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San Vito romano: città e paesaggio

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Comune di San Vito romano
Sapienza Università di Roma – Dipartimento di Architettura e Progetto
Laboratorio di Lettura e Progetto dell’Architettura
ISCUD, International Study Centre for Urban Design
Seconda giornata di studi sanvitesi

San Vito romano: città e paesaggio

sabato 16 luglio 2011, ore 9,30 – 20,00
Nella Sala Conferenze del Comune di San Vito Romano
Via Borgo Mario Theodoli n. 34, San Vito Romano (RM)

Con il patrocinio:

Provincia di Roma
Biblioteca Centrale della Facoltà di Architettura, Sapienza Università di Roma
Consulta dei Beni Culturali dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Roma e provincia

Con la collaborazione:
University of Miami, School of Architecture
Soprintendenza Archivistica per il Lazio
Unità Sperimentale – LabGeoInf – Laboratorio di Ricerca in Geomatica e Sistemi Informativi CNR-IPCF
Associazione SAP: Silvicultura, Agrocultura, Paesaggio

a cura di
Alessandro Camiz
alessandro.camiz@uniroma1.it
3388713648


Commento ad una foto aerea del settore urbano Casilino. 1970

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da: Alberto Gatti, Studio del Piano Quadro per il settore Casilino e suo inserimento nel sistema delle previsioni per le zone orientali della città, ed. Capitolium, Roma 1970.

Essa mostra la situazione attuale dell’edificazione su questa parte del territorio, quale si è venuta a creare in conseguenza dell’attuarsi di diversi tipi di urbanizzazione nel paesaggio suggestivo dell’Agro Romano.
L’analisi di questa immagine e la presa di coscienza che ne deriva dovranno costituire riferimento costante e remora per ogni singolo provvedimento che sarà preso al fine di realizzare le singole previsioni del nuovo piano regolatore, infatti essa mostra, con allarmante evidenza, come operazioni non programmate e coordinate nel loro attuarsi possano condurre ad una totale contestazione di qualsivoglia impianto urbanistico.

Essa dimostra l’imprescindibilità del metodo e della disciplina del Piano Quadro. Lo sviluppo della città è quivi avvenuto per episodi spesso contemporanei, ma non tra loro coordinati, né relazionati alle reti infrastrutturali urbane.

I vari interventi risultano disseminati in conseguenza di fatti eterogenei, che hanno diversamente condizionato le differenti forme di iniziativa; i criteri delle scelte e le ragioni delle forme, intuibili spesso con chiarezza nella complessità del fenomeno urbano, qui non lo sono.
L’esame della fotografia ci consente di distinguere i caratteri delle varie zone che costituiscono le isole di residenza, che sono sparse nel settore non certamente come era stato previsto dal P.R.’31, nel quale si può leggere una ipotesi di sviluppo urbano di tipo continuo, lungo fasce di equidistanza dal centro.

La città non si è sviluppata a « macchia d’olio », come sostenuto da una critica ribadita quanto infondata, in tal caso la legge di accrescimento, che evidentemente non condividiamo, avrebbe avuto però una sua logica, una sua coerenza e la città quindi una sua forma. Ciò che possiamo riscontrare è la presenza di situazioni tutte singolari ed autonome, che sono distinte, non in rapporto ad un unitario programma urbanistico e quindi a specifiche esigenze locali, ma direi, sono del tutto preterintenzionali.
Alcune zone sono dotate di piani particolareggiati che occupano aree qualsiasi; essi rivelano un tentativo di ordine formale all’interno, ma nessun motivo alla loro ubicazione. Tra questi alcuni prevedono, in prevalenza, l’edificazione attraverso certi tipi che sono venuti a corrispondere per caso alle richieste delle cooperative edilizie, quali le « palazzine », altri invece di imprese di costruzione, quali gli « intensivi », le cui dimensioni peraltro, come si vede nel quartiere Don Bosco a sud, superano quelle dei lotti, pur essendo ad essi riferite.

Alcune zone sono realizzate da enti pubblici; di esse alcuni hanno case tutte uguali, come l’insediamento I.A.C.P. di Villa dei Gordiani, tra la ferrovia e la via Prenestina; altre invece hanno case tutte di¬verse, come quello di Torre Spaccata a sud della Casilina. Alcune, come il quartiere INA-Casa Tiburtino a nord, presentano un disegno unitario seppur inspiegabilmente distorto; altre, come il quartiere INA-Casa Tuscolano a sud, presentano grossi frammenti a contatto e in antitesi, ed entrambi ignorano i relativi Piani Particolareggiati.

