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NODI NELLE CITTÀ


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di Giuseppe Strappa

in «Area» N°27 , 1996.

Se si usa appena qualche cautela nei confronti del trionfante luogo ideologico che vuole la modernità associata ad una condizione di perpetua crisi dove, inevitabilmente “tutto quello che è solido si dissolve nell’aria” e si guarda alla semplice evidenza della realtà costruita, non si può non constatare che, dalla contraddittoria fase di passaggio dalla città tradizionale europea alla metropoli contemporanea, emerge una evidente, traumatica innovazione nei tessuti, ma anche una altrettanto evidente continuità negli organismi edilizi.
Alcuni aspetti della sostanziale diacronicità tra organismi abitativi e tessuto urbano sono stati da tempo osservati nella continuità del processo che ha generato l’attuale casa in linea a partire dalle rifusioni di unità di schiera. E tuttavia non è mai stato indagata a sufficienza la complessa continuità formativa, generata dalla nozione di aggregato, di molti edifici specializzati moderni. I quali spesso, lontani dall’imitare la macchina, mostrano al loro interno la spiegazione delle proprie leggi formative “annodando” (trasformando in nodi spaziali) luoghi in origine fisicamente o virtualmente aperti: come molti organismi edilizi del passato, essi nascono dalla dialettica tra recinto e copertura, tra strutture seriali ed organiche, tra città ed edificio.
La derivazione del teatro moderno dal tessuto é, ad esempio, tra i fenomeni più evidenti e documentabili di questo processo. La stessa rappresentazione teatrale si evolve per specializzazione di forme di spettacolo “di base” (le recitazioni religiose, le feste laiche, le giostre). Il famoso disegno eseguito da Johan de Witt nel 1596 del teatro Swan di Londra dimostra pienamente il carattere dell’organismo edilizio in formazione: lo spazio “pubblico” é quello fluido della platea-piazza dove lo spettatore assiste in piedi o in sedili di fortuna; lo spazio “privato” é quello perimetrale dei palchi-tessuto, codificato dalla legge costruttiva del recinto. Se già nel ‘400 si rappresentava Plauto e Seneca nel cortile del palazzo del cardinale Riario coperto da teli, agli inizi del ‘600 si conclude il processo di trasformazione del teatro elisabettiano e inizia quello contemporaneo con la copertura stabile dello spazio aperto del vecchio teatro Fortune.
E un analogo processo formativo può essere colto, ancora in atto, in molti aspetti dell’edilizia speciale ottocentesca. Nelle grandi borse, ad esempio, nate alla fine del XVI secolo come piazze concluse all’interno della serie di uffici e magazzini, la cui protezione genera lo spazio coperto dello scambio (di questo processo la “basilica” di Berlage per la Borsa di Amsterdam rappresenta solo l’esito più noto). Oppure nei grandi magazzini formatisi a Parigi a seguito della nuovissima tradizione dei passages , dove elementi, strutture, sistemi seriali si annodano intorno allo spazio di un cortile coperto.
