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COMMISSARI & ARCHEOLOGIA

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di Giuseppe Strappa

in “Corriere della Sera” del10 aprile 2009

Devo confessare che non mi scandalizza la nomina di un commissario straordinario per l’area archeologica di Roma e di Ostia antica.

Non c’è dubbio che esista, qui, un problema reale di coordinamento ed efficienza: i Fori sono divisi tra competenze nazionali e comunali, gli appalti sottoposti a leggi macchinose, i restauri eseguiti in tempi biblici. E quando occorrono procedure rapide e decisioni centralizzate, non si può negare che Guido Bertolaso abbia dimostrato grande capacità, anche nella cura di monumenti illustri come la Cattedrale di Noto.

Ma è anche evidente che la nomina a commissario del sottosegretario alla Protezione civile, con ampi poteri di deroga alla normativa vigente, non può essere giustificata dall’emergenza: il patrimonio archeologico romano, benché trascurato, non presenta drammatici problemi di sicurezza e le recenti scosse sismiche lo hanno dimostrato.

Credo che la singolare decisione si spieghi, in fondo, alla luce della ventata di “valorizzazioni” di cui i nostri monumenti maggiori sembrano avere improvvisamente bisogno. E’ questo il nocciolo del problema. E non riguarda solo i Fori od Ostia antica, ma l’intero patrimonio storico.
Si sta consolidando l’idea di una pericolosa distinzione tra tutela e valorizzazione, tra beni culturali “ordinari” ai quali si possono dedicare attenzioni burocratiche e tempi lunghi, e “nobili”, che possono rendere, per i quali le normali leggi non valgono.

Alle soprintendenze, dunque, sono affidati la cura scientifica ed i restauri, ma per la gestione dei monumenti più spettacolari ci vogliono attenzioni e poteri speciali. Una deriva pericolosa, che rischia di minare le basi stesse di una cultura diffusa del patrimonio storico unica, è bene ricordarlo,in Europa.

Non c’è dubbio che occorra una svolta radicale. Ma, piuttosto che commissariamenti, serve una ristrutturazione profonda dell’intera gestione dei beni culturali, evitare sovrapposizioni e frammentazioni, snellire le normative. Per il bene di tutti i nostri monumenti, senza distinzioni.

Commento ad una foto aerea del settore urbano Casilino. 1970

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da: Alberto Gatti, Studio del Piano Quadro per il settore Casilino e suo inserimento nel sistema delle previsioni per le zone orientali della città, ed. Capitolium, Roma 1970.

Essa mostra la situazione attuale dell’edificazione su questa parte del territorio, quale si è venuta a creare in conseguenza dell’attuarsi di diversi tipi di urbanizzazione nel paesaggio suggestivo dell’Agro Romano.
L’analisi di questa immagine e la presa di coscienza che ne deriva dovranno costituire riferimento costante e remora per ogni singolo provvedimento che sarà preso al fine di realizzare le singole previsioni del nuovo piano regolatore, infatti essa mostra, con allarmante evidenza, come operazioni non programmate e coordinate nel loro attuarsi possano condurre ad una totale contestazione di qualsivoglia impianto urbanistico.

Essa dimostra l’imprescindibilità del metodo e della disciplina del Piano Quadro. Lo sviluppo della città è quivi avvenuto per episodi spesso contemporanei, ma non tra loro coordinati, né relazionati alle reti infrastrutturali urbane.

I vari interventi risultano disseminati in conseguenza di fatti eterogenei, che hanno diversamente condizionato le differenti forme di iniziativa; i criteri delle scelte e le ragioni delle forme, intuibili spesso con chiarezza nella complessità del fenomeno urbano, qui non lo sono.
L’esame della fotografia ci consente di distinguere i caratteri delle varie zone che costituiscono le isole di residenza, che sono sparse nel settore non certamente come era stato previsto dal P.R.’31, nel quale si può leggere una ipotesi di sviluppo urbano di tipo continuo, lungo fasce di equidistanza dal centro.