Altre zone poi sono quelle costituite dai nuclei edilizi e destinate alla ristrutturazione; sono borgate senza piano sorte spontaneamente attorno a centri di interesse di lavoro o di traffico sparsi sul territorio; sono realizzati m prevalenza con edifici plurifamiliari che, non si sa perché, sono chiamati “villini”, tra questi evidenti Tor Sapienza e Torre Maura verso est.
Altre zone ancora sono quelle occupate dall’abusivismo degli immigrati [immigrazione dalle zone depresse dell’Italia anni ‘60]; esse sono ubicate nella maggior parte verso ovest a lambire i margini dell’aggregato urbano, lungo la ferrovia e gli acquedotti; sono costituiti di vasti gruppi di baracche privi di servizi, ma rappresentano un tipo di urbanizzazione da considerare, per il tipo di vita associata che suscitano, seppur ad infimo livello.

Nell’ampia varietà di questo mosaico, che contiene ulteriori differenze rappresentate tra l’altro dal relativo grado di centralità, accessibilità e densità delle singole aree residenziali, quali sono le possibilità di scelta offerte ai cittadini di Roma? Chi ama vivere nella casa individuale e coltivare il proprio giardino, oppure chi preferisce il piccolo alloggio inserito nell’aggregato edilizio, dotato dei servizi comuni, dove troveranno la loro abitazione?

Analizzando questa fotografia, non appare alcuna composizione urbanistica a scala adeguata, cioè a questa scala, di aree distinte per tipi edilizi corrispondenti ad una gamma di richieste, che ne giustifichi l’adozione in rapporto a un ipotetico parametro sociologico, economico, orografico ecc.
Come non risulta una suddivisione in zone destinate e quindi caratterizzate per le varie funzioni urbane, la residenza, la produzione, la direzionalità., le attrezzature per la vita “associata e per il tempo libero; né il tracciato di una rete viaria che abbia un suo intellegibile  svolgimento   sul  territorio  ed  una  chiara  classificazione   tipologica e che non sia ancora quello delle centripete vie consolari.

Unica linea continua che si può rilevare è quella meridiana visibile al centro, essa corrisponde alla strada marginale del vecchio Piano Regolatore, al di là della quale si hanno, tuttavia, nuclei residenziali organizzati, anche di iniziativa pubblica.

E’ evidente, in questo settore della città, la gravità della carenza di un disegno e la insufficienza delle indicazioni di un piano regolatore pur dettagliato quale quello del 1931, come anche la impossibilità di attuazione urbanistica, se il piano stesso non si articoli in programmi precisi elaborati scientificamente, controllati nella loro attuazione e verificati nella loro rispondenza.

Un tale tipo di sviluppo senza disegno è da considerare infine non soltanto per le condizioni di vita, cui costringe una popolazione, ma anche per i problemi che pone e per le soluzioni che esclude, nel momento in cui, presa coscienza della situazione si decida, non dico di trasformare una massa di insediamenti in un’organica trancia di città, ma soltanto di operare i completamenti e le ristrutturazioni necessari ed i reperimenti indilazionabili delle aree per i servizi primari, che risultano quasi del tutto assenti.

Parlando di carenza di un disegno non mi riferisco soltanto al significato grafico della parola, ma anche a quello programmatico, infatti ciò che colpisce nel considerare questa immagine e nel raffrontarla con quelle simili dì altre città è l’assenza di determinazioni che abbiano una loro chiara intenzionalità e finalità urbanistico, l’assenza di un atto di volontà pianificatrice.

Vediamo forme simili che rappresentano cose diverse e al contrario forme diverse che appartengono a cose simili: edifici destinati a rispondere al medesimo scopo nella stessa misura, cioè, per esempio, a contenere alloggi tutti di uguale taglio, configurarsi a scacchiera, a lisca di pesce, a cortile chiuso, a sciame ortogonale o poligonale e in mille altri modi e vediamo d’altra parte edifici commerciali o amministrativi, scuole, cliniche o cinematografi contenuti, ad esempio, entro il rigido schema della palazzina. Le differenze volumetriche che rileviamo non dipendono cioè da una differenza di programma, ma solo da casuali gradi di libertà.
I fatti che emergono nel tessuto urbano delle altre città, o di altre zone della nostra, sono spesso cospicui, ma derivano da ragioni positive individuabili al di là del gusto del singolo operatore.

Nell’ambito di un perimetro catastale e guardando solo all’interno, egli ha qui impresso il suo segno, spesso incompiuto e sempre insignificante, e ciò che resta più evidente è il perimetro stesso, che circoscrive una gratuita composizione, suggerendo direzioni e allineamenti che poi non trovano spiegazioni nel contesto urbano.

La città si fa nella storia ed ogni epoca interviene in continua successione e concreta le sue concezioni in forme che le sono proprie, così si viene a formare, per fasi riconoscibili, il tessuto urbano, seppur con molti ritorni e contaminazioni.

La scelta dei tipi di residenza risulta chiara ogni volta e così la serie compatta delle zone ad essa riservate o inibite; ed oltre la residenza, i grandi spazi ed i grandi impianti per la comunità, la cui gamma si amplia sempre più nel corso della realizzazione urbana.