Ma, soprattutto,esso è individuabile nella dialettica tra spazi urbani e spazi interni agli edifici generati, alla fine del secolo scorso, dall’ organizzazione delle complesse reti di comunicazioni nelle metropoli. L’articolazione dell’edificio per poste e telegrafi nasce, infatti, dal legarsi dei vani seriali, per amministrazione e servizi, intorno alla grande sala per il pubblico, vasto spazio di mediazione tra città ed edificio. L’architetto di fine ‘800, smarrito di fronte all’intrecciarsi di problemi inediti, si rifugia nel patrimonio di esperienze portato a riva dalla storia, nei tipi di edificio tradizionali ancora capaci di propiziare sincretismi, trasformazioni, aggiornamenti. Molti dei maggiori palazzi postali ottocenteschi sono organizzati su impianti basati sulla nozione di recinto, come quelli tedeschi organizzati intorno ad una vasta hof  aperta  (a Breslau, Halle o Potsdam), ma anche protetta da vetrate, come a Berlino.
La transizione dal cortile al vano nodale si manifesta, in tutta la sua evidenza, nel riuso di edifici esistenti organizzati su percorsi interni rigiranti intorno a spazi aperti (conventi, palazzi ecc.). Non si tratta di semplice reimpiego, ma di un processo dove la mutazione dello spazio aperto genera edifici interamente nuovi, di maggiore organicità. Si veda la trasformazione in poste del Fondego dei Tedeschi a Venezia dove l’introduzione, nell’edificio seriale del XVI secolo, di una grande struttura in ferro e vetro a copertura del cortile aperto innesca un processo unitario di trasformazione che coinvolge tutte le componenti dell’edificio: le sollecitazioni indotte dalla copertura, compromessa la stabilità delle pareti murarie sottostanti, si estendono progressivamente (organicamente) all’intero edificio, favorite dalle successive opere di consolidamento. L’intero organismo ne esce rivoluzionato: il nuovo vano centrale risulta, come in ogni edificio nodale, staticamente portato, distributivamente servito e spazialmente dominante, mentre i vani periferici risultano portanti, serventi, seriali.
Nel trasformarsi processuale del grande vano centrale la fase “logicamente” successiva é costituita dalla saldatura di atrio e sala degli sportelli, cioè dalla progressiva fusione del cuore dell’organismo con lo spazio urbano. Nato dalla città, il nodo spaziale torna alla vita delle strade: se ancora all’inizio del XX secolo la stessa manualistica raccomanda di considerare la sala per gli sportelli come “spazioso cortile tutto ricoperto a vetri” (Donghi), in pedanti edifici come le poste di Bologna di Emilio Saffi, si annida l’innovazione, il nuovo carattere urbano degli spazi per il pubblico.
Questo processo, annunciato da molti sintomi, precipita nel fecondo periodo di passaggio dalla fine degli anni ’20 agli inizi degli anni ’30, attraverso mutazioni rapide e complesse, ordinabili in sequenze logiche più che cronologiche, rintracciabili dietro la trama di molte facciate “accademicamente” moderne  come quella del Palazzo delle Poste di Brescia  di Piacentini, o quelle di Bergamo, Agrigento, Palermo costruite da Mazzoni. Fino all’apparizione  della solare modernità delle poste romane di Libera e De Renzi o di Ridolfi, o dello straordinario pezzo di città che Vaccaro ha costruito a rione Carità a Napoli. Edifici che indicano, in modo esemplare, come la riduzione dell’edificio postale a macchina di sterile precisione, (la trasformazione idraulica dei corridoi in “flussi”, di gallerie e portici in “circolazione”) appartenga alle tante mitologie del moderno. Nel suo momento più alto, al contrario, la vicenda dei palazzi postali italiani sembra essere stata sul punto di realizzare l’aspirazione alla sintesi tra organismo edilizio ed organismo urbano inseguita da generazioni di architetti nel corso della storia.

