I GIOIELLI DI GEHRY

MOSTRA  “BEAUTY WITHOUT RULES”  DA TIFFANY
IN VIA DEL BABUINO, 118
MARTEDI 7 NOVEMBRE

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 08.11.2006

Negli anni ’70 la sedia in cartone riciclato disegnata da Frank Gehry, quella usata a Ballarò, si  comprava nei supermercati per pochi dollari. Oggi, prodotta dalla Vitra, ne costa 850.
Re Mida dell’era mediatica, il famoso architetto emana ormai, in ogni gesto, un’aura di ricchezza: la sua intera ricerca, anzi, sembra dirigersi verso i paradisi del lusso, indicando non solo il progressivo distacco dell’arte dal quotidiano, ma la sua fusione con l’haute couture.
Nella nuvola di cristallo da lui disegnata per la Fondazione Vuitton, Bernard Arnault, primo mecenate di Francia, annoderà mostre d’arte a collezioni di oggetti preziosi, i marchi del suo impero, Dior, Givenchy, Moët, ai profeti della pittura contemporanea, Dubuffet, Basquiat, Hirst. Nello scontro planetario che lega arte, lusso e finanza, la struttura parigina sarà, anche, una scintillante macchina da guerra rivolta  contro il rivale François Pinault (Gucci, Saint Laurent, Christie’s), recente padrone di Palazzo Grassi.
I magnifici gioielli disegnati per Tiffany, da oggi in mostra nella sede romana di via del Babuino, con le loro forme mutuate dalle architetture, sembrano indicare il culmine della parabola di Ghery: “Beauty without rules”. Del resto, se il Guggenheim di Bilbao è un gioiello prezioso perché un monile non può essere disegnato come un’architettura? Le forme fluide dei suoi edifici si confondono così nelle volute di collier e bracciali, una volta disegnati da Elsa Peretti o Paloma Picasso per gli happy few. Ed è solo l’inizio perché Gehry progetterà per Tiffany anche oggetti da tavola lasciando tracimare la sua estetica fastosa nella vita, invaderne i gesti quotidiani come tagliare una fetta di pane o bere un bicchiere di vino.
Si chiude così il circuito. Relegati nei musei i relitti del moderno (l’impegno delle avanguardie, la tensione etica degli oggetti del Bauhaus) la storia infinita di Gehry sembra mostrare come l’architettura sia avviata a diventare la nuova frontiera del lusso e della sua spettacolarizzazione.

LA BELLA METROPOLI

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 09.12.2006

L’architetto ha creduto, per secoli, che il mondo esistesse per essere ordinato attraverso la bellezza, pur sapendo che quest’ordine è illusorio, un fragile stato di transizione.
Ma da almeno mezzo secolo gli architetti indagano la qualità estetica delle cose che hanno perso equilibrio e proporzione. Dal Robert Venturi del caos di Las Vegas, al Rem Koolhaas della New York dei deliranti disastri nasce l’epica metropolitana del moderno nomade eternamente in viaggio tra universi frammentati. La quale ha contribuito, bisogna pur dirlo, all’abbandono di quelle ricerche sull’abitazione che hanno costituito, da Morris a Le Corbusier, l’origine e il sale dell’architettura moderna.
Oggi, persa la carica provocatoria, questo pensiero sperimentale si è trasformato in genere letterario frequentatissimo e vagamente lugubre dove il termine “bellezza” viene ormai rimosso, schivato dagli intellettuali.
Tanto che esso, associato al tema della metropoli, genera un singolare cortocircuito. E’ quello che è accaduto nel recente convegno al Palazzo dei Congressi (Corriere del 24 e 25 scorso) che, con il titolo “La bellezza dove non c’è”, poneva il problema della rigenerazione delle periferie romane, dell’hinterland verso il mare che l’EUR spa si propone di rinnovare.
Se l’aver dimenticato il ruolo della bellezza e del giudizio sintetico che essa contiene sembra averci privato di uno dei grandi strumenti di orientamento nel caos del mondo, le schegge delle borgate romane che scorrono dietro i finestrini di un’auto sembrano ancora indicare, senza bisogno di dimostrazioni, che il bello è altrove.
In realtà la città, anche quella del passato, è sempre stata un mondo di frammenti e i centri storici che abbiamo ereditato sono stati anche, e per lungo tempo, luoghi invivibili.
Ma l’uomo del medioevo vedeva nella polvere e nei blocchi di pietra che affollavano le piazze la forma della città ventura. E gli architetti del Quattrocento disegnavano la Roma antica non per quello che era, ma per quello che avrebbero voluto che fosse. Questo desiderio struggente era il vero progetto di futuro.
Forse anche noi, liberandoci dalle incrostazioni delle teorie (ma anche dalle nostalgie per il passato), dovremmo provare a guardare alla catastrofe, alle rovine della speculazione edilizia romana con occhi nuovi. Accettare il mutamento delle cose sapendo che si potranno ancora ricomporre in nuova bellezza. O, almeno, desiderarlo.

