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CARATTERE DELLA MATERIA, CARATTERE DEL MATERIALE

MATERIA, MATERIALE

prof. Giuseppe Strappa

Dire che il materiale rappresenta il mezzo necessario e sufficiente – scriveva Giuseppe Pagano – per la realizzazione architettonica non basta. Esso è qualche cosa di più. Esiste nel materiale qualche cosa che non è soltanto aspetto esterno ma è tendenza formale inerente il materiale prescelto.Il problema dell’impiego dei materiali non è la fase conclusiva del processo di progettazione, quella che prelude alla costruzione. Al contrario, la scelta dei materiali, l’individuazione del loro uso possibile, costituisce uno dei momenti fondanti del progetto e interviene fin dalla sua impostazione.

Possiamo definire un organismo, sotto questo punto di vista, come trasformazione della materia in elementi, i quali si aggregano stabilendo tra loro un rapporto di necessità fino a costituire un’unità autonoma.

I caratteri degli edifici sono legati al problema fondamentale delle trasformazioni della natura in realtà costruita: al problema di come la materia cambi, per così dire, di stato, divenga  materiale prima di essere trasformata in elemento di architettura e di come l’elemento concorra alla formazione dell’ organismo componendosi in strutture di grado sempre maggiore. La serie delle delle trasformazioni e aggregazioni che determinano selettivamente il carattere di un edificio può essere individuata nel passaggio dal  carattere della materia al carattere del materiale fino, attraverso la formazione di elementi e strutture, al carattere dell’ organismo. L’impiego della materia (i suoi diversi modi) è dunque uno dei dati fondamentali che presiedono alla formazione dell’edificio.

Risulta dunque riconoscibile  un carattere della materia, allo stesso modo in cui è riconoscibile  un carattere del materiale, degli elementi, e dell’organismo architettonico. Questi caratteri si influenzano reciprocamente, nel senso che l’edificio è sintesi e conclusione di un processo continuo di trasformazione della natura in realtà costruita.

Si è distinta la materia dal materiale perché i due termini hanno valore  profondamente diverso.

La materia è la sostanza di cui sono composti i corpi dell’universo, la parte fisica e sensibile del mondo: il termine esprime, insieme all’indeterminatezza, la potenzialità a ricevere forma. Essa non è, dunque,  un materiale edilizio:  è invece  il dato del problema, preesistendo  alla trasformazione. Dunque la materia  è l’origine prima della realtà costruita. La differenza tra materia e materiale  non riguarda dunque tanto la concretezza della costruzione, quanto la coscienza dell’uomo, la cognizione che una certa materia sia suscettibile di essere utilizzata come (o trasformata in) materiale, sia adatta o adattabile a diventare edificio.[1] Il riconoscere all’interno della natura la disponibilità di alcune materie ad essere trasformate in materiali fa parte della storia della coscienza (spontanea o critica) dell’uomo di fronte all’universo. Lo dimostra la storia: il Neolitico è la fase di sviluppo della coscienza dell’uomo nella quale viene soprattutto riconosciuta l’attitudine della pietra ad essere trasformata in materiale lapideo benché fossero a disposizione, in potenza, infinite altre possibilità; lo stesso è avvenuto per il ferro, il bronzo ecc. con un progressivo adattamento artificiale (un processo di domesticazione del mondo minerale e vegetale) della materia a materiale. Adattamento segnato dal passaggio dal puro adattamento dei materiali “trovati” (le scaglie di pietra utilizzate come punte di frecce, la pietra raccolta e impiegata senza trasformazione nelle murature a secco) alla lavorazione della pietra in blocchi e conci squadrati, al controllo della fusione dei metalli, alla formazione delle leghe. Dunque il termine “materiale” indica l’attitudine che viene riconosciuta dall’uomo alla materia di essere impiegata, trasformata o meno, nella costruzione. Il materiale può essere interpretato come il risultato di un processo di “distillazione” della materia operato attraverso selezioni successive dovute alla convergenza di istanze civili e pratiche. Si pensi alla cura della “purezza” dei materiali che ricorre tanto nelle raccomandazioni di Vitruvio per la scelta dell’argilla, quanto nelle norme degli statuti medievali sulla tutela della qualità del gesso, la cui vendita, perché ne fosse controllata la purezza, era riservata agli iscritti nella lista dei mestieri. Se nel cantiere medievale il nome dell’architetto è spesso sconosciuto, ogni pietra reca invece la firma del tagliapietre che l’ha sagomata non solo per controllare la quantità del lavoro svolto, ma come verifica dell’esatta lavorazione del materiale e, anche, gesto d’orgoglio delle maestranze.

