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GLI ORDIGNI DI TOYO ITO

 

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 20.10.2005

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Al culmine del successo, indifferente a qualsiasi promozione professionale, l’architetto giapponese Toyo Ito è anche un personaggio profondamente, candidamente onesto. Ha rilasciato venerdì scorso, al MAXXI, dichiarazioni che dimostrano come, da artista, veda il mondo dall’estremità di un ramo sospeso sulle luci della città di cui raccoglie gli umori più riposti, sotterranei: non servirebbe spiegargli, quando dichiara che non tutto il centro di Roma è bello, che la bellezza di Roma è fatta anche di edifici brutti.

Eppure il suo contributo al dibattito sulla trasformazione del nostro centro storico è importante.

Prima di tutto per la sua opera straordinaria. “La mia Torre dei Venti – dice Toyo Ito– era stata costruita come struttura per la ventilazione di un centro commerciale sepolto nel sottosuolo. Ho nascosto quello scatolone di calcestruzzo in un cilindro di pannelli forati di alluminio. La Torre perde così la sua presenza fisica dopo il tramonto e si trasforma in un fenomeno di luce”.

Costruita in un caotico nodo urbano al centro di Yokohama, la Torre è il suo capolavoro immateriale, una “non costruzione” che evapora, si trasforma, danza con le luci regolate da un computer, allude ad un mondo dove l’immagine percepita dalla retina sostituisce la realtà fisica delle cose.

Ito canta lo stupore e la poesia del virtuale, è il futurista del nuovo millennio.

Ma la Torre, cancellando un mostro urbano alto 21 metri, è anche un piccolo monumento civile, la geniale soluzione, adatta al luogo, di un problema reale. È necessaria. Ed è il prodotto, occorre notare, di una committenza illuminata che ha individuato il problema e intuito la soluzione.

Per mesi architetti famosi, di passaggio in questa città, ci hanno esposto le virtù taumaturgiche dei loro progetti per svecchiare il nostro “polveroso” centro storico.

Ito, artista estremo e raffinato architetto della provocazione, ha invece fatto un’affermazione che dovrebbe far riflettere gli acritici entusiasti dell’architettura globalizzata: «Io traccio certe forme, il mio lavoro è conosciuto. Se mi dovessero chiamare e premiare in un concorso i committenti saprebbero cosa farei nel contesto romano». Come dire, le scelte sulla trasformazione della città sono vostre. Io vendo ordigni dirompenti. Sta a voi sapere cosa farne.

Il candore delle dichiarazioni di Ito riporta il problema nei suoi termini reali, che non è quello di cercare l’impossibile alibi di autorità super partes, ma di decidere la forma della città futura assumendosene la piena responsabilità: se decenni di battaglie condotte dalla sinistra italiana in difesa della cultura dei centri storici e del loro coerente rinnovamento possano essere svendute a favore di un’imitazione provinciale della City londinese o di città cinesi in vorticosa trasformazione.