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VITA PRIVATA DI LOUIS KAHN

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 25.04.2005

Nella notte del 17 marzo 1974 la polizia di New York trova, nei bagni della Penn Station, il corpo senza vita di un anziano immigrato dall’Estonia, con il volto, sfigurato da vecchie cicatrici, coperto da lunghi capelli sottili. L’inspiegabile abrasione dell’indirizzo sul passaporto ne impedisce l’identificazione e così solo dopo tre giorni di obitorio si  scopre che si tratta di Louis I. Kahn, architetto tra i più significativi della seconda metà del XX secolo. Vengono alla luce, anche, le sue tre famiglie con le quali aveva contemporaneamente intrattenuto relazioni lunghe e distaccate, che vivono non lontane l’una all’altra ma si conoscono solo il giorno del funerale.
Sulla vita misteriosa e complessa di Kahn il figlio Nathaniel, avuto a 61 anni da una giovane collaboratrice di studio, ha ora prodotto e diretto My Architect. Il film è il racconto drammatico di un viaggio durato cinque anni alla ricerca del padre, quasi sconosciuto, attraverso le sue architetture sparse per l’intero globo terrestre, i suoi clienti, le sue mogli. Ma è, anche, lo spaccato di un mondo dove i grandi messaggi si mescolano alle miserie familiari, i sogni alle ambizioni.
Un mondo che Nathaniel riporta senza odio o rancore, nonostante il contraddittorio rapporto di Kahn con la madre, coinvolta nel felice progetto per il Kimbell Museum ma anche umiliata, chiusa a chiave in una stanza durante le visite della moglie ufficiale.
My Architect è un film strano e triste, le cui sequenze restituiscono un’immagine diversa del Kahn eroe positivo che conosciamo: nel suo mondo architettonico tutto si tiene e lega insieme in indissolubile unità; nel suo mondo privato, al contrario, tutto sembra disgregarsi, disperdersi, svanire.
Se ci si aspetta che il rigore e la grandezza della ricerca artistica si riverberi, in qualche modo, nella vita privata degli autori – sembra dire Nathaniel – si è destinati a rimanere delusi. La ricerca autentica prosciuga ogni linfa vitale, dissecca, assorbe totalmente le energie.
Nathaniel non dà giudizi e lascia allo spettatore decidere quanto i risultati artistici ripaghino di una vita spesa in una sola direzione. Perché, a fronte dell’immagine umana di Kahn che s’incrina, il film mostra anche questo: come le sue opere invecchino bene e si dispongano per tempo, gloriosamente, alla condizione di rovina, come si chiede alla grande architettura, facendo intuire, dietro i muschi e i licheni affioranti dalle murature, la presenza di un nucleo ideale incorrotto dal tempo, come un bene collettivo conquistato ad un prezzo troppo caro e generosamente trasmesso alle future generazioni.
Una conquista iniziata a cinquant’anni con un lungo soggiorno a Roma, nel contatto, all’epoca dell’acciaio e delle grandi vetrate, con le possenti masse murarie dei monumenti antichi. Al ritorno a Filadelfia Kahn si sente investito della missione profetica di riportare l’architettura sulla strada maestra indicata dalle antiche rovine. E come un profeta nomade ed irrequieto, incurante degli affetti che intralciano il suo cammino (“non si può dipendere – affermava – dai rapporti umani”) comincia a costruire grandi spazi silenziosi, nudi, simbolici, dove i passi risuonano nel vuoto e l’uomo si sente sollevato da ogni precarietà,  immerso pienamente nel flusso maestoso della storia.
Quando, nello smarrimento degli anni ’60, altri cercano nel dialetto e nel vernacolo un’alternativa alla crisi del linguaggio internazionale, il piccolo Kahn, controcorrente, riscopre la dimensione epica del proprio mestiere, l’arte dei grandi sentimenti religiosi e civili, dei temi poderosi e solenni, della lingua aulica e universale.
Si è detto molto del suo uso dell’antico. Ma quella di Kahn, prodotto artificiale di miti privati, non è una lingua morta. Le sue opere risalgono agli etimi più semplici e profondi delle forme, parlano con un’immediatezza che rende superflua ogni spiegazione. Non è un caso che il governo musulmano del Bangladesh abbia affidato a lui, ebreo americano, la costruzione dei simboli della propria nascente identità nazionale.
Interviste e dialoghi del film si svolgono all’interno di costruzioni notissime come la Fisher House, la Exeter Library, il Salk Institute, la National Assembly di Dacca. Le opere di Kahn, usate come fondale, si popolano di personaggi, escono dall’astrazione dei libri ed entrano nella vita mostrando l’architettura nella sua contraddittoria essenza: una condizione d’equilibrio temporaneo, un momento di transizione della materia che, per pochi decenni o qualche secolo si adatta ad ospitare le tragedie degli uomini e le loro gioie, le loro miserie e i loro tradimenti.

