanno attribuito agli edifici antichi, per capire come l’ideologia del moderno internazionale, esaltando l’idea di obsolescenza, demolizione, sostituzione, risulti estranea al carattere dell’architettura romana.
Ma a Roma, almeno nella sua parte consolidata, il rapporto solidale e necessario tra l’organismo urbano e gli elementi che lo compongono lega i resti dell’eredità antica alle fondazioni della città barocca, i tracciati medievali alle costruzioni di età umbertina. La grande civiltà degli spazi pubblici romani è, soprattutto, il risultato di una secolare arte di costruire la città legata alla cultura condivisa del generale e del comune contro l’accidentale e il frammentario. Qui il problema della forma di uno spazio pubblico non può che modernamente porsi nel processo di trasformazioni che hanno costruito lo spazio attuale modificando la materia portata a riva dalla storia.
Posta in questi termini, anche la polemica sulla sistemazione dell’Ara Pacis potrebbe avere un respiro diverso: se i fotomontaggi di Meier mostrano con chiarezza la estraneità del nuovo museo al carattere del luogo, il vuoto che ormai le demolizioni hanno generato a ridosso del lungotevere si offre alla riflessione sul carattere della Roma futura, propiziando la formazione di un grande spazio urbano che leghi organicamente l’area sul fronte di San Rocco e San Girolamo (l’antico Porto di Ripetta), il Mausoleo di Augusto, l’asse di via di Ripetta. Le generose energie profuse nei progetti sarebbero state utilmente impiegate, almeno, per porre un problema di vasta portata.

LE POLEMICHE PER PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 04.08.2006

Dopo i problemi sollevati dalla distruzione del complesso dell’Ara Pacis, la proposta di demolire gli edifici “brutti” costruiti da Vittorio Ballio Morpurgo intorno al Mausoleo di Augusto potrebbe essere considerata una bizzarra esercitazione accademica se non fosse avanzata da due autorità dell’urbanistica e dell’archeologia romane con serie possibilità, quindi, di concreto seguito.
Certo, nel clima delle rivalutazioni, spesso indiscriminate, che hanno investito il dibattito romano degli ultimi vent’anni, la figura di Morpurgo ha la colpa di non essere stata oggetto di alcuna riscoperta, ultimo esempio di architetto dannato dagli errori della retorica fascista.
Ma non è possibile evitare di domandarsi cosa si ricostruirà sulle rovine degli edifici eretti alla fine degli anni ’30 a conclusione di studi che si erano estesi, almeno, dal piano del 1909 a quello del 1931. Un nuovo spazio aperto che lascerà in vista i disomogenei prospetti di via della Frezza, fuori scala, peraltro, rispetto all’immenso vuoto della nuova piazza? Oppure un’architettura di lacerazioni, alla Zaha Hadid, magari avallata da una commissione di concorso formata dai soliti esperti che guardano con ansia ritardataria alle mode internazionali?
Scenari che consigliano di riconsiderare meglio gli edifici esistenti, dimenticando i pregiudizi di una critica frettolosa: come se si osservassero per la prima volta (“il mondo comune osservato in modo non comune” come consigliava De Chirico). Forse, allora, si scoprirebbe il fascino severo che i vasti colonnati dalle ombre nette contengono, l’attenzione per le trasparenze e i raccordi con le strade sul perimetro, dei quali quello con largo dei Lombardi ha la forza autentica di una visione piranesiana. Una rilettura “del tipo medio delle case-palazzo che caratterizza le strade tradizionali”, come scriveva Morpurgo in una dimenticata relazione al progetto, che irrigidisce il mutevole mosaico dell’edilizia romana nella fissa, metafisica unità, depurata di ogni pulsione, delle superfici in travertino.
E poiché nessuno, oggi, avrebbe l’inattuale coraggio di costruire una simile quinta plastica e muraria, piena e pesante come nella consuetudine romana, mi permetto di consigliare di tenerci quella che abbiamo.
Ma una seconda domanda è inevitabile. L’intervento di demolizione e ricostruzione costerebbe centinaia di milioni, comporterebbe un gigantesco cantiere aperto nel cuore di Roma per molti anni. Perché?
Sia chiaro: l’atto della demolizione è parte legittima della storia di ogni città, il riconoscimento di una ferita grave alla sua forma per il cui risarcimento vale la pena di investire risorse. Ma, proprio per questo, non può che derivare da valori condivisi. C’è da chiedersi allora se, nella scala degli errori romani, non debbano avere la precedenza disastri reali, come il viadotto dello Scalo San Lorenzo, i “ponti” del Laurentino 38, qualcuno dei vergognosi formicai per abitazione costruiti negli anni ’70. E prima ancora i tanti abusi edilizi che hanno sfigurato la forma della città, molti dei quali in pieno centro storico.

