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EDILIZIA DI BASE E TESSUTI

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Rilievo dei piani terra nell’area di piazza di Palazzo Altieri a Roma

1. EDILIZIA DI BASE

prof. Giuseppe Strappa

Nell’ambito della lettura della realtà costruita, la nozione di tessuto è tra le più complesse. Essa esprime la solidarietà tra percorso e unità abitative che si aggregano a formare organismi di grado superiore. Il tipo di unità abitativa che è all’origine della gran parte dei processi formativi dei tessuti delle città italiane sviluppatisi a partire dal XIII-XIV secolo è soprattutto la casa a schiera, declinata in diverse varianti areali in tutta la penisola, dai tipi veneti che traducono in muratura organismi edilizi originati da matrici lignee, agli esempi segnatamente plastici dell’Italia cento-meridionale. Questo tipo di abitazione, che esprime la predisposizione dell’organismo edilizio singolo alla solidarietà urbana e all’aggregazione, e quindi alla formazione delle strutture fisiche della civiltà urbana, risulta notevolmente costante, e con costanza individuabile nel processo delle sue trasformazioni, all’interno delle diverse aree culturali, sia nel tipo bicellulare che (cui si farà soprattutto riferimento nel seguito), che in quello monocellulare derivato dal consumo della casa a corte (pseudoschiera). L’edilizia a schiera del XIII-XIV si struttura su una forma organica di utilizzazione del suolo che ha caratteri riconoscibili: la costruzione avviene occupando un lotto di terreno rettangolare affacciante su percorso nel lato corto, dove la forma rettangolare del lotto risponde a criteri economici. La parte più pregiata del terreno è infatti la parte che affaccia su strada, quella sulla quale saranno rivolti gli ingressi, le botteghe, le facciate delle case. Il frazionamento del terreno deve quindi mettere a profitto il fronte stradale, secondo norme e convenzioni che traducono esigenze spontaneamente radicate e, nel tempo, divenute norma. La ripartizione del terreno che ne deriva produce lotti di spessore pressoché costante e di profondità variabile.
Lo spessore costante dei lotti e, quindi, delle abitazioni, si spiega con la forza delle consuetudini, le quali corrispondono alle necessità unitariamente costruttive, economiche e distributive della casa. In altri termini è già in qualche modo previsto, nella mente di chi fraziona il terreno, uno stretto vincolo che lega insieme utilizzo del suolo, tipo abitativo e tipo di aggregazione (tessuto) che verrà individuato attraverso l’atto costruttivo: si possiede in modo quasi inconscio la cognizione dell’esito edilizio possibile. Il rapporto tra organismo urbano che deriverà da questo frazionamento, e tipo edilizio adottato in società in equilibrio è intimamente legato da regole imposte dall’uso e spontaneamente accettate.
Nella costruzione una parte del terreno verrà utilizzata per l’abitazione mentre un’area di pertinenza verrà lasciata libera ed inizialmente utilizzata ad orto. Lo spessore, la profondità del costruito, può variare entro limiti ristretti, perché le necessità e le capacità dell’abitante sono simili per tutte le costruzioni. Lo spessore del lotto, e quindi quello dell’abitazione che per motivi economici sfrutterà per intero il lato che affaccia sul percorso, dopo una fase iniziale in cui tra le diverse abitazioni viene lasciato uno spazio minimo per il deflusso delle acque (ambitus), coincide con lo spessore dell’unità costruita, dando origine alla “casa a schiera”. Esso coincide, anche, con le misure necessarie alla distribuzione delle funzioni: vani utilizzabili (spesso, nei tipi maturi, due per piano, dei quali uno con fronte su strada e l’altro sull’area di pertinenza); scale per il piano superiore (come le attività economiche verrano distribuite dove lo spazio è più prezioso, all’interno, dove lo spazio è meno prezioso, viene collocata la scala, elemento puramente distributivo); accesso dalla strada ai vani dell’abitazione ed all’area di pertinenza, attraverso un percorso interno che si può collocare indifferentemente su l’uno o l’altro dei lati della casa, spesso in corrispondenza di un’apertura specializzata nella parete su percorso. Si potrebbe teoricamente ritenere, solo in prima approssimazione, che la serie delle unità di schiera possa continuare all’infinito: si tratta di una struttura, come si è detto, seriale, e non esistendo un rapporto di necessità tra ognuna delle unità, se non l’adiacenza di due pareti murarie, al variare del loro numero nulla cambia nel carattere della struttura e del tipo edilizio. Le abitazioni vengono distribuite specializzando nel tempo (operando cioè mutazioni diacroniche del tipo matrice attraverso un progressivo adattamento alle trasformazioni delle necessità degli abitanti) al loro interno i vani, cominciando col massimizzare l’utilizzazione economica del piano terreno, e destinando il vano su strada a bottega: la società è ancora tendenzialmente omogenea e tutte le attività si svolgono nello stesso luogo (la città non ha ancora specializzato le proprie parti in produttive, commerciali ed abitative). Abitazione, produzione e commercio si svolgono unitariamente all’interno della stessa costruzione e molto spesso la bottega è, allo stesso tempo, luogo di produzione e di scambio.
L’ aggregazione degli elementi edilizi in strutture orizzontali e verticali concorre unitariamente alla definizione del tipo. La dimensione della luce della trave che dovrà coprire la campata libera tra muri ortogonali al percorso è pressoché costante, stabilita da consuetudini edilizie che rispecchiano, allo stesso tempo:

