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BOICOTTAGGI E IDENTITA’

di Giuseppe Strappa

in “Corriere della Sera” del 9.01.2009

Ho dovuto rileggere un paio di volte la notizia che il presidente di un sindacato con ottomila iscritti, consigliava di boicottare i negozi gestiti dagli ebrei. Sembra impossibile che, con tutto quello che è successo e che sta succedendo, qualcuno proponga un gesto che ricorda gli episodi più lugubri del nostro passato.
La cosa potrebbe essere archiviata come bizzarra sciocchezza se la storia non ci avvertisse che l’odio antiebraico è nato, nelle grandi città europee, dalla disattenzione verso sintomi come questo, che tra il boicottare i negozi degli ebrei ed indicare quali sono, magari con un segno giallo, il passo è terribilmente breve.
Ma quell’offesa colpisce anche qualcosa che ci appartiene, tocca corde comuni.
Perché l’identità romana, quella poca ancora rimasta, è fatta anche di questo: di ristoranti dove si mangiano magnifici carciofi alla giudia, di grandi rivendite di stoffe con le pezze accatastate, con un ordine misterioso e perfetto, nelle viscere di vecchi edifici del Ghetto, di negozi orgogliosamente fuori moda dove generazioni di famiglie di religione ebraica vendono di tutto, dalle cucine ai computer.
Una solidarietà tra tessuto urbano e commercio che trasmette, in qualche modo, quella storica consuetudine romana tra “casa e bottega” che ha permesso, a volte, di conservare la forma autentica, fatta di edifici e della vita che vi scorre, delle nostre piazze e strade storiche. E’ sempre odioso distinguere tra comunità di appartenenza, ma va pure detto che, tra tanti guasti prodotti nel nostro centro storico da un commercio sempre più cinico, i negozianti di religione ebraica sembrano ancora resistere al consumismo più volgare.
Giancarlo Desideri, nel lanciare l’appello al boicottaggio, ha giustamente previsto “di avere tutti contro”. E’ bene che ne abbia la più ampia conferma, che la città faccia sentire alla comunità ebraica la sua calda solidarietà. Che l’immagine di tolleranza che Roma si è guadagnata in tanti anni non venga incrinata dal fanatismo di qualche voce sciocca e isolata.