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La lezione indiana di Studio Mumbai

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 5 novembre 2012

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La mostra in corso presso l’Accademia Britannica di via Gramsci sul lavoro di Studio Mumbai , una nuova

 

struttura di artigiani e architetti indiani che disegnano ed eseguono direttamente i loro lavori, mi pare possa suggerire qualche utile argomento di riflessione.

Si ritrovano, negli spazi delle loro case, la trasparenza delle pareti di canne dei villaggi immersi nei palmeti, le esili strutture di legno che sembrano appena sfiorare il battuto di cemento e la terra bagnata dai monsoni. La luce filtra all’interno e illumina gli oggetti che la vita deposita sui pavimenti lasciando, tuttavia, misteriose zone d’ombra che sembrano inesplorate.  L’arte sembra solo un lavoro ben fatto.

Ma il ciclo produttivo che genera queste architetture è tutt’altro che arcaico: il sapere artigiano si confronta con soluzioni sempre nuove, sperimenta tecnologie, modelli di scale, coperture, infissi, nodi costruttivi.  Non imita forme nostalgiche e vernacolari. Al contrario, ben piantato al centro della contemporaneità, Studio Mumbai è tra le voci più originali in un mondo che, nel culto dell’invenzione e dello straordinario, si va in realtà appiattendo in appariscenti convenzioni. Le loro opere, ancora non numerose, sono pubblicate sulle principali riviste del pianeta, ottengono premi dovunque, vengono presentate in mostre a Tokyo, Londra, Venezia.  Qualche giorno fa, in una libreria di Amsterdam, mi è capitato di trovare perfino una loro monografia in cinese.

Un fenomeno del quale, credo, dovremmo tener conto.

Perché da noi, seguendo l’eredità di una modernità privata delle sue idee, quello internazionale dei costosi contenitori d’acciaio e vetro, dai tempi dei Ridolfi, Libera, Luccichenti, nessuno sperimenta più l’architettura organica delle nostre pareti massive, corali, protettive che pure possiede un proprio linguaggio moderno capace di esprimere anche le distonie e le frammentazioni del mondo contemporaneo. Quel patrimonio romano di forme murarie e plastiche, ormai abbandonato a qualche isolato conservatore, che pure potrebbe essere di grande attualità per la sostenibilità e il risparmio energetico che consente.

Le opere di Studio Mumbai contengono un nucleo costruttivo e poetico profondamente legato al luogo di provenienza, al mondo delle costruzioni elastiche e trasparenti, eppure sono “esportabili”, entrano in relazione con i circuiti della comunicazione planetaria. Certo, anche la loro è una scaltrissima architettura-spettacolo gestita con piglio hollywoodiano dal “ministro degli esteri” Bijiy Jain. Ma uno spettacolo originale perché guarda all’origine delle cose, alla città vera che si trasforma, alle immagini e alle costruzioni che si riciclano.

Non è possibile che anche da noi qualche giovane sperimenti un’architettura, insieme, locale e globale, che non attinga alla retorica di un passato mitizzato, ma alla storia vitale trasmessa dallo stesso carattere dei materiali?

La vera globalizzazione non è, del resto, una marmellata universale di stereotipi dove, nell’ansia di novità, tutto si stempera e diviene omogeneo, ma un grande mercato che si alimenta di diversità, dei contributi di molte, contrastanti identità.