La città non si è sviluppata a « macchia d’olio », come sostenuto da una critica ribadita quanto infondata, in tal caso la legge di accrescimento, che evidentemente non condividiamo, avrebbe avuto però una sua logica, una sua coerenza e la città quindi una sua forma. Ciò che possiamo riscontrare è la presenza di situazioni tutte singolari ed autonome, che sono distinte, non in rapporto ad un unitario programma urbanistico e quindi a specifiche esigenze locali, ma direi, sono del tutto preterintenzionali.
Alcune zone sono dotate di piani particolareggiati che occupano aree qualsiasi; essi rivelano un tentativo di ordine formale all’interno, ma nessun motivo alla loro ubicazione. Tra questi alcuni prevedono, in prevalenza, l’edificazione attraverso certi tipi che sono venuti a corrispondere per caso alle richieste delle cooperative edilizie, quali le « palazzine », altri invece di imprese di costruzione, quali gli « intensivi », le cui dimensioni peraltro, come si vede nel quartiere Don Bosco a sud, superano quelle dei lotti, pur essendo ad essi riferite.

Alcune zone sono realizzate da enti pubblici; di esse alcuni hanno case tutte uguali, come l’insediamento I.A.C.P. di Villa dei Gordiani, tra la ferrovia e la via Prenestina; altre invece hanno case tutte di¬verse, come quello di Torre Spaccata a sud della Casilina. Alcune, come il quartiere INA-Casa Tiburtino a nord, presentano un disegno unitario seppur inspiegabilmente distorto; altre, come il quartiere INA-Casa Tuscolano a sud, presentano grossi frammenti a contatto e in antitesi, ed entrambi ignorano i relativi Piani Particolareggiati.

Altre zone poi sono quelle costituite dai nuclei edilizi e destinate alla ristrutturazione; sono borgate senza piano sorte spontaneamente attorno a centri di interesse di lavoro o di traffico sparsi sul territorio; sono realizzati m prevalenza con edifici plurifamiliari che, non si sa perché, sono chiamati “villini”, tra questi evidenti Tor Sapienza e Torre Maura verso est.
Altre zone ancora sono quelle occupate dall’abusivismo degli immigrati [immigrazione dalle zone depresse dell’Italia anni ‘60]; esse sono ubicate nella maggior parte verso ovest a lambire i margini dell’aggregato urbano, lungo la ferrovia e gli acquedotti; sono costituiti di vasti gruppi di baracche privi di servizi, ma rappresentano un tipo di urbanizzazione da considerare, per il tipo di vita associata che suscitano, seppur ad infimo livello.

Nell’ampia varietà di questo mosaico, che contiene ulteriori differenze rappresentate tra l’altro dal relativo grado di centralità, accessibilità e densità delle singole aree residenziali, quali sono le possibilità di scelta offerte ai cittadini di Roma? Chi ama vivere nella casa individuale e coltivare il proprio giardino, oppure chi preferisce il piccolo alloggio inserito nell’aggregato edilizio, dotato dei servizi comuni, dove troveranno la loro abitazione?

Analizzando questa fotografia, non appare alcuna composizione urbanistica a scala adeguata, cioè a questa scala, di aree distinte per tipi edilizi corrispondenti ad una gamma di richieste, che ne giustifichi l’adozione in rapporto a un ipotetico parametro sociologico, economico, orografico ecc.
Come non risulta una suddivisione in zone destinate e quindi caratterizzate per le varie funzioni urbane, la residenza, la produzione, la direzionalità., le attrezzature per la vita “associata e per il tempo libero; né il tracciato di una rete viaria che abbia un suo intellegibile  svolgimento   sul  territorio  ed  una  chiara  classificazione   tipologica e che non sia ancora quello delle centripete vie consolari.

Unica linea continua che si può rilevare è quella meridiana visibile al centro, essa corrisponde alla strada marginale del vecchio Piano Regolatore, al di là della quale si hanno, tuttavia, nuclei residenziali organizzati, anche di iniziativa pubblica.

E’ evidente, in questo settore della città, la gravità della carenza di un disegno e la insufficienza delle indicazioni di un piano regolatore pur dettagliato quale quello del 1931, come anche la impossibilità di attuazione urbanistica, se il piano stesso non si articoli in programmi precisi elaborati scientificamente, controllati nella loro attuazione e verificati nella loro rispondenza.