LE CITTA’ NELLA CITTA’

CONVEGNO INTERNAZIONALE ALL’EUR

in «Corriere della Sera» del 22.10.2006

di Giuseppe Strappa

Nella metropoli della densificazione e della babele dei linguaggi, che, in America come in Cina, esplode e si disperde in frammenti, il virtuale sembra sostituire la realtà e l’immateriale la fisicità dei paesaggi urbani.
La stessa nozione di città, intesa come spazio dove l’uomo non solo vive e lavora, ma s’identifica con i luoghi deputati alla vita civile, sembra sgretolarsi.

Paesaggi di reti tendono a separarsi dalle forme reali, dai luoghi fisici: l’immagine mentale  di una metropolitana, della distribuzione commerciale, dei collegamenti autostradali o aeroportuali, è ormai una rappresentazione convenzionale come le icone sul desktop di un computer. E Bill Gates promette l’avvento di un uomo nuovo, telematico, liberato dall’appartenenza al luogo, che può essere “qui e là e in ogni possibile posto”.

Dopo i fiumi d’inchiostro e di bite spesi ad alimentare questa retorica della delocalizzazione e le sue fughe dalla realtà, forse è il momento di chiedersi se non stiamo perdendo i reali termini del problema. Non tanto perché il 50% degli abitanti del nostro pianeta non ha mai fatto una telefonata, ma soprattutto perché abitare e leggere e-mail in un condominio di Calcutta o in un attico di New York non sarà mai la stessa cosa.

E forse l’uomo, soprattutto il nuovo, mitizzato, nomade metropolitano, ha ancora bisogno di appartenenza, degli spazi essenziali dove la vita affonda le sue radici. L’accettazione della città dispersa, combinatoria, costruita per frammenti sembra segnare, peraltro, la rinuncia definitiva a quella carica ideale, ottimista ed utopica, che aveva dato senso all’architettura moderna, finendo per assegnare all’architetto contemporaneo il ruolo, omologato e rassicurante, di autore di spettacoli urbani.

La crisi della metropoli contemporanea, il suo governo, le ideologie che ha generato sarà il tema di un convegno internazionale che si svolgerà il 13 e 14 maggio al Palazzo degli Uffici all’EUR.

Proprio l’immagine dell’EUR, con il richiamo alla concreta fisicità di città moderna-non moderna che la sua architettura contiene, può indicare alcuni argomenti di riflessione: la validità e la durata dell’architettura urbana; i guasti della specializzazione nell’arte di costruire le città di due momenti separati, il piano urbanistico (lo zoning, gli standard), ed il frammento edilizio che, quando raggiunge la qualità della grande architettura, si compiace narcisisticamente del suo isolamento. La crisi del piano e la caduta di significato civile dell’architettura sono, in questo senso, due facce di uno stesso problema.