La distinzione tra materia e materiale è dunque un’ operazione  critica e allo stesso tempo collettiva che nel passato apparteneva ad una società civile (o in via di civilizzazione) anziché all’individuo. Essa è  uno dei dati fondamentali nella formazione dei caratteri degli edifici e ne contraddistingue, contro luoghi comuni diffusi, la sostanza creativa. Anzi, questa operazione di riconoscere e ordinare la materia corrisponde all’atto creativo per eccellenza, costituendo l’origine di ogni costruzione. La stessa origine del mondo interpretata come creazione è basata, in molte religioni, sulla trasformazione del caos iniziale della materia che costituisce l’universo informe in sistema ordinato di elementi.

L’omogeneità dell’ambiente costruito tradizionale pugliese, ad esempio, non deriva unicamente dall’uniformità della sua costituzione litologica, ma dalla costanza del riconoscimento nella materia lapidea (in genere calcare compatto del cretacico di notevole durezza) dell’attitudine ad essere impiegata secondo le forme prodotte naturalmente per sfaldamento, ordinate dalle diaclasi, e riaggregate in idonei sistemi statico-costruttivi. L’ omogeneità deriva dall’impiego generalizzato, insieme, di questo materiale e dei modi d’impiego che l’opera dell’uomo gli ha associato nella costruzione di abitazioni, rimesse agricole, recinti murari, pavimentazioni di strade. L’attitudine dei tufi del pliocene e della pietra leccese del miocene ad essere impiegati dopo la trasformazione, resa semplice dalla scarsa durezza del materiale, ha dato vita, invece, ad una diversa cultura edilizia sviluppatasi soprattutto nell’area del Salento. Perfino la formazione di aggregati di abitazioni trogloditiche scavate nella roccia ha comportato una forma di riconoscimento dell’attitudine della materia (calcare tenero tufaceo) a trasformarsi in materiale (pareti e volte delle grotte e delle dimore ipogee).

All’interno del caos  indifferenziato, confuso ed informe (massa senza ordine) delle Metamorfosi di Ovidio, ad esempio,  l’atto creativo  corrisponde alla composizione del conflitto interno alla materia operata da un nume che distingue (separa) i caratteri della materia: la leggerezza dell’aria e il guizzo del fuoco; la pesantezza della terra “premuta dal peso” e la fluidità dell’acqua. All’atto creativo corrisponde la leggibilità simbolica (architettonica) del gesto: l’ordine è anche comunicabile razionalmente, leggibile attraverso la forma sferica della terra. Si noti come, insolitamente per il mondo antico, sia la terra  ad avere forma sferica e non l’intero universo. La sfericità  dell’universo come elemento ordinatore della sua sostanza era invece comune alle cosmogonie antiche (si veda, ad esempio, la cosmogonia platonica esposta nel Timeo ). Anche nelle cosmogonie comuni alle culture islamiche è costantemente presente l’idea della forma sferica come geometria del mondo ordinato dal Creatore; nel X secolo la creazione viene così descritta: ” Emanata la Sfera Superiore, l’emanazione continua con la produzione di un Intelletto e di una Sfera. Dal Secondo Intelletto se ne produce un Terzo insieme alla Sfera delle Stelle Fisse; dal Terzo Intelletto un Quarto e la Sfera di Saturno; dal Quarto Intelletto un Quinto e la Sfera di Giove ; (…); dal Nono Intelletto un Decimo e la Sfera della Luna.[2]La costruzione ordinata del mondo ha dunque bisogno di un passaggio fondamentale che la completi e concluda, una  geometrizzazione del gesto creativo  che la renda  comprensibile: al primo e fondamentale gesto di organizzazione della materia corrisponde  la forma geometrica di assoluta perfezione, regolare per antonomasia. La creazione come ordinamento della materia operato distinguendone i caratteri è un gesto, dunque, fondamentalmente architettonico, tanto che il creatore di Ovidio è il fabricator mundi, l’architetto del mondo.

Così l’uso dei materiali ha inizio dal riconoscimento del loro carattere,  della suscettibilità dei metalli, ad esempio, ad essere impiegati secondo la loro natura, l’attitudine alla fusione, considerandone l’utilità potenziale che fa ritenere, nei tempi più arcaici, il bronzo materiale nobile per la sua durezza e l’oro materiale prezioso e allo stesso tempo vile per la sua scarsa resistenza.