LA CHIUSURA DEL SAN GIACOMO E LA VIA ROMANA ALLA CITTÀ CONTEMPORANEA

di Giuseppe Strappa

in “Corriere della Sera” del 10.11.2008

Il naufragio dell’ospedale San Giacomo in via del Corso a Roma, chiuso senza un progetto, sembra annunciare anni di pericoloso abbandono.
Italia Nostra ha tentato, per ora con successo, di prevenirne la vendita ai privati reclamandone il mantenimento ad ospedale. Ma forse non basta. L’antica struttura pone problemi di tutela del patrimonio storico per la quale può essere sbagliato conservare in modo intransigente la funzione originale. Lo  dimostrano, per dare un’idea, i tanti vecchi cinema romani sfigurati dalle trasformazioni in multisala.
Un ospedale poi, per l’edilizia storica, può rivelarsi una macchina spietata e distruttrice come testimoniano le attuali, pietose condizioni del San Giacomo, sfigurato da impianti e superfetazioni.
Ne dovrebbero tener conto le vaghe proposte che, in questi giorni, evocano esempi parigini mitizzati dal nostro consueto, disinvolto provincialismo.
Il celebrato Hotel-Dieu, con i suoi cortili trasformati in blocchi operatori, le grandi sale tagliate da solai dietro le facciate ottocentesche, è, in realtà, un falso, un modello ipocrita di conservazione.
Per non parlare del caso dell’Hôpital Laennec, venduto alla società Cogedim per essere trasformato in servizi privati e alloggi di lusso con la giustificazione di alcune strutture per uso sociale. E allora, cosa fare?
Credo che il caso del San Giacomo dovrebbe essere trasformato, da querelle conservatrice, in occasione per sperimentare un’originale “via romana” alla città contemporanea. Un laboratorio d’architettura dove, nel pieno spirito del testamento del cardinale Salviati e conservando le strutture a servizio del quartiere (come il prezioso centro di dialisi), dovrebbero essere immaginati nuovi spazi pubblici per l’ospitalità, nuove forme d’accoglienza compatibili con le antiche strutture.
Liberando e restaurando le parti storiche, trasformando il labirinto di infinite addizioni stratificatesi nel tempo in un organismo architettonico degno di una grande capitale, si dimostrerebbe, contro i tanti stereotipi di moda proposti per Roma, come la modernità non si “immette”, come un’iniezione, nel tessuto storico, ma è il risultato di un processo di trasformazioni: necessarie, proporzionate, congruenti.

CASE ROMANE. LA VERA TUTELA E’ LA VITA CHE SCORRE

 