le necessità geometriche del vano abitabile ereditate da antecedenti elementari;
le capacità tecniche del costruttore relative all’area culturale di pertinenza;

le specifiche forme di individuazione di materiali nelle materie disponibili nel luogo. Dunque lo spessore del lotto necessario alla distribuzione coincide con la dimensione utile alla costruzione e varia nel tempo e nei diversi luoghi aggirandosi però sempre intorno ai 4/6 metri. Le murature che vengono costruite hanno una dimensione derivata dalla tradizione costruttiva, che è parte integrante del processo di formazione del tipo. Dovendo le murature sopportare un carico maggiore al piano terreno che a quello  superiore, il loro spessore risulta spesso variabile da un piano all’altro in funzione delle diverse sollecitazioni, dipendendo anch’esso dalle tecniche edilizie invalse in quell’area e in quel determinato arco temporale, e dai materiali disponibili. Una muratura in pietra fragile avrà uno spessore maggiore di una muratura di materiale resistente (in calcare compatto, ad esempio, o mattoni): il costruttore ha una cognizione spontanea del variare delle sollecitazioni, acquisita attraverso l’esperienza e la tradizione . Sa anche che, secondo una tecnica affinata attraverso miglioramenti successivi, l’occasione di diminuire lo spessore della muratura in corrispondenza del solaio (punto singolare che coincide, come vedremo, con uno dei nodi della costruzione), dove variano i carichi, costituisce un utile appoggio per le travi che reggono l’impalcato del solaio. Altre volte, quando la muratura è a sezione costante nei diversi piani, vengono messe in opera mensole sostenenti le travi perimetrali sulle quali disporre l’impalcato. Ma in genere la casa a schiera risulta riferibile a caratteri fortemente specifici del tipo, pur nella estrema diversificazione delle individuazioni areali, come risultato di condizioni di equilibrio “necessarie” tra componenti diverse.

 