L’organismo per l’assemblea religiosa, il palazzo dell’autorità civile, lo spazio libero dell’incontro, dapprima, poi la caserma, il convento, l’ospedale, la scuola, il museo, la biblioteca, il teatro, il parco, la stazione e la fabbrica e poi gli uffici, i magazzini, gli impianti sportivi, le installazioni tecnologiche e così via, dalla massa omogenea delle residenze, si profilano nell’immagine urbana forme preminenti ed autonome, che divengono monumenti e che esprimono la collettività esaltandone i mutevoli ideali.

Infine l’interesse illuministico e razionalistico affronta la residenza e quindi anch’essa si disarticola dalla maglia viaria per rispondere alle nuove esigenze che si propongono, cioè, ad esempio, l’apertura dei corpi di fabbrica dallo schema classico verso l’orientamento elio-termico e poi verso la creazione degli spazi comuni ed infine verso le dimensioni che corrispondono alle richieste delle nuove organizzazioni produttive, tecnologiche e associative.

Quali riscontri trova questo discorso nella immagine della città che stiamo esaminando?

Si rilevano certamente alcune forme, le più leggibili però sono quelle incongrue di due dei forti disposti in corona di difesa attorno alla città e per la prima volta aggrediti dall’incontenibile avanzata edilizia; le forme delle case sono anch’esse evidenti, non è difficile, però rilevare come le più moderne sono proprio quelle a cortile chiuso come quelle della città vecchia.

Mi domando a questo punto se ha un senso sottoporre a un’analisi critica l’immagine di una città, ma la domanda mi si ribalta: ha forse un senso non operare una verifica della realtà che assumono le nostre previsioni urbanistiche?

In particolare, ricordando che il P.R. ’31 prevedeva nel settore ampi parchi pubblici, che Centocelle era destinata a “casette a schiera” e la fascia orientale ad “orti giardini”, mentre oggi non si riesce a reperirvi frammenti di aree per i servizi essenziali.

LE POLEMICHE PER PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 04.08.2006

Dopo i problemi sollevati dalla distruzione del complesso dell’Ara Pacis, la proposta di demolire gli edifici “brutti” costruiti da Vittorio Ballio Morpurgo intorno al Mausoleo di Augusto potrebbe essere considerata una bizzarra esercitazione accademica se non fosse avanzata da due autorità dell’urbanistica e dell’archeologia romane con serie possibilità, quindi, di concreto seguito.
Certo, nel clima delle rivalutazioni, spesso indiscriminate, che hanno investito il dibattito romano degli ultimi vent’anni, la figura di Morpurgo ha la colpa di non essere stata oggetto di alcuna riscoperta, ultimo esempio di architetto dannato dagli errori della retorica fascista.
Ma non è possibile evitare di domandarsi cosa si ricostruirà sulle rovine degli edifici eretti alla fine degli anni ’30 a conclusione di studi che si erano estesi, almeno, dal piano del 1909 a quello del 1931. Un nuovo spazio aperto che lascerà in vista i disomogenei prospetti di via della Frezza, fuori scala, peraltro, rispetto all’immenso vuoto della nuova piazza? Oppure un’architettura di lacerazioni, alla Zaha Hadid, magari avallata da una commissione di concorso formata dai soliti esperti che guardano con ansia ritardataria alle mode internazionali?
Scenari che consigliano di riconsiderare meglio gli edifici esistenti, dimenticando i pregiudizi di una critica frettolosa: come se si osservassero per la prima volta (“il mondo comune osservato in modo non comune” come consigliava De Chirico). Forse, allora, si scoprirebbe il fascino severo che i vasti colonnati dalle ombre nette contengono, l’attenzione per le trasparenze e i raccordi con le strade sul perimetro, dei quali quello con largo dei Lombardi ha la forza autentica di una visione piranesiana. Una rilettura “del tipo medio delle case-palazzo che caratterizza le strade tradizionali”, come scriveva Morpurgo in una dimenticata relazione al progetto, che irrigidisce il mutevole mosaico dell’edilizia romana nella fissa, metafisica unità, depurata di ogni pulsione, delle superfici in travertino.
E poiché nessuno, oggi, avrebbe l’inattuale coraggio di costruire una simile quinta plastica e muraria, piena e pesante come nella consuetudine romana, mi permetto di consigliare di tenerci quella che abbiamo.
Ma una seconda domanda è inevitabile. L’intervento di demolizione e ricostruzione costerebbe centinaia di milioni, comporterebbe un gigantesco cantiere aperto nel cuore di Roma per molti anni. Perché?
Sia chiaro: l’atto della demolizione è parte legittima della storia di ogni città, il riconoscimento di una ferita grave alla sua forma per il cui risarcimento vale la pena di investire risorse. Ma, proprio per questo, non può che derivare da valori condivisi. C’è da chiedersi allora se, nella scala degli errori romani, non debbano avere la precedenza disastri reali, come il viadotto dello Scalo San Lorenzo, i “ponti” del Laurentino 38, qualcuno dei vergognosi formicai per abitazione costruiti negli anni ’70. E prima ancora i tanti abusi edilizi che hanno sfigurato la forma della città, molti dei quali in pieno centro storico.