Con ogni probabilità la prima fase del lavoro dell’uomo nella quale è riscontrabile l’intero ciclo di trasformazione della materia è da riconoscere nell’arte della ceramica, sviluppatasi in diverse fasi :

– l’individuazione dei caratteri della materia (il riconoscimento della plasticitàdell’argilla);

– l’acquisizione delle tecniche di lavorazione della materia divenuta materiale (l’uso della cottura ai raggi solari e, successivamente, l’uso del fuoco) ;

– l’adattamento del materiale ad una forma governata da un ordine riconoscibile (struttura)

– la sintesi estetica operata attraverso il pieno possesso delle tecniche di fabbricazione e l’istanza di espressione artistica.

Non a caso i resti di vasi fittili rappresentano le testimonianze più leggibili che consentono di riconoscere i caratteri delle civiltà arcaiche. Uso del fuoco nella cottura  e ordine geometrico nella  forma dei vasi costituiscono due tappe fondamentali nel processo di addomesticazione della materia. L’uso del fuoco per la cottura delle terre (vasi di terracotta, mattoni cotti ecc.) segna l’inizio del processo di progressivo abbandono da parte  dell’uomo del rapporto di imitazione della natura. Il prodotto della cottura a fuoco non rappresenta  l’utilizzazione di procedimenti esistenti in natura piegati ai fini utilitari come la cottura solare: esso possiede, al contrario, come i più tardi esiti prodotti dalla fusione dei metalli, caratteri artificiali che la natura non avrebbe potuto generare. Caratteri ottenuti inoltre, dato fondamentale, in tempi accelerati rispetto ai processi naturali: ” Se tutto ciò che cambia lentamente si spiega attraverso la vita, – scrive Bachelard –tutto ciò che cambia rapidamente si spiega attraverso il fuoco“. Proprio in questo distacco dell’uomo dalla natura, nella creazione del primo e più semplice degli elementi artificiali della costruzione, il mattone cotto (ed in seguito i prodotti delle “industrie del fuoco”, delle fornaci, delle vetrerie, delle ferriere), può essere riconosciuta l’essenza artificiale dell’architettura.

A noi è utile una classificazione generale dei materiali in funzione dei caratteri che sono stati loro riconosciuti nel rapporto con i diversi tipi di elementi, tipi di strutture di elementi, tipi di sistemi.

Quando l’uomo riconosce nella materia alcune qualità edilizie, infatti, ha già riconosciuto  la sua adattabilità a formare un certo tipo di elementi   e non altri. Il riconoscere nel  magma solidificato di una roccia eruttiva depositatasi per strati la possibilità di ottenere per sfaldamento lastre di  dimensioni pressoché costanti già contiene l’idea del modo di riaggregazione del materiale ottenuto per  stratificazione, stendendolo per sequenze di strati (stratum è participio di sternere, stendere, appunto)  secondo fasce orizzontali parallele.

Le cognizioni necessarie alle scelte vengono gradatamente acquisite ed entrano a far parte della coscienza del costruttore attraverso l’esperienza dell’atto costruttivo, inteso come processo unitario di trasformazione della natura. L’idea di tipo investe quindi l’intero processo edilizio fin dalle scelte e decisioni  iniziali che riguardano l’impiego del materiale, determinate da:

selezione  degli elementi ottenibili soprattutto in base:

– alle dimensioni (ad esempio pietre in grandi blocchi cavati, ciottoli fluviali, lastre ottenute da sfaldamento ecc., oppure tronchi di grandi e medie dimensioni, rami di dimensioni medie e piccole ecc.);

– alle qualità meccaniche (ad esempio, in base alla durezza: rocce tenere come le arenarie, i calcari gessosi, i tufi vulcanici, o rocce dure come marmi e graniti; per il legname legni dolci come il pioppo, l’ontano, la betulla, oppure duri come la quercia, l’olmo, il castagno, il faggio);

– alla durabilità, cioè alla qualità di resistere nel tempo agli agenti esterni;

– alla lavorabilità, carattere legato alla durezza e ad essa opposta. La selezione della materia prima é anche una delle  manifestazioni originarie di volontà cosciente di rapporto stabile col territorio: la vasta diffusione di alcune materie prime nel Neolitico, induce a ritenere, in assenza di commercio, che le diverse comunità di villaggio conoscessero, in un raggio piuttosto vasto, i caratteri dell’ambiente naturale, come la posizione delle cave che venivano raggiunte con viaggi anche di diversi giorni.

specializzazione degli elementi ottenuti (blocchi portanti-chiudenti, ciottoli di riempimento tra le pareti esterne del muro in pietra squadrata, marmi e graniti di rivestimento ecc.; travi ottenute da tronchi squadrati utilizzabili per grandi luci, travetti, arcarecci ecc.).