LA RISCOPERTA DI CANIGGIA, ARCHITETTO DEL RIGORE

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di Giuseppe Strappa

In «Corriere della Sera» del 14.06.08

Forse il tempo ha finalmente diradato la cortina di silenzio che la critica aveva steso intorno all’opera di Gianfranco Caniggia, architetto e teorico romano scomparso vent’anni fa. Il suo vasto lavoro appartiene, evidentemente, a quel tipo di ricerche che, troppo profonde per il successo immediato, danno i loro frutti su tempi lunghi.
Non è un caso che la sua opera sia riscoperta proprio oggi, quando i superficiali spettacoli dello star system internazionale fanno sorgere dubbi sul ruolo stesso dell’architetto, come testimonia il recente successo di “Contro l’architettura”, impietoso saggio di Franco La Cecla. Rileggere i testi caniggiani significa scoprire una via d’uscita: il progetto contemporaneo non quale semplice invenzione né imitazione del passato, ma “processo”, continuità col grande flusso di trasformazione del costruito e della sua storia. L’architetto non è un artista, ma un artefice orgoglioso del senso civile del proprio mestiere.
Dopo le molte traduzioni dei suoi testi, prossima quella cinese, un importante convegno e due mostre dei progetti di Caniggia (tenute all’ Accademia di San Luca e presso la Facoltà di Valle Giulia) hanno risarcito un debito a lungo rimosso.
Rimosso, non semplicemente dimenticato, perché la sua vicenda umana e intellettuale si lega ad una delle pagine più discusse dell’architettura recente, alle accuse di inseguire una sorta di utopia regressiva sulla scia di Saverio Muratori, suo glaciale precettore di eresie, allontanato dal mondo accademico. Lucio Barbera aveva descritto Caniggia come “un francescano che, con animo mite, si presentò alla società che aveva espulso il Maestro proponendo le ricette sataniche del Vecchio in dosi omeopatiche e salutari, ma mai annacquate”.
Che la sua teoria, lucidamente derivata dalle tradizioni della Scuola romana, sia rimasta per tanto tempo dimenticata è stato, ritengo, un grave danno. Uno spreco che s’inquadra nella più generale crisi dell’insegnamento italiano, che privilegia ormai i “fatti” rinunciando alle dimostrazioni, lasciando i nostri studenti orfani dell’educazione al pensiero unificante, allo sguardo generale che dà senso al particolare. Solo uno storico acuto come Manfredo Tafuri ha avvertito la straordinaria importanza non solo degli studi di Caniggia, ma anche  della sua opera architettonica. Perché l’architetto romano è stato anche un grande progettista, malgrado risulti ormai difficile, in un mondo assuefatto alle tinte forti, apprezzare la sua arte delle cose elementari e delle sottili distinzioni: il raffinato rigore delle case in via Trinità dei Pellegrini, ad esempio, o la composta solennità del Palazzo di Giustizia di Teramo. Le sue architetture possiedono una forma alta e difficile di poesia: non quella dell’emozione che si sostituisce al  pensiero, ma quella disciplinata dal metodo, che tormenta l’intelligenza.
Caniggia tracciava disegni di esemplare chiarezza. Sembrava indicare sulla carta, insieme, la forma dell’edificio e la sua spiegazione.
Fa eccezione il suo ultimo progetto, incompiuto, per l’ampliamento della Facoltà di Valle Giulia. Un progetto misterioso, di incerta interpretazione, del quale abbiamo perso molti dei disegni originali. Come se il mite, grande francescano avesse voluto lasciarci un dono estremo e prezioso: non un teorema dimostrato dal disegno, ma un dubbio e un fertile pungolo

ROMA RITESSUTA

Sapienza Università di Roma – Ateneo Federato dello Spazio e della Società – Dipartimento di Architettura e Costruzione
Lpa laboratorio di Lettura e Progetto dell’Architettura
LABORATORIO DI PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA 2A Prof. Giuseppe Strappa
Prospettive per l’edilizia pubblica nel sesto Municipio
ROMA RITESSUTA

Introduce Benedetto Todaro Preside della Facoltà di Architettura “Valle Giulia
Coordina Giuseppe Strappa Direttore laboratorio di Lettura e Progetto dell’Architettura

Interventi Giovanni Carapella Presidente Commissione Lavori Pubblici, Regione Lazio
Giammarco Palmieri Presidente Sesto Municipio, Roma
Sandro Sanguigni Assessore all’Urbanistica, Sesto Municipio, Roma
Maria Giovanna Musso, Facoltà di Sociologia, Sapienza Università di Roma
Laura Valeria Ferretti Facoltà di Architettura “Valle Giulia”
Alessandro Camiz Direttore seminario, Laboratorio di Progettazione 2A
Paolo Carlotti Direttore seminario, Laboratorio di Progettazione 2A
Giancarlo Galassi Direttore seminario, Laboratorio di Progettazione 2A
Organizzazione Alessandro Camiz
Segreteria Francesco Storto
19 marzo 2009, ore 16.00
Aula 4 – Facoltà di Architettura “Valle Giulia”
Via Antonio Gramsci 53, Roma

 