La fortuna critica e storiografica dell’EUR ha avuto nel tempo alterne vicende. Oggi  è un po’ fuori moda e si torna a parlare dell’arretratezza del suo impianto “ottocentesco”. Ma, se è vero che il suo modello, rigido e marmoreo, è ormai inattuale, il suo impianto ha in realtà fondamenta molto più antiche che riportano all’essenza della città italiana. E proprio questa  è la sua forza: la capacità di trasmettere, se si guarda oltre le tendenze del momento, la dimenticata, fondamentale nozione di tessuto, il legame tra edificio e città, tra  struttura di percorsi ed architettura, tra episodio eccezionale e continuità edilizia. Nozioni che non sono né vecchie né nuove facendo parte del modo dell’uomo di abitare e orientare lo spazio. Averle dimenticate è uno dei disastri della città contemporanea.

Non a caso l’EUR, che pure nel dopoguerra assomigliava ad una città di rovine più che ad un quartiere in costruzione, ha resistito ai disastri del boom edilizio ed è oggi capace di accogliere il plurale e il diverso, il Palazzo della Democrazia Cristiana come la nuvola di Fuksas.

La vicenda dell’EUR, generato dal demone della compiutezza incorruttibile, dove la  storia ha stratificato nel tempo, invece, segni disuguali e contraddittori, c’insegna come governare i processi di trasformazione della città contemporanea significhi anche accettarne, senza presunzioni di totalità, il carattere aperto, la continua dialettica. Ed anche la sua parte arbitraria e ingovernabile, distinguendo l’essenziale della forma urbana, la struttura profonda e riconoscibile, dall’inevitabile arbitrio del casuale, del particolare, dell’individuale. L’Eur sembra mettere in guardia intellettuali e progettisti dalle seduzioni delle profondità astratte, invita a ridiventare chiari e concreti.

Perché la città contemporanea non è solo il mondo dell’accidentale e del fortuito, è anche un testo continuamente riscritto, alla cui vitalità occorre il grande respiro, la chiarezza di una struttura condivisa nella quale riconoscere la lingua colta delle grandi architetture civili e, insieme, il flusso delle mutazioni combinatorie, il contributo dal basso dei tanti singoli edifici, il molteplice e l’eterogeneo del parlato quotidiano che rinnova e dà ricchezza al linguaggio.

Esami laboratorio di sintesi

l’esame del

LABORATORIO DI SINTESI FINALE ARCHITETTURA U.E.

e del corso di

PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA II – LABORATORIO ARCHITETTURA (RESTAURO – LS)

prof. G. Strappa

si svolgerà

venerdì 19 dicembre 2008 dalle ore 10.00
nell’aula 16 bis presso il Dipartimento AR_COS