 

 

 

 

La specializzazione può avvenire non necessariamente attraverso la lavorazione, ma anche semplicemente dal riconoscimento delle attitudini del materiale al momento dell’estrazione, ad esempio sfruttando linee di stratificazione e fessure per ottenere elementi già idonei ad essere aggregati in alcuni tipi di strutture e non in altri. Il reticolo stesso della diaclasi determina spesso il modulo degli elementi impiegati nell’apparecchiatura muraria, nella quale si susseguono, diacronicamente, disposizioni irregolari di elementi poligonali, segmenti spianati e resi regolari nelle facce di contatto, filari di dimensioni regolari.

Il carattere riconosciuto nei mezzi che la natura mette a disposizione è dunque indissolubilmente legato all’esito intermedio (la formazione degli elementi) e finale (il legame degli elementi in strutture).[3] Non è possibile, per questa ragione, studiare il carattere di un edificio prescindendo dalla scelta e dal  modo d’uso dei materiali. Scelta che, come vedremo, condiziona il carattere degli organismi su tempi molto lunghi, permanendo anche nelle fasi di crisi nelle quali, per motivi contingenti (economia, nuove tecniche costruttive ecc.) la materia impiegata verrà sostituita. Le forme di individuazione dei caratteri dei materiali sono infatti elemento determinante nel riconoscimento di aree culturali. E infatti per area culturale si intende una porzione di territorio nella quale è riconoscibile un elevato numero di caratteri comuni nei materiali, negli elementi, nelle strutture degli edifici e dei tessuti edilizi. Tali aree, la cui definizione è evidentemente parziale e finalizzata allo studio che stiamo compiendo, caratterizzate da maggiore o minore persistenza dei caratteri derivati dall’uso del materiale, hanno a volte conservato nel tempo i caratteri specifici  dell’edilizia prodotta, tanto da essere identificabili perfino in una fase di estrema internazionalizzazione dei processi  produttivi come l’attuale.

Naturalmente i caratteri riconosciuti nei materiali e il tipo di elementi che ne deriva sono estremamente articolati, legati non solo alla civiltà che li ha prodotti ma anche, sincreticamente, alle influenze e interazioni tra aree culturali. Possiamo tuttavia  individuare alcuni caratteri di base comuni. Essenzialmente la materia  che l’uomo ha riconosciuto idonea a costituire materiale edilizio può essere divisa in due grandi categorie:

– materiali a carattere elastico

–  materiali a carattere plastico

Si tratta di caratteri tipici, rispetto ai quali si possono operare differenziazioni ulteriori in base al grado di tipicità che si intende utilizzare, ma che, proprio per il loro basso grado di tipicità, costituiscono un riferimento generale per la lettura della grande maggioranza degli organismi costruiti. L’attitudine riconosciuta alla materia vegetale a differenziarsi induce all’impiego di materiali gerarchizzati (l’albero possiede una struttura articolata per forma,  dimensioni  e resistenza che si traduce nella differenziazione gerarchica di pilastri, travi, arcarecci ecc.). Gli elementi prodotti e utilizzati  in prevalenza in aree eleastico-lignee (legno, ferro, acciaio),[4] caratterizzati morfologicamente da una dimensione prevalente sulle altre due (elementi lineari), presentano l’attitudine ad essere discreti e ripetibili in serie. Le strutture composte dall’unione di questi elementi presentano qualità specifiche che possono sinteticamente essere indicate come aventi tendenza seriale, intendendo con questo termine la propensione ad aggregarsi in strutture discontinue, composte di elementi  iterati e intercambiabili, che non perdono la propria funzione e riconoscibilità quando vengano sostituiti alcuni elementi della serie con altri.[5] L’attitudine riconosciuta alla materia lapidea a produrre materiali indifferenziati (le pietre vengono cavate da una massa informe di materia in pratica non gerarchizzata) induce all’impiego del  materiale in forme omogenee. Gli elementi prodotti in aree plastico-murarie (muratura in pietrame o mattoni),[6] caratterizzati morfologicamente da due dimensioni prevalenti sulla terza (elementi piani o a sviluppo curvilineo), presentano l’attitudine ad esserecontinui e individualizzabili in modo univoco all’interno della struttura. Le strutture composte dall’unione di questi elementi presentano qualità specifiche che possono sinteticamente essere indicate come aventi predisposizione organica, indicando con questo termine la propensione di una struttura ad essere omogenea, dove gli elementi sono tra loro in rapporto di necessità tale che la posizione reciproca nell’organismo ne conforma univocamente dimensioni e geometria in modo tale che sostituendo un elemento con un altro la struttura perde la sua funzione e riconoscibilità. Visti nel loro diretto rapporto con il materiale del quale sono costituiti, gli elementi possono essere considerati come individuazioni tipiche del carattere dei materiali.