Un tale tipo di sviluppo senza disegno è da considerare infine non soltanto per le condizioni di vita, cui costringe una popolazione, ma anche per i problemi che pone e per le soluzioni che esclude, nel momento in cui, presa coscienza della situazione si decida, non dico di trasformare una massa di insediamenti in un’organica trancia di città, ma soltanto di operare i completamenti e le ristrutturazioni necessari ed i reperimenti indilazionabili delle aree per i servizi primari, che risultano quasi del tutto assenti.

Parlando di carenza di un disegno non mi riferisco soltanto al significato grafico della parola, ma anche a quello programmatico, infatti ciò che colpisce nel considerare questa immagine e nel raffrontarla con quelle simili dì altre città è l’assenza di determinazioni che abbiano una loro chiara intenzionalità e finalità urbanistico, l’assenza di un atto di volontà pianificatrice.

Vediamo forme simili che rappresentano cose diverse e al contrario forme diverse che appartengono a cose simili: edifici destinati a rispondere al medesimo scopo nella stessa misura, cioè, per esempio, a contenere alloggi tutti di uguale taglio, configurarsi a scacchiera, a lisca di pesce, a cortile chiuso, a sciame ortogonale o poligonale e in mille altri modi e vediamo d’altra parte edifici commerciali o amministrativi, scuole, cliniche o cinematografi contenuti, ad esempio, entro il rigido schema della palazzina. Le differenze volumetriche che rileviamo non dipendono cioè da una differenza di programma, ma solo da casuali gradi di libertà.
I fatti che emergono nel tessuto urbano delle altre città, o di altre zone della nostra, sono spesso cospicui, ma derivano da ragioni positive individuabili al di là del gusto del singolo operatore.

Nell’ambito di un perimetro catastale e guardando solo all’interno, egli ha qui impresso il suo segno, spesso incompiuto e sempre insignificante, e ciò che resta più evidente è il perimetro stesso, che circoscrive una gratuita composizione, suggerendo direzioni e allineamenti che poi non trovano spiegazioni nel contesto urbano.

La città si fa nella storia ed ogni epoca interviene in continua successione e concreta le sue concezioni in forme che le sono proprie, così si viene a formare, per fasi riconoscibili, il tessuto urbano, seppur con molti ritorni e contaminazioni.

La scelta dei tipi di residenza risulta chiara ogni volta e così la serie compatta delle zone ad essa riservate o inibite; ed oltre la residenza, i grandi spazi ed i grandi impianti per la comunità, la cui gamma si amplia sempre più nel corso della realizzazione urbana.

L’organismo per l’assemblea religiosa, il palazzo dell’autorità civile, lo spazio libero dell’incontro, dapprima, poi la caserma, il convento, l’ospedale, la scuola, il museo, la biblioteca, il teatro, il parco, la stazione e la fabbrica e poi gli uffici, i magazzini, gli impianti sportivi, le installazioni tecnologiche e così via, dalla massa omogenea delle residenze, si profilano nell’immagine urbana forme preminenti ed autonome, che divengono monumenti e che esprimono la collettività esaltandone i mutevoli ideali.

Infine l’interesse illuministico e razionalistico affronta la residenza e quindi anch’essa si disarticola dalla maglia viaria per rispondere alle nuove esigenze che si propongono, cioè, ad esempio, l’apertura dei corpi di fabbrica dallo schema classico verso l’orientamento elio-termico e poi verso la creazione degli spazi comuni ed infine verso le dimensioni che corrispondono alle richieste delle nuove organizzazioni produttive, tecnologiche e associative.

Quali riscontri trova questo discorso nella immagine della città che stiamo esaminando?

Si rilevano certamente alcune forme, le più leggibili però sono quelle incongrue di due dei forti disposti in corona di difesa attorno alla città e per la prima volta aggrediti dall’incontenibile avanzata edilizia; le forme delle case sono anch’esse evidenti, non è difficile, però rilevare come le più moderne sono proprio quelle a cortile chiuso come quelle della città vecchia.