per sostenere l’esame gli studenti sono tenuti a registrarsi sul portale

https://stud.infostud.uniroma1.it:4445/Sest/Log/Corpo.html

ELOGIO DEL PALAZZO PUGLIESE

di Giuseppe Strappa
in «Dimore Storiche» n° 47/48, 1/ 2002

La grande rilevanza che la formazione del palazzo italiano ha assunto nel quadro della cultura europea non può essere fatta derivare unicamente dal ruolo che esso ha svolto nella storia dell’arte, dallo splendore delle sue facciate, dalla bellezza della composizione architettonica che ne organizza le parti: la sua importanza è dovuta anche, forse soprattutto, al valore di testimonianza dei caratteri di una civiltà che esso contiene, al profondo rapporto che instaura con l’aggregato di abitazioni che lo circonda e dal quale, dato fondamentale, esso trae la propria origine.
Questo processo formativo lega solidalmente il grande o il piccolo edificio nobiliare alla città in cui sorge, in un rapporto organico che vede le stesse nozioni di percorso, aggregazione, nodalità riscontrabili nei tessuti urbani, rispecchiarsi nel palazzo. Il quale finisce per organizzarsi, per dirla con l’Alberti, come una piccola città, regolato com’è dalla gerarchizzazione dei propri percorsi interni, dall’aggregazione dei vani, dalla polarità di scale e sale di rappresentanza.
Tanto a Venezia, quanto a Firenze o Roma, il palazzo deriva, in realtà, da quell’insieme di abitazioni di piccole dimensioni, l’edilizia “di base”, che costituisce la gran parte della città tradizionale, e la sua architettura è pertinente al tessuto che, nelle diverse aree culturali, assume caratteri specifici in funzione delle diverse forme che gli aggregati di abitazioni presentano: la casa-fondaco, e poi il palazzo veneziano, sorgono dalla trasformazione delle domus su cui è stata impiantata la città; il primo palazzo fiorentino nasce dall’incremento della casa mercantile; il palazzo romano ha origine dalla rifusione di modeste case a schiera, unificate da percorsi comuni “ribaltati” all’interno e da una facciata nella quale il ritmo ancora apprezzabilmente irregolare delle aperture lascia trasparire il travaglio del lavoro di unificazione e regolarizzazione svolto dal costruttore. Ma ben presto ai palazzi formatisi per diretta trasformazione dell’edilizia di base succedono strutture progettate ab initio, le quali, pur ereditando per intero i caratteri originali del processo formativo, vengono piegate, tuttavia, alle regole della geometria ed alla retorica individuale dell’architetto. Edifici come Palazzo Corner, Palazzo Davanzati, Palazzo Ossoli contengono, in altre parole, l’eredità operante della storia edilizia locale filtrata dall’apporto critico del progettista che si pone il problema del disegno unitario di un nuovo edificio. La complessità e la ricchezza dell’architettura spontanea vengono, in qualche modo, semplificate dall’ordine generale dell’architettura completamente progettata, mentre scelte estetiche colte e dichiaratamente orientate dalla personalità dell’architetto immettono il nuovo edificio in un contesto culturale molto più ampio di quello locale.
In questo contesto, articolato negli esiti ma comune nei principi, i palazzi e le dimore nobiliari formatisi in Puglia a partire dal XV secolo assumono un’importanza particolare costituendo, nella grande maggioranza dei casi, la testimonianza di una sintesi architettonica fondata con continuità sulla trasformazione diretta dell’edilizia di base della quale permangono, evidenti, non solo le tracce murarie, ma i contributi strutturanti la forma ultima dell’edificio. Nelle tante città pugliesi di illustri (e spesso malnote) tradizioni edilizie, la mano dell’architetto raramente irrigidisce la costruzione di un palazzo in un progetto geometricamente preordinato, derivato da un trattato o dall’esperienza di edifici simili individuati in altri contesti culturali; più spesso opera, almeno fino all’inizio del XIX secolo (quando si abbattono le mura delle città pugliesi e si costruisce su nuovi terreni), per accorpamenti, per raccordi di facciate, per ricuciture di percorsi, che l’architetto, tuttavia,   utilizzando ancora la materia viva del tessuto esistente, del patrimonio di piccole case monocellulari, cortili, vicoli portati a riva dalla storia locale.
Il fluire imprevedibile della vita delle città, che scorre e trasforma piazze, strade, edifici, è dunque ancora leggibile nella forma molteplice del palazzo pugliese, nell’apparente casualità leggibile nonostante la cortina dell’ordine geometrico disposto dall’architetto. Il quale interpreta attraverso la nuova costruzione, a sua volta, le regole che, nella città, unificano, in una comune nozione di tessuto, il frammento nella totalità, l’accidentale nell’ordine generale dell’organismo urbano. Il palazzo pugliese contiene, dunque, la seducente, duplice rappresentazione del desiderio di unificare una parte di città, e della necessità di mostrare il sostrato degli edifici che lo hanno generato: in modo non diverso da quanto avviene per la lingua, dove il parlato quotidiano è il fondamento dei codici della scrittura e, in qualche caso, del linguaggio della poesia.
Constatazione questa, peraltro evidentissima in tessuti che, come a Trani, si sono formati attraverso un lungo processo di stratificazioni successive: qui i grandi e piccoli palazzi delle famiglie che hanno avuto un ruolo importante nella vita economica e civile della città ( i Caccetta, i Lopez, i Filangeri, i Carcano) sembrano affiorare da un potente strato geologico di edilizia “minore” che trasmette loro, in modo diretto, attraverso la fisicità della costruzione, il patrimonio della cultura del luogo.