[1] Una considerazione apparentemente ovvia riguarda la disponibilità del materiale in un’ area: una materia non disponibile non può essere individuata come materiale. La nozione di disponibilità dovrebbe comunque essere approfondita. Essa non riguarda solo la disponibilità fisica, ma anche l’accessibilità, la trasportabilità,  l’economicità dell’impiego, la facilità tecnica delle eventuali lavorazioni che precedono l’uso della materia . A volte l’individuazione collettiva della scelta che sintetizza anche queste componenti si traduce in norma religiosa o legislativa.

[2] Al Farabi, riportato in Fahd Toufic, La naissance du monde selon l’Islam, in  Sources orientales , Paris 1959.

[3] “Per l’architetto costruire – scrive Viollet-le-Duc – è impiegare i materiali in ragione delle loro qualità e della loro propria natura (…) I metodi del costruttore devono dunque variare in ragione della natura dei materiali, dei mezzi di cui dispone, delle necessità che deve soddisfare e della civiltà in seno alla quale nasce.” (Eugène Viollet-le-Duc, voce Construction in Dictionnaire raisonneé de l’architecture française du XI au XVI siècle, Paris 1854-68.)

[4] Si intendono come “elastici” gli elementi composti da  materiali capaci, se deformati,  di tornare alle condizioni iniziali una volta che vengano rimosse le cause della deformazione (cioè di restituire interamente  l’energia spesa nella deformazione).

[5] Mentre nella cattedrale gotica può essere sostituita una campata con un’ altra della serie, in impianti centrali barocchi come S. Ivo alla Sapienza non può essere  sostituito alcun elemento comparabile alla campata gotica, essendo l’organismo costituito da uno spazio unitario. In realtà anche nell’edifico più organico, che esprima in modo esemplare il proprio carattere plastico murario, possono essere individuati elementi ripetuti in serie (anche se limitata), qualora si riguardi l’elemento in scala opportuna (iterazione delle colonne, degli spicchi di volta ecc.). La definizione di organico e seriale è dunque relativa (si veda la definizione  di grado di serialità e grado di organicità impiegata per gli organismi architettonici). Rimane il fatto che i due diversi caratteri generali e le aree di appartenenza sono quasi sempre facilmente individuabili quando si tenga contemporaneamente conto di tutti gli attributi che ne permettono la riconoscibilità.

[6] Il calcestruzzo può essere usato, fatte salve le specificità meccaniche, sia con carattere elastico-ligneo (sistemi di elementi lineari  in cemento armato) sia  con carattere plastico-murario (setti portanti, volte ecc.).

FRANCO PURINI – Natura e artificio in architettura


di Franco Purini

Costruire vuol dire, infatti,
dare ordinamento e norma
alla materia, nei rapporti prestabiliti dello spazio e
secondo gli archetipi universali
delle idee eterne.

Salvatore Vitale

In architettura, ma la stessa cosa si potrebbe dire per la scultura e la pittura, il legame tra materia e materiale è fondamentale. L’architettura non è costruita direttamente dalle materie, ma da queste solo quando, attraverso un complesso lavoro, esse sono state trasformate in materiali. Tale passaggio non è meccanico, né puramente tecnico. Esso si riveste infatti di significati profondi, di contenuti non presenti nelle materie originali, nel momento stesso in cui produce una serie di valori nuovi, metrici e spaziali, che vanno rinterpretati con attenzione e sensibilità. In ogni modo, prima di continuare questa riflessione, è necessario proporre una idea di edificio che contempli, in modo concettualmente congruente, la presenza dei materiali. Nell’ambito di queste note si suggerirà la seguente nozione: un edificio è una società di materiali sui quali è stato fatto un certo lavoro per metterli a contatto stabilmente e durevolmente, al fine di costruire un oggetto architettonico definito, quasi sempre dotato di un interno, un oggetto architettonico che si situa in un punto preciso dello spazio contrapponendosi, per così dire, allo spazio circostante. Data questa definizione occorre argomentarla, seppure brevemente. Essa contiene un concetto importante, quello di società. Un manufatto non è un semplice insieme di parti o un sistema di elementi. Le nozioni di insieme e di sistema, pur essendo corrette, non danno infatti conto fino in fondo della natura nello stesso tempo e solidale e conflittuale dell’edificio, né restituiscono, pur essendo corrette, la grande varietà dei suoi componenti. Solo paragonando un edificio alla società umana è possibile cogliere il nesso che lega le componenti stesse all’unità. La società umana ha una funzionalità, una gerarchia, una finalità, una struttura, un significato che trascende ogni sua singola parte, un codice rappresentativo, una dimensione narrativa. Tutti questi caratteri sono presenti anche in un edificio, nel quale i molti materiali che lo compongono vivono, come peraltro la società umana, una condizione di conflittualità che deve trasformarsi in solidarietà. I suoi materiali costruttivi che sono numerosi, devono adattarsi l’uno all’altro stabilmente e durevolmente per dar luogo a quella specificazione della ratio vitruviana che è la firmitas. Tuttavia questa stabilità è durevole, ma non eterna. Così come le parti di un edificio sono state pensate e predisposte per collaborare, contemporaneamente esse sono soggette a forze che tendono a disgregare la compagine tettonica, separandone gli elementi. Elementi i quali, a loro volta, sono sottoposti a un degrado fisico inevitabile, che porta spesso alla loro sostituzione. Per questo la società di materiali nella quale un edificio si riconosce è destinata, come ha scritto Georg Simmel, a un disfacimento totale, per il quale i materiali guadagnano, alla fine, una condizione di riposo. Probabilmente nella visione del filosofo e sociologo tedesco, una concezione che assegna ai materiali un tempo limitato c’è il ricordo preciso della definizione di architettura che è stata data da Arthur Schopenauer, il quale sosteneva che l’architettura è espressione della dialettica tra carico e sostegno. In altre parole essa va considerata come la forma del contrasto tra forze opposte che cercano un equilibrio stabile ma temporaneo.