Mi domando a questo punto se ha un senso sottoporre a un’analisi critica l’immagine di una città, ma la domanda mi si ribalta: ha forse un senso non operare una verifica della realtà che assumono le nostre previsioni urbanistiche?

In particolare, ricordando che il P.R. ’31 prevedeva nel settore ampi parchi pubblici, che Centocelle era destinata a “casette a schiera” e la fascia orientale ad “orti giardini”, mentre oggi non si riesce a reperirvi frammenti di aree per i servizi essenziali.

LA RISCOPERTA DI CANIGGIA, ARCHITETTO DEL RIGORE

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di Giuseppe Strappa

In «Corriere della Sera» del 14.06.08

Forse il tempo ha finalmente diradato la cortina di silenzio che la critica aveva steso intorno all’opera di Gianfranco Caniggia, architetto e teorico romano scomparso vent’anni fa. Il suo vasto lavoro appartiene, evidentemente, a quel tipo di ricerche che, troppo profonde per il successo immediato, danno i loro frutti su tempi lunghi.
Non è un caso che la sua opera sia riscoperta proprio oggi, quando i superficiali spettacoli dello star system internazionale fanno sorgere dubbi sul ruolo stesso dell’architetto, come testimonia il recente successo di “Contro l’architettura”, impietoso saggio di Franco La Cecla. Rileggere i testi caniggiani significa scoprire una via d’uscita: il progetto contemporaneo non quale semplice invenzione né imitazione del passato, ma “processo”, continuità col grande flusso di trasformazione del costruito e della sua storia. L’architetto non è un artista, ma un artefice orgoglioso del senso civile del proprio mestiere.
Dopo le molte traduzioni dei suoi testi, prossima quella cinese, un importante convegno e due mostre dei progetti di Caniggia (tenute all’ Accademia di San Luca e presso la Facoltà di Valle Giulia) hanno risarcito un debito a lungo rimosso.
Rimosso, non semplicemente dimenticato, perché la sua vicenda umana e intellettuale si lega ad una delle pagine più discusse dell’architettura recente, alle accuse di inseguire una sorta di utopia regressiva sulla scia di Saverio Muratori, suo glaciale precettore di eresie, allontanato dal mondo accademico. Lucio Barbera aveva descritto Caniggia come “un francescano che, con animo mite, si presentò alla società che aveva espulso il Maestro proponendo le ricette sataniche del Vecchio in dosi omeopatiche e salutari, ma mai annacquate”.
Che la sua teoria, lucidamente derivata dalle tradizioni della Scuola romana, sia rimasta per tanto tempo dimenticata è stato, ritengo, un grave danno. Uno spreco che s’inquadra nella più generale crisi dell’insegnamento italiano, che privilegia ormai i “fatti” rinunciando alle dimostrazioni, lasciando i nostri studenti orfani dell’educazione al pensiero unificante, allo sguardo generale che dà senso al particolare. Solo uno storico acuto come Manfredo Tafuri ha avvertito la straordinaria importanza non solo degli studi di Caniggia, ma anche  della sua opera architettonica. Perché l’architetto romano è stato anche un grande progettista, malgrado risulti ormai difficile, in un mondo assuefatto alle tinte forti, apprezzare la sua arte delle cose elementari e delle sottili distinzioni: il raffinato rigore delle case in via Trinità dei Pellegrini, ad esempio, o la composta solennità del Palazzo di Giustizia di Teramo. Le sue architetture possiedono una forma alta e difficile di poesia: non quella dell’emozione che si sostituisce al  pensiero, ma quella disciplinata dal metodo, che tormenta l’intelligenza.
Caniggia tracciava disegni di esemplare chiarezza. Sembrava indicare sulla carta, insieme, la forma dell’edificio e la sua spiegazione.
Fa eccezione il suo ultimo progetto, incompiuto, per l’ampliamento della Facoltà di Valle Giulia. Un progetto misterioso, di incerta interpretazione, del quale abbiamo perso molti dei disegni originali. Come se il mite, grande francescano avesse voluto lasciarci un dono estremo e prezioso: non un teorema dimostrato dal disegno, ma un dubbio e un fertile pungolo