LA CASA DI ABRAMO


di Giuseppe Strappa
in “Conoscersi e convivere” , N° 2, 2007
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Considerare l’architettura come linguaggio di pace, superando i rischi della retorica, è uno dei grandi temi che la Casa dell’Architettura di Roma propone da tempo.
La prima iniziativa presa in questa direzione è stata l’organizzazione nel 2006 (con la collaborazione dell’Ufficio per le Politiche della Multietnicità e la Casa delle Letterature) di due giornate di dibattito dedicate alla convivenza multietnica nel bacino del Mediterraneo: la prima incentrata sul tema dello spazio sacro nelle grandi religioni monoteiste (La Casa di Abramo, 23 giugno) e la seconda sul retroterra culturale che, per molti aspetti, accomuna le città mediterranee  (Un solo Mediterraneo, 24 giugno)
Gli incontri, come mostrano alcuni degli interventi svolti in quella occasione e che vengono pubblicati nelle pagine che seguono, si inserivano nel quadro di un programma della Casa dell’Architettura di Roma che mira a stabilire un terreno d’incontro non solo tra discipline, ma anche tra culture diverse in un periodo, come quello che stiamo vivendo, nel quale i conflitti tra comunità politico-religiose sembrano avere nel Mediterraneo uno dei centri focali.
Ci è sembrato allora opportuno, da architetti, mettere in evidenza i caratteri comuni del territorio e della città mediterranee.
Perché il Mediterraneo è sempre stato considerato, nel corso della storia, luogo di conflitti tra civiltà provenienti da territori lontanissimi: dalle steppe degli Altai, dalle sabbie dell’Arabia, dalle foreste del Nord Europa. Non è stato notato, invece, come l’architettura delle città mediterranee possa essere letta come espressione solare e ottimista della convivenza tra umanità diverse abbracciate da una comune cinta di mura.
Queste città dello scambio e della fusione finiscono per mostrare, se si guarda oltre la differenza delle architetture “alte” (dei palazzi, delle sinagoghe, delle moschee, delle chiese) uno stesso carattere riconoscibile, quasi una lingua condivisa dai tanti tessuti di semplici case della quale s’intuisce, attraverso l’emozione delle forme, una radice comune.
Il riconoscimento di questa impronta, evidente e concreta, è un dato assolutamente moderno: corrisponde al declino dell’interpretazione convenzionale del paesaggio mediterraneo che pittori e poeti avevano per lungo tempo identificato con l’eredità classica, idealizzata nella luminosità di trabeazioni e nella trasparenza di colonnati. Quando i viaggiatori, dopo la metà del’700, si spingono nell’Italia meridionale, si rivela, quasi d’improvviso e con radiosa evidenza, la natura di un territorio organicamente antropizzato, un mondo di murature massive e di case dalle piccole finestre. Volumi puri sotto la luce, solidi, stabili, continui, diffusi sull’intera costa del Mediterraneo.
Si scopre così come, anche in architettura, accanto alla lingua ufficiale esista un diffuso “parlato” quotidiano e come dietro l’immagine solenne di un tempio ionico (un lampo che rimane impresso nella retina e nella memoria proprio per la sua eccezionalità) viva una lingua plastica e muraria diffusa, trasmessa dal flusso inesauribile di pacifiche case a schiera o a corte che hanno formato l’essenza della città mediterranea
E comincia a formarsi, anche, la consapevolezza di una possibile, comune identità.
Comprendere queste radici significa anche capire come la ricostruzione dei territori palestinesi, ciprioti, israeliani, libanesi massacrati da anni di guerre, partecipi non solo delle stesse tragedie, ma anche di un fecondo lascito, di un sedimento comune costituito dalla forma delle case, delle città e del territorio.
In questo quadro il tema dello spazio sacro ha un ruolo del tutto particolare per la storia stessa delle grandi religioni monoteiste che si sono sviluppate nei paesi del Mediterraneo, le quali trovano un loro punto d’incontro proprio nell’architettura religiosa delle origini.
E’ vero che, nel corso del tempo, ognuno sembra aver letto nelle scritture della propria religione le conferme che andava cercando e la moschea, la sinagoga, la chiesa, sembrano oggi, considerate nei loro esisti architettonici, espressione di gelose diversità. Eppure, se si ripercorre il processo formativo della loro architettura, espresso simbolicamente in tutte le scritture, ma evidente anche nella concretezza del costruito, si scopre la loro origine comune nella casa. Origine che esprime i valori più profondi dello spirito religioso ebraico, islamico, cristiano: la pietas e la fratellanza tra gli uomini identificate nel gesto dell’accoglienza.
Dal confronto tra i diversi libri sacri, si scopre una comune, appassionata identificazione dell’architettura dello spazio domestico con l’idea del legame che può unire uomini diversi sotto uno stesso tetto. La tenda di Abramo costituisce l’espressione religiosa comune di questa casa delle origini, raccogliendo la poesia dello spazio protetto e, insieme, aperto al diverso, al viandante.
Nella Bibbia Abramo accoglie i tre viandanti che arrivano alle querce di Mamre sotto la propia tenda, dove prepara un banchetto per gli sconosciuti ospiti. Nella Torah la casa di Abramo è il simbolo stesso della chesed, dell’amore verso il prossimo. Nel Corano, nella sura di Imran, la Kaaba eretta da Abramo è “la prima casa costruita per l’uomo”, destinata a divenire “luogo di riunione e rifugio”.
Uno stesso spazio originario sembra dunque esprimere, insieme, lo spirito religioso e le radici comuni delle civiltà che si sono affacciate sulle rive del Mediterraneo.  Producendo forme murarie avvolte intorno ad una corte centrale, essenza della casa delle origini che darà vita a tanta architettura mediterranea.
Proprio a Roma queste radici comuni hanno trovato una sintesi straordinaria e vitale, l’alveo condiviso dove gli infiniti contributi regionali si sono trasformati in messaggio universale.
Per questo il riferimento alla casa di Abramo, evocata più volte nel corso degli incontri, sempre più frequenti a Roma, tra le comunità ebraica, islamica, cristiana, sembra un richiamo non solo ad un patrimonio comune, a tradizioni accolte come proprie da popoli diversissimi, ma anche al ruolo di generoso spazio dello scambio, di grande Casa comune del Mediterraneo, che la nostra città, ancora una volta, sembra chiamata a svolgere.