Col termine edilizia di base si intende la parte di costruito destinata all’abitazione. L’abitazione è infatti la prima e fondamentale forma di spazio edificato della quale, nel tempo, l’uomo conserva la nozione più spontanea. L’edilizia di base si sviluppa a partire dal primo spazio aggregabile prodotto, la cellula elementare a base quadrangolare di 5-6 metri di lato, consolidatasi nell’uso. L’abitazione originaria costruita (non quindi “incontrata” come poteva accadere per il rifugio) è costituita da un vano nel quale è possibile svolgere per intero e contemporaneamente le funzioni legate alla vita domestica. Queste dimensioni entrano a far parte, nelle aree culturali più diverse e distanti, della coscienza spontanea del costruttore e sono, nel tempo, riscontrabili anche nelle misure del vano-base ricorrente in forme abitative o specialistiche più complesse, ottenute per moltiplicazione della cellula elementare. Le ragioni delle dimensioni della cellula elementare sono antropologiche, perché l’uomo non riesce a vivere in una dimensione minore, se non in ripari e rifugi nei quali non sono possibili che forme embrionali di vita domestica, ma anche tecnico-costruttive, legate all’uso di materiali che si adattano, pur non determinandole meccanicamente, alle dimensioni tipiche, alla statica delle pareti murarie che chiudono lo spazio abitato, delle travi che debbono coprirne la luce. Che le tecniche edilizie siano state finalizzate allo spazio della cellula elementare e non viceversa è dimostrato dalla costanza delle dimensioni in aree di diversissima cultura materiale: da quelle lignee a quelle murarie fino alle aree nelle quali l’abitazione è stata scavata nella roccia, dove (si veda il caso delle abitazioni trogloditiche di di Peschici e Monte Sant’Angelo in Puglia, e quelle, notissime, di Matera in Basilicata) le dimensioni non variano per volumi interamente scavati, parzialmente scavati, totalmente esterni. L’edilizia di base si articola, nei suoi termini logico-processuali, nell’aggregazione di cellule elementari costituenti:
abitazione unifamiliare isolata, distribuita direttamente su percorso attraverso accesso indipendente, utilizzata da un solo nucleo familiare e costituita da sistemi (statico costruttivo, distributivo, leggibilità) autosufficienti e indipendenti a partire dalle fondazioni fino alla copertura. La casa unifamiliare isolata non è aggregabile.
abitazione unifamiliare aggregata, distribuita direttamente su percorso attraverso accesso indipendente, utilizzata da un solo nucleo familiare, ma con sistema statico-costruttivo non indipendente, avente elementi o strutture di elementi in comune con le abitazioni adiacenti in modo tale da concorrere, per aggregazione, a formare organismi a scala maggiore, la cui unità aggregativa è l’alloggio su uno o più piani costituito, in genere, da abitazioni a schiera;
abitazione plurifamiliare in linea, processualmente derivata dalla rifusione di abitazioni unifamiliari aggregate e utilizzata da due o più nuclei familiari che si servono di comuni sistemi di distribuzione (scale, ballatoi, ascensori ecc.), oltre che comuni sistemi statico-costruttivi, e quindi con alloggi non indipendenti rispetto all’accesso dal percorso. La casa in linea è costituita da uno o più corpiscala aggregati linearmente che costituiscono un unico edificio seriale. Si definisce “corposcala” la struttura costituita dal vano scala e dagli alloggi che da esso sono distribuiti. L’unità aggregativa interna è l’alloggio costituito dall’appartamento su un piano.
abitazione plurifamiliare isolata, processualmente derivata dall’abitazione in linea, utilizzata da due o più nuclei familiari che si servono di un comune sistema di distribuzione (scale, ballatoi, ascensori ecc.) e quindi con alloggi non indipendenti. L’abitazione plurifamiliare isolata è costituita da un solo corposcala e non è aggregabile. L’unità aggregativa interna è l’alloggio costituito dall’appartamento su un piano.

2. TESSUTO COME FORMA TIPICA DI AGGREGAZIONE

Da quanto accennato deriva come sia inevitabile il rapporto di congruenza che deve necessariamente instaurarsi tra tipo di abitazione e forme di aggregazione delle abitazioni stesse, e come un ruolo fondamentale sia svolto, in questo senso, dalla presenza dei percorsi che distribuiscono e orientano le unità abitative, determinandone, anche, le varianti tipologiche.
Nelle aree dove l’uso del suolo è più intenso e la progressiva pressione demografica induce ad uno sfruttamento intensivo della superficie del terreno, il tipo abitativo, sempre basato sulla cellula elementare, si deve adeguare alle necessità di relazione diretta tra le singole unità.

Case a schiera in via Santa Maria del Pianto a Roma

L’associazione di singole unità abitative tra loro a formare unità di scala superiore si sviluppa secondo leggi proprie, variabili nello spazio e nel tempo, tanto che si può parlare di tessuti intesi come tipi di aggregazione. Risulta chiaro che possiamo parlare soprattutto di tessuti, per quanto riguarda l’edilizia abitativa, costituiti da tipi congruenti con la nozione di aggregabilità: la casa a schiera è un organismo edilizio aperto che ha bisogno, per essere completato, dell’inserimento nell’ aggregato urbano, mentre possiamo parlare meno frequentemente di tessuti per l’edilizia specialistica, i cui tipi hanno una loro compiutezza (caso estremo i tipi polari, ad impianto centrale) e quindi una minore disponibilità all’aggregazione.