Affermare che l’edificio è una società di materiali sostituisce anche un’altra sua storica definizione, quella che lo identifica come un organismo. Questa nozione, a lungo centrale, incorpora notoriamente una metafora antropomorfa per la quale l’edificio stesso è l’analogo del corpo umano. Questa corrispondenza, che implica l’assunzione del modello del corpo stesso come rappresentazione del divino nell’umano, non appare più in grado di corrispondere alla realtà dell’architettura. Prima la rivoluzione industriale, che ha irreversibilmente sostituito al modello organico quello meccanico, poi la rivoluzione digitale, che ha imposto l’ossimoro concettuale del corpo immateriale, hanno definitivamente sottratto all’idea di organismo architettonico la sua legittimità. All’unità dell’organismo è succeduta, così, sia una sua articolazione processuale, sia una genetica incompletezza o, se si vuole, una continua apertura. Il corpo architettonico è divenuto così l’esito, sempre in progress, dei processi di formalizzazione, piuttosto che un oggetto definito una volta per tutte.

Sui materiali di cui è composto un edificio è stato fatto, come si diceva nella definizione proposta, un lavoro per metterli a contatto stabilmente. Ciò significa che in architettura non è sufficiente predisporre i materiali nella loro autonomia, che per quanto detto finora non può esistere, ma occorre che essi siano in grado di accogliere gli altri in un gioco di connessioni e di congiunzioni. Nello stesso tempo, come avviene con il mattone, i materiali devono essere il più possibile maneggevoli. Il mattone è, infatti, dimensionato sulla mano, ma tutte le misure sono in realtà dedotte dal corpo umano. Il palmo, il piede, il braccio svelano la diretta discendenza delle misure da quelle del corpo di chi abita e costruisce l’architettura. Si è detto che l’edificio è una società di materiali. Tale società è governata da una sua logica, ma tale logica non è lineare né meccanica. Si tratta di una coerenza che non può essere solo deduttiva, ne può risultare dall’applicazione rigorosa di principi. Nell’architettura esistono procedimenti – si pensi al tempio greco – che sono logici solo nell’ambito di una sfera costruttiva, percettiva, semantica e simbolica. Ciò che si vuole qui di nuovo sottolineare, è che la logica dell’edificio come società è una logica conflittuale che deve mediare tra esigenze diverse, non riconducibili facilmente, o forse mai, all’unità. Per questo motivo un edificio è sempre intermedio tra il suo essere qualcosa che tende all’unitario e al contempo un’entità che non può che configurarsi come composita. Proprio come la società umana. Nel passaggio dalle materie ai materiali alcune qualità delle prime si mantengono. Altre invece si modificano, fin quasi a renderle irriconoscibili. Tra un profilato di acciaio e il ferro in natura, che si presenta come un sasso o come una striatura rossastra in una roccia,  non c’è una relazione diretta. Tra un blocco di travertino e una lastra della stessa materia, lucidata, c’è una differenza notevole. Alcune materie invece, riescono, trasmettere quasi integralmente il proprio senso originario. Il legno ad esempio. Le venature trapassano, per così dire, dal tronco alla tavola levigata. Per contro è possibile, invece, un altro tipo di passaggio diretto tra materie e materiali, quello delle misure. Esiste una relazione profonda e per certi versi misteriosa, tra una materia naturale, e le misure dei materiali che da essa dipendono. Se voglio impiegare in una architettura una lastra di travertino di 220×120 cm devo dare ad essa uno spessore legato alle sue due misure da un rapporto preciso. Se voglio utilizzare un profilato a doppio T alto 2,00 m l’anima e le ali devono avere certe grandezze e determinati spessori. In sintesi ogni materia propone un proprio arco metrico, una declinazione di misure che va intesa nel suo senso più implicito. Costruire un edificio significa comporre una sorta di sinfonia metrica che è fatta di blocchi numerici, inverati in materiali che si accostano e a volte si attraversano l’un l’altro in un movimento virtuale di grandezze e di quantità. Quantità spesso invisibili – si pensi allo spessore di un pannello di rivestimento, che non è leggibile mai dall’esterno – ma che è possibile intuire decifrando le dimensioni delle parti.