IL BIOPARCO E LA STORIA DA CAMBIARE

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 26.02.09

Come in un rito d’iniziazione, infantile e fantastico, si entra tra volute barocche disegnate da Armando Brasini e leoni inferociti colti dallo scultore Vincenzo Romeo da Taurianova nell’atto di avventarsi sul visitatore.
E dentro si squaderna il delirante esotismo didattico del giardino zoologico romano, tra finte capanne africane, rocce e caverne di cemento, iceberg d’invenzione.
Karl Hagenbeck, baffuto commerciante amburghese di bestie selvatiche, diede vita a questa follia architettonica, all’inizio del secolo scorso, inventando lo zoo senza gabbie, dove gli animali, isolati da fossati, sembravano aggirarsi tra i visitatori. Tempo dopo Raffaele De Vico ne doveva accrescere la fama costruendo, tra l’altro, una sorprendente voliera geodetica che suscitò universale ammirazione.
Erano gli anni ’30 e pochi pensavano al concentrato di crudeltà che quei recinti contenevano, alla mortale malinconia che assale anche una tigre, se strappata all’ombra materna della sua foresta.
Ci pensò la guerra a spazzare via gli animali lasciando costruzioni e giardini in abbandono.
Poi venne il Bioparco, dopo lunghi anni di stanco recupero. Uomini e valori erano cambiati e una nuova, pelosa pietà per gli animali imponeva di dissimulare la loro prigionia come protezione della natura.
Quanto sia desolato il risultato della trasformazione, ce lo  hanno ricordato alcune lettere inviate nei giorni scorsi a questo giornale. Scimmie, tapiri, cammelli si aggirano tristissimi sotto lanci incrociati di noccioline. Tra gabbie deserte, dentro microcosmi circondati da puerili didascalie, ogni tanto un animale, risvegliato dal torpore, sbatte furioso la zampa contro le vetrate, imprecando con un ruggito alla felice stupidità del mondo là fuori. Cosa ci sia di educativo in tutto questo, nel tempo di internet e dei DVD poi, qualcuno dovrebbe pure spiegare.
Forse dovremmo piantarla con le ipocrisie e trasformare questo posto in un grande giardino pubblico dove solo qualche animale che non ha bisogno di gabbie, il pavone, lo scoiattolo, si possa aggirare tra curiose architetture restaurate immerse tra nuove piante, come in una foresta. Un magnifico, umano zoo vegetale.

LETTERE AL CORRIERE

Uno sguardo sulla natura
Nel fondo (26 febbraio) di Giuseppe Strappa, l’attacco al Bioparco è condotto su due piani ormai «tradizionali»: la «malinconia mortale » della tigre «strappata all’ombra materna della sua foresta» e l’inutilità del Bioparco e di strutture analoghe «nell’era di Internet e dei Dvd».
Sulle tigri si scopre l’acqua calda, visto che la loro importazione a scopo commerciale è vietata da innumerevoli leggi che non sono certo gli zoo a trasgredire. Piuttosto gli zoo ospitano animali che rapaci commerci clandestini destinati ai privati ricchi e annoiati ancora strappano ai loro ambienti. Gli animali del Bioparco e i loro genitori sono praticamente tutti nati in cattività e quasi mai potrebbero rientrare nell’ambiente naturale perché hanno perso la capacità necessarie a sopravvivere in esso. Che ne facciamo? O li teniamo in strutture il più possibile idonee o gli somministriamo la dolce morte: e non si vede cosa ci sia di ecologico o educativo in questa soluzione. Quanto poi a Internet e ai Dvd: vedere un essere vivente dal vivo è diverso che in tv o sul web. Certo che la prigionia ne altera il comportamento, ma almeno i bambini non penseranno che si tratti di un essere virtuale. E poi anche la visione di ottimi documentari è pur sempre una lente deformata da chi li riprende. Insomma gli zoo generano «zoofilia», e se sempre più persone in Occidente ama gli animali è anche grazie a quelle strutture e al loro ruolo nell’ educazione al rispetto della natura. Una storia contraddittoria, certo: ma spesso anche da un errore si può trarre anche un qualcosa di utile.
Alberto Hermanin

Il Signor Hermanin, esperto in «relazioni con i mass-media », ha ragione su due punti.
Il primo è che da «un errore si possa trarre anche qualcosa di utile». L’esperienza degli zoo, forse motivata fino a mezzo secolo fa, sta chiudendo il suo ciclo storico ed è inutile, oggi, continuarla con etichette ipocrite. Tenere animali in gabbia, secondo una sensibilità ormai dovunque condivisa, è diseducativo, oltre che crudele. Da questo errore anacronistico bisogna trarre indicazioni utili per nuove forme di rapporto con la natura. Preferisco che mia figlia veda un leone libero su un Dvd, piuttosto che in una gabbia dove muore di noia.
Il secondo è che gli zoo sono comunque destinati a sparire per mancanza dell’oggetto stesso che li motiva, visto che, come scrive il signor Hermanin, “l’importazione di animali selvatici a scopo commerciale è vietata da innumerevoli leggi”. Nella fase di transizione forse si potrebbe pensare a forme meno crudeli di sopravvivenza per gli animali che non possono essere reimmessi nel proprio ambiente, ma non c’è dubbio che bisogna prevedere un futuro per lo straordinario patrimonio architettonico e paesistico dello zoo romano quando, inevitabilmente, sarà privo di animali selvatici.
Forse sto scoprendo l’acqua calda, eppure debbo constatare che il Bioparco continua allegramente a produrre disastri (agli animali ed ai beni culturali) senza che alcun progetto alternativo sia seriamente proposto.
Giuseppe Strappa