diGiuseppe Strappa

in “Dimore storiche”, 12 maggio 2007

Il processo di trasformazione delle abitazioni, grandi e piccole, del centro storico di Roma, il loro abbandono da parte dei vecchi residenti e l’irruzione progressiva del terziario, costituiscono un danno incalcolabile per il patrimonio storico della città.
I caratteri specifici di una città di secolari stratificazioni come Roma sono dovuti, infatti, non solo ai suoi monumenti più illustri e noti, ma anche, forse soprattutto, al fitto tessuto di edilizia “minore”, specchio del carattere molteplice della vita che si svolge dentro le sue piazze e le sue strade. Un’ edilizia, che ha generato, all’interno della città e nel corso della sua storia millenaria, una lingua condivisa tanto dai grandi architetti quanto dai semplici mastri: lingua colta e “parlato” popolare che concorrono a formare una cultura per larghi versi omogenea, dove la semplice abitazione, il palazzo, il monumento, sono espressione di una comune consuetudine civile. Consuetudine iniziata fin dalla formazione stessa della Roma antica, quando ha preso forma la straordinaria struttura delle insulae, delle grandi abitazioni popolari con cortile legate alle strade della città da botteghe e tabernae al piano terra. Un tessuto scomparso che ha depositato, tuttavia, tracce durature, ruderi trasmessi (quasi un lascito augurale) come potenziali fondazioni sulle quali si sono aggregati e frantumati i microcosmi feudali, intrecciati i percorsi dei pellegrini, edificate le case a schiera che conservavano la geometria modulare delle preesistenze antiche: come da un sostrato geologico profondo, la città morta che giaceva sotto le rovine riaffiorava, potente, trasmettendo i propri caratteri al tessuto urbano che rinasceva.
Da allora le nuove case romane nascono e si uniscono tra loro generando, nel tempo, organismi aggregativi che concorrono alla formazione dell’ organismo urbano rinascimentale e barocco. Organismi, si diceva, cioè strutture dove ogni elemento è in stretto rapporto di necessità con gli altri: Roma non è la somma di tante parti, ma la loro aggregazione e fusione a costituire strutture di grado sempre superiore.
La prima e più semplice forma di aggregazione è costituita proprio dall’unione di semplici case abitate da una sola famiglia che mettono in comune, come per una concorde forma di collaborazione, le due pareti murarie ortogonali all’affaccio su strada dando origine alla casa a schiera, elemento base sul quale la nuova Roma viene ricostruita. La scala edilizia che ne deriva è quella dell’aggregato, che esprime l’iniziale solidarietà tra abitazioni e costituisce il momento di passaggio tra insiemi di edifici e città.
La casa a schiera si sviluppa, nel corso del tempo, per raddoppi di cellule e attraverso la progressiva specializzazione dei vani: al piano terra, oltre alla bottega (o all’atrio), è collocata la scala, il passaggio all’area di pertinenza sul retro, il magazzino, mentre al piano superiore trova spazio l’abitazione propriamente detta, che aumenta il grado di specializzazione con la progressiva moltiplicazione verticale delle cellule e la distinzione della zona giorno dalla zona notte.
Se si osservano con attenzione le facciate dei quartieri del centro storico romano, del quartiere Rinascimento, di Trastevere, del Tridente, il passo delle coppie di finestre mostra ancora la permanenza evidente delle tracce di queste semplici case costruite secondo un tipo pressoché costante dal Medioevo al Settecento.
Anche la forma immediatamente più complessa di abitazione, determinante nella formazione della Roma moderna, è costituita da successive aggregazioni. La casa plurifamiliare è ottenuta dall’unione di due o più case unifamiliari con la formazione di un vano scala comune, dove una o più abitazioni occupano un solo piano. Questa forma di aggregazione, derivata dalla rifusione di elementi di schiera, costituisce la casa cosiddetta “in linea” costruita inizialmente ristrutturando il perimetro degli isolati antichi. Questo legame con la tradizione edilizia, con l’uso e la trasformazione del costruito esistente, costituisce il raccordo con l’innovazione ottocentesca: quando la casa in linea verrà intenzionalmente progettata e costruita, conserverà ancora l’eredità della casa ottenuta per rifusione da esperti maestri muratori. Ne sono evidente testimonianza le case plurifamiliare della Roma di Pio IX e, soprattutto, i grandi quartieri della Roma postunitaria dai Prati di Castello all’Esquilino, progettati ormai ex novo da architetti, dove il tipo vigente mantiene, tuttavia, l’impianto ereditato con la permanenza del muro di spina centrale derivato dal sistema statico-costruttivo della casa a schiera romana.
I grandi, gloriosi palazzi romani confermano questo comune processo, essendo sorti dalla trasformazione di parti di tessuto costituito da case a schiera. Ciascuno di essi finisce per strutturare anzi, al termine del proprio processo formativo, una sorta di tessuto “introverso” nel quale i percorsi delle strade vengono ribaltati all’interno mantenendo gli stessi principi aggregativi delle case da cui derivano. Si veda, tra i tanti, l’esempio di palazzo Lancellotti ai Coronari, nato attraverso successive acquisizioni di case a schiera, iniziate da Monsignor Scipione II Lacellotti nel 1574, lungo via Recta e lungo la via che conduce alla Chiesa di San Simeone. Case che vengono rifuse tra loro e unificate empiricamente da un percorso interno finché due grandi architetti, Francesco da Volterra prima, e Carlo Maderno poi, trasformeranno in edificio unitario un brano di tessuto, unificando le strutture, introducendo il cortile e il principio della parete ritmica in facciata. Se si osserva il fronte principale del palazzo si noterà come il passo irregolare tra le finestre della parte a sinistra del portale mantenga ancora la traccia delle unità di schiera originarie, mentre la parte a destra presenta il passo regolare dell’impianto costruito ex novo.