E’possibile a questo punto introdurre una breve riflessione sui valori visivo-tattili dei materiali. Per valori visivo-tattili si intendono quelle impressioni visive che derivano dall’aver avuto un esperienza tattile dei materiali. Tali valori sono la scabrezza, la levigatezza, la sensazione del caldo e del freddo, la granulosità o il carattere liscio, astratto o venato delle superfici. Tra questi valori visivo-tattili, uno molto importante, è quello della profondità virtuale. Quando guardiamo una serie di materiali alcuni ci appaiono visivamente penetrabili, come certi marmi che sembrano stratificati, altri, invece, non consentono allo sguardo di attraversarli, neanche per uno spessore minimo. Una lamiera verniciata è impenetrabile; una lastra di Onice d’Egitto – come quella che Ludwig Mies van der Rohe ha collocato nel soggiorno della Casa Tugendhat a Brno – guida invece la vista dentro le sue venature, così come fa il legno, che è come composto di più livelli. Se disponessimo lungo una parete tanti pannelli dello stesso spessore, fatti di materiali diversi, potremmo virtualmente disegnare una sezione in cui ciascun pannello ha una sua profondità corrispondente a quanto si può entrare virtualmente dentro di esso. Tra i valori visivo tattili c’e’ anche da ricordare la strutturazione delle superfici, ovvero il disegno di pavimenti, pareti, involucri, soffitti, rivestimenti. Un mosaico è bello non solo per lo splendore della sua configurazione generale e per il nitido cromatismo delle sue singole tessere, ma anche per la fitta tessitura della sua superficie. Allo stesso modo un pavimento si apprezza non solo per le qualità del suo materiale ma anche per quella del disegno con il quale le sue parti sono messe assieme. Griglie e tessiture la cui origine si deve al fatto che in una costruzione, a parte l’involucro, i movimenti che le coinvolgono obbligano a dividere in sezioni i materiali che si utilizzano. Pavimenti, soffitti e pareti si configurano, così, come cretti assumendo la mobilità dell’elemento più piccolo, che può quindi assecondare il respiro del manufatto senza che esso subisca fratturazioni.

Costruire un edificio è quindi come è stato già detto, comporre una sorta di sinfonia metrica ma anche combinare una serie di profondità ottiche, nonché di sensazioni legate alla consistenza fisica dei materiali. Si pensi ad esempio all’architettura di Carlo Scarpa, che sapeva alternare la scabrezza del cemento armato a faccia vista alla levigatezza del marmo, alla chiarezza geometrica di un profilato di acciaio, a una cerniera in ottone, alla proprietà riflettente di un mosaico al dispiegarsi morbido delle superfici lignee, imbevute di luce. L’architetto veneziano ha saputo coniugare i vari aspetti dei materiali di cui si è parlato, in composizioni estremamente sapienti, in cui ciascun passaggio materico riverbera in modo poetico le sue potenzialità. Tra i valori visivo tattili occorre inoltre ricordare la luminosità e il peso. La luminosità è quell’attitudine del materiale a trattenere e a rinviare la luce che riceve. L’acciaio, se non è inossidabile, ma verniciato, è un materiale opaco, mentre una lastra di marmo lucidato puo’ divenire splendente. Un caso a parte è il vetro, che può essere trattato sia in modo da raccogliere la luce sia da farsene attraversare. Anche il peso è un elemento che entra nell’ambito dei contenuti architettonici espressi dai materiali. Lo sguardo è in grado di stabilire la densità dei materiali, immaginando spessori che sono invisibili, mediante il solo prendere atto della dimensioni dei singoli elementi.

