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LA CITTA’ DEI RECINTI

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della sera» del 15.02.2004

Si torna a proporre, anche su queste pagine con un bell’articolo del prof. Mario Sanfilippo, l’uso delle recinzioni per proteggere i nostri  monumenti. L’argomento portato a sostegno delle cancellate è lo stesso da almeno un decennio: la loro presenza “storicizzata” nell’Ottocento, come nel caso esemplare del Pantheon.
Dando per scontato che in alcuni casi le recinzioni sono necessarie (per le emergenze, per i parchi, per le aree archeologiche), la volontà di difendere il singolo monumento contro la malvagità degli uomini, asserragliandolo in un museo a scala urbana, a me sembra un’utopia burocratica e vagamente folle.
Proprio le cancellate ottocentesche ne forniscono la dimostrazione. Esse rappresentavano la coerente conclusione di un processo di isolamento che tentava di abolire il passaggio del tempo, di restituire una forma originale del monumento astratta e mitizzata, depurata dalle incrostazioni della storia. Lo stesso pavimento del pronao del Pantheon, che ha destato tanta ansia di protezione, è stato messo in opera, nessuno sembra ricordarlo, nel 1885 (in sostituzione di un altro in mattoni, pure moderno) all’interno di un piano di restituzione delle forme antiche iniziato con la dolorosa demolizione delle trasformazioni barocche, dei campanili costruiti da Bernini, delle case medievali che vi si addossavano. Interrompendo così il rapporto con il tessuto nel quale il monumento era amorevolmente accolto e deformando il senso unificante dello spazio, cavo e glorioso, intorno al quale si avvolgeva la vita della città.
Dell’idea ottocentesca di monumento, marmorea e sepolcrale, le cancellate costituivano, dunque, l’esatta espressione simbolica.
Da allora la nozione di bene architettonico è molto cambiata: è divenuta dilatata e molteplice, si è estesa all’intero ambiente storico perché, soprattutto a Roma, il senso delle forme degli edifici risiede nel loro carattere di organismo, nella relazione tra  membra della costruzione e città, nel flusso della vita che vi scorre.
Ma è cambiata, soprattutto, la scala dei problemi e con essa la nostra idea di tutela.
Prima della guerra, ad esempio, non esistevano danni dovuti alle polveri e ai gas prodotti dalla combustione di migliaia di motori, all’acido solforico che oggi trasforma, si è scoperto, interi strati di pietra in gesso. Un processo che si va accelerando e che rischia di distruggere in pochi decenni monumenti pure sopravvissuti a secoli di oltraggi.
Cambia così, parallelamente al territorio da proteggere,  l’idea di recinto.
E si pone, con drammatica urgenza, la necessità di un progetto che affronti le cause (non gli effetti) dei problemi, che impieghi, alla scala urbana, nuovi recinti e nuovi limiti: alla pressione del traffico, del commercio incontrollato, delle trasformazioni edilizie, di un turismo aggressivo e volgare che guarda il Colosseo con gli occhi di Russell Crowe e trasforma il tessuto antico in un solo, grande locale per divertimenti. Con l’inevitabile indotto di rifiuti che invadono il pronao del Pantheon come in ogni altro angolo del nostro centro storico.