Altri palazzi, a dimostrazione della poliedricità e ricchezza di questo processo, sfruttano i percorsi sul retro delle case a schiera per favorire un’organica rifusione delle diverse unità, come nel caso delle case che danno origine al primo nucleo di Palazzo Altieri, distribuite sul retro da un percorso che insiste sul vecchio vicolo degli Altieri.
Una solidarietà continua, insomma, di tutto il costruito romano, che costituisce il vero patrimonio da conservare ad ogni costo. Un bene mai tanto a rischio come in questi ultimi anni che, purtroppo, si va rapidamente deteriorando sotto l’aggressione di un consumismo divenuto globale, minacciato da fenomeni di alterazione selvaggia dei quali sarebbe colpevole non esaminare le cause.
Credo che l’origine delle più insidiose tra queste trasformazioni, proprio per le specificità del processo cui abbiamo fatto cenno, risieda nel cambiamento di destinazione d’uso della nostra edilizia abitativa storica. La quale vive e si aggiorna in modo congruente con i propri caratteri originali solo se mantiene la propria funzione di residenza. L’abbandono della residenza, espulsa dal tessuto storico per far posto ad un industria del divertimento sempre più invadente e vorace, è la causa prima, ritengo, della decadenza del nostro patrimonio di edilizia e architettura storiche, della frammentazione della loro solidarietà e organicità. Perché all’interno delle vecchie case a schiera o di edifici abitativi più illustri, gestori di pub e birrerie vogliono oggi ricavare grandi spazi, liberi e fluidi, da arredare alla moda, come negli esempi ammirati sulle riviste. Spericolati geometri, ingegneri, architetti, tra svuotamenti, demolizioni ed acrobazie statiche, contro ogni logica e norma, hanno inventato un vero e proprio metodo di disinvolta decostruzione degli organismi edilizi storici, confidando nell’infinita generosità delle solide mura antiche.
E che il fenomeno invada anche i tessuti di Parigi o Barcellona, infinitamente meno coesi e preziosi, non è certo una consolazione.
Perché gli stessi pub, fast food, ristoranti alla moda che hanno cambiato gli spazi romani tradizionali s’incontrano a Ios, a Ibiza, a Bali. Scompaiono, ormai, le diversità dei luoghi. I vecchi abitanti se ne vanno e, uno dopo l’altro, gloriosi salumieri e antichi librai cedono all’invadenza vorace di nuovi esercizi commerciali che non hanno nulla a che vedere con la vita dei quartieri.
Quanti speculano sulla dilapidazione del nostro patrimonio storico vanno ripetendo che è, questo, l’inevitabile portato della condizione contemporanea. E’ vero il contrario: assistiamo ad una rovinosa regressione, alla formazione di un nuovo territorio barbarico dove spazi pubblici ed edifici, ridotti a merce, si lacerano obbedendo ad una sola, selvaggia brama di appropriazione.
Un processo di dissoluzione del patrimonio di abitazioni storiche che trova, peraltro, i suoi tristi estimatori tra i cultori della complessità caotica della vita metropolitana, del mondo globalizzato che genera un’infinità di architetture tutte ugualmente effimere ed autopubblicitarie. Succede così che il tessuto delle abitazioni romane venga considerato da non pochi critici alla moda un semplice anacronismo architettonico, legittimando, in qualche modo, la sua rovina.
Un’intera civiltà urbana fondata sul modo di costruire le case, trasformarle, unirle e rifonderle a formare gloriosi palazzi, la quale ha richiesto tempi lunghissimi per crescere e formarsi, sta scomparendo in pochi anni sotto i nostri occhi che in realtà, assuefatti a un mondo di immagini spettacolari, sono ormai capaci di riconoscere i valori della nostra eredità storica e artistica solo nei musei o nei monumenti certificati dai media.
Credo che occorra reagire rivendicando, prima di tutto, il mantenimento della residenza nelle abitazioni storiche grandi e piccole, insieme alla conservazione di quel tessuto civile del quale l’architettura è espressione. E’, in questo senso, una grande fortuna che molte grandi dimore storiche romane siano ancora abitate dalle famiglie di chi le ha edificate. Ma, purtroppo, per un grande palazzo mantenuto da un uso appropriato, molti palazzetti e centinaia di case vengono ceduti, trasformati, piegati ad ogni genere di utilizzazione.
Occorrono regole che favoriscano l’aggiornamento intelligente e contenuto delle strutture esistenti, che non consentano l’invadenza delle multinazionali del consumo o le lacerazioni del profitto spicciolo, che, soprattutto, mantengano ai tessuti la loro funzione abitativa, se si vuole fermare il collage eterogeneo e discontinuo di cambiamenti che stanno avvenendo in modo palese o strisciante, attraverso infiniti variazioni delle destinazioni d’uso, nelle abitazioni storiche romane.
La tradizione non è eredità inerte, ma è una scelta e un progetto. E dunque le trasformazioni del centro storico di Roma (ridotte comunque a quelle realmente inevitabili) non possono essere lasciate agli speculatori ma debbono costituire una scelta condivisa di continuità, l’espressione della vita che si rinnova.