Può essere utile a questo punto riepilogare quanto esposto finora. E’ stata proposta all’inizio la definizione di edificio come società di materiali. Successivamente è stato messo in evidenza come questa società sia governata da una logica non lineare né meccanica, ma intrinsecamente conflittuale. Subito dopo sono state affrontate alcune operazioni riguardanti il passaggio dalle materie ai materiali, introducendo infine i valori visivo-tattili. C’è infine un ulteriore argomento. In architettura esistono edifici fatti di un solo materiale, o quasi esclusivamente, e manufatti realizzati con più materiali. Le piramidi egizie, i templi greci, i templi cinesi, coreani e giapponesi, le case di legno americane, le isbe russe, le iurte delle steppe mongole sono costruzioni monomateriche. Il Partenone è una sorta di idealizzazione della materia unica come sogno di una totalità di concezione e di esecuzione sintetizzata in un principio al contempo costruttivo, plastico e spaziale. La stessa cosa si può dire per le piramidi, che anzi, con l’essenzialità delle loro forma, esaltano la volontà di far corrispondere idea e sostanza. Questa volontà sovrintende e ispira anche le architetture stereometriche. In queste non solo l’architettura è di pietra ma il disegno di ciascun elemento incorpora la legge costitutiva del tutto. Non esiste più una gerarchia tra le varie parti della compagine tettonica, ma ognuna di esse è carica dei significati dell’intero manufatto.  Nella mostra “Città di Pietra”, curata da Claudio D’Amato nell’ambito della XI Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia 2006, Claudio D’Amato ha dimostrato come il principio stereometrico, insito nel materiale lapideo, possa infondere la propria determinazione formale nell’intero edificio, plasmandone anche il più piccolo elemento. Entrando anche nello spessore del muro la legge stereometrica fa sì che l’ordine prospettico non si limiti a modellare l’edificio nei suoi esterni e nelle sue cavità interne, ma sia capace di penetrare anche nelle mosse murarie, disgregandone le singole componenti. A differenza di quelli in pietra, negli edifici costruiti con più materiali – pietra, legno, ferro, plastica, vetro – ciò che si fa contenuto architettonico primario è invece il modo attraverso il quale la molteplicità ritrova una coerenza nel complesso tettonico-architettonico. Nel primo caso la metafora dell’edificio come società si da in una forma assoluta, come un teorema perfetto, nel secondo caso l’edificio assume un tono più narrativo, proponendosi come l’intreccio di temi costruttivi, spaziali, decorativi.

Oltre a essere considerato come una società di materiali, un edificio si presta ad essere interpretato come un rapporto tra fibre. In effetti un manufatto non è altro che un certo numero di tessuti messi in reciproca relazione. Travi e pilastri sono un tessuto che al loro interno contiene un ulteriore tessuto fatto di tondini di ferro; un solaio anche è un tessuto; lo è anche un muro di tamponamento, un rivestimento o una copertura metallica. Ognuno di questi tessuti è composto di materiali uguali o diversi. In questa essenza c’è forse la radice dell’idea semperiana di architettura, un’idea che influenzerà anche Robert Venturi che ne darà un’interpretazione fortemente personale. Gli edifici possono essere classificati, dal punto di vista tettonico, come continui o puntiformi. Si ha un edificio continuo nel caso delle strutture murarie, che si risolvono in mosse compatte, dal carattere sostanzialmente plastico; si ha invece un edificio puntiforme quando la struttura si concentra in una serie di pilastri collegati da travi e dei solai. Le costruzioni in cemento armato appartengono al secondo tipo. Saverio Muratori sosteneva che il modo puntiforme apparteneva alla cultura costruttiva nord europea, laddove quello continuo sarebbe stato l’espressione del mondo mediterraneo.

A proposito del rapporto tra arte, tecnica e natura San Tommaso ha scritto che, se è vero che una nave è fatta di legno, non è detto che il legno generi in sé la nave. Occorre un salto creativo che sappia misurare la distanza tra materia, materiale e intenzione. C’è bisogno di  risalire dall’edificio alla natura per cogliere quell’essenza intransitiva che è contenuta nella natura stessa e che l’architettura utilizza, ma senza riuscire, comunque, a renderla strumentale fino in fondo. Per contro Carlo Marx, nel celebre apologo su l’ape e l’architetto, ricorda che la sapienza dell’ape, che sa costruire celle in cera con una geometria perfetta, non è confrontabile con quella dell’architetto. Nella mente dell’ape non c’è un progetto, solo un istinto biologico, in quella dell’architetto c’è l’idea di ciò che egli vuole realizzare. E’ proprio la presenza di questa intenzione che rivela quanto di creativo, e conseguentemente di indicibile, c’è nel passaggio dalla natura all’artificio, un passaggio reso possibile da una fondamentale metamorfosi, quella che consente di trasformare la materia, mai inerte, ma già portatore di valori metrici e di virtualità formali, in materiali costruttivi.

Franco Purini
Bari 12.10.2007