Gentile Buccini, in riferimento alla lettera pubblicata nella rubrica del 19 febbraio 2009 («Tra Bioparco e Giardino Zoologico non solo una questione di nomi») a proposito della sua risposta: a nostro avviso ognuno è libero di esprimere le proprie opinioni, ma un giornalista ha delle responsabilità nei confronti dei lettori, e quando si danno informazioni non esatte, si crea disinformazione. Gli animali nati in cattività da generazioni non possono vivere se non in spazi protetti, infatti, se rilasciati in natura andrebbero incontro a morte certa nel giro di pochissimo tempo e con terribili sofferenze per l’incapacità di difendersi e di procurarsi il cibo corretto. Comunque, anche a noi non piacciono i furbetti. Saluti.
Fondazione Bioparco di Roma
Giovanni Arnone, Presidente
Fulvio Fraticelli, Direttore Scientifico

Gentili signori, partiamo dall’unico punto che pare accomunarci: l’avversione per i furbetti. Nella rubrica da voi citata scrivevo che è vecchia «…l’idea di una serie di gabbie al centro della città dove far vivere in spazi angusti animali che nel dna hanno un insopprimibile bisogno di libertà (e così non ci provino i soliti furbi a raccontarci che i soggetti nati in cattività stanno bene dove stanno)». E dove stanno? Appunto in una «serie di gabbie al centro della città», «in spazi angusti» eccetera.
Ho forse scritto che vanno «rilasciati in natura» tout court come voi tentate di farmi dire? Certo che no. Esistono parchi protetti, adatti a una parziale reintroduzione in natura: posti simili a quello dove gli animalisti si batterono per condurre l’elefante Calimero, già vostro ospite. Tra una gabbia e uno «spazio protetto» c’è una bella differenza: lo spazio. Professionisti del vostro livello queste cose le sanno meglio di me: volendo, potete dirle alla gente anziché usare il babau del «rilascio in natura» come espediente dialettico. I giornalisti hanno, come dite, l’obbligo di verità. Ma i non giornalisti non hanno necessariamente l’obbligo contrario…
gbuccini@rcs.it

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«Ogni anno 600 mila visite»
In risposta all’articolo «Il Bioparco e la storia da cambiare» di Giuseppe Strappa del Corriere di giovedì 26 febbraio: affrontare una discussione sulla legittimità o meno dei Giardini zoologici, che va avanti da decenni, porterebbe a considerazioni sterili poiché è un argomento profondamente condizionato da fattori emotivi e dalla sensibilità dei singoli. L’unico dato oggettivo è che gli animali nati in cattività da generazioni non possono vivere se non in spazi protetti. Il Bioparco (territorio, immobili e gli stessi animali) è del Comune, unica istituzione in grado di decidere le sorti della struttura. Forse il Comune stesso potrebbe chiedere ai cittadini la propria opinione con un referendum. In questo caso il Bioparco, che si oppone all’ « unica dimensione », quella televisiva (sono inutili la Natura vera e gli animali in carne ed ossa perché ci sono internet e dvd), dovrebbe far diventare «votanti » i suoi 600 mila visitatori. Basteranno?
La Direzione del Bioparco

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«Un ghetto per animali»
Un bravo a Giuseppe Strappa per il suo coraggioso articolo! Spero che al Comune qualcuno lo ascolti e che si metta un termine a questa inutile cattiveria nei confronti di poveri animali imprigionati a vita chiudendo definitivamente questo orrendo ghetto per animali. Gli addetti al Bioparco possono essere— in caso di chiusura — più utilmente reimpiegati altrove.
Federico Zadra