Alla formazione del tipo di aggregazione concorrono le forme di perimetrazione e utilizzazione del territorio, relazionate unitariamente ai tipi edilizi vigenti ed ai materiali impiegati.
Il processo di mutazione dall’unità all’aggregazione, non costituisce uno svolgimento lineare di tipo evoluzionista, ma l’intersezione di conquiste, ritorni, riprese di sviluppo: la casa pluricellulare nasce qualitativamente, essa stessa, come aggregazione di cellule elementari organizzate in base alla coscienza del tipo, non come semplice successione cronologica di addizioni (successione riscontrabile solo in intorni temporali ristretti) come dimostrano le abitazioni delle civiltà preurbane, spesso costituite dalla fusione di elementi unicellulari perfettamente individuabili anche nelle strutture complesse.
La prima e più semplice forma di aggregazione, successiva alla disposizione di unità edilizie autonome su percorso, è costituita dall’unione a schiera di unità abitative a struttura non indipendente, con porzioni dell’involucro esterno (spesso le due pareti murarie ortogonali all’affaccio su strada) in comune con le unità adiacenti. La nuova scala edilizia che ne deriva (quella dell’aggregato edilizio) è relativa ad un organismo (organismo aggregativo) di scala superiore all’abitazione elementare, che può essere ora riguardata come semplice elemento di schiera, di passo unicellulare.
La scala dell’aggregato costituisce il momento di passaggio tra edificio e città. Da questa considerazione deriva una possibile schematizzazione generale delle diverse scale di formazione degli organismi che costituiscono il territorio antropizzato:

organismo edilizio;
organismo aggregativo;
organismo urbano;
organismo territoriale.

La forma di costruzione preaggregativa precedente la formazione della schiera è costituita dalla ripetizione delle unità edilizie lungo il percorso, separate da un ridottissimo distacco, ambitus, necessario al deflusso delle acque dalle coperture, organizzate con le linee di displuvio parallele al percorso ed i colmi ad esso ortogonali. Sebbene in alcune aree le falde conservino a lungo, anche dopo la formazione della serie, la disposizione delle unità isolate, presto la linea di colmo si dispone parallelamente al percorso (soprattutto in aree plastico-murarie) legando le singole unità in rapporto di maggiore organicità.

 

Le forme più elementari di schiera ripetono le abitazioni monocellulari adiacenti una all’altra attraverso un muro comune ortogonale al percorso di affaccio.
In Puglia e in Basilicata esistono esemplari forme aggregative originate da tipi elementari: a Matera i lamioni sono costituiti da vani monocellulari, non sempre regolari, con copertura a botte ortogonale al percorso, che formano l’aggregato semplicemente per ripetizione, iniziando a costituire un embrione di organismo urbano; la fase definibile “successiva” per via logica è il tipo a due piani, che in sezione presenta vani indipendenti distribuiti su ambedue i percorsi a livello superiore e inferiore.
Esempio analogo, ma di progressiva complessità, è costituito dalle case ad alloggi sovrapposti, servite da scale indipendenti che collegano lo spazio esterno all’alloggio senza mediazioni (dato che consente di parlare ancora di abitazioni unifamiliari), come è riscontrabile in diverse aree europee, dagli esempi embrionali di aggregati abitativi direttamente uniti al percorso di Procida, ai tipi olandesi tradizionali utilizzati anche dall’edilizia moderna e contemporanea. Normalmente il raddoppio della cellula elementare, nell’ambito della stessa unità edilizia avviene in profondità, ad occupare la parte di area di pertinenza immediatamente adiacente alla cellula su percorso, e in verticale, mantenendo sempre, comunque, la dimensione monocellulare dell’affaccio su strada, che costituirà la dimensione base leggibile nella formazione del tessuto della città anche in fasi di rifusioni e plurifamiliarizzazioni. Con la formazione del piano superiore, parallelamente a quanto avviene per la casa unifamiliare, le cellule si specializzano a formare lo spazio per la bottega e quello superiore per l’abitazione propriamente detta. Il piano superiore, inizialmente servito da scala esterna (profferlo) viene raggiunto nei tipi successivi da scala interna servita da un’apertura specializzata e distinta da quella della bottega, rendendo leggibile all’esterno la specializzazione interna.

Lo sviluppo della casa a schiera avviene dunque per raddoppi di cellule, con progressiva specializzazione dei vani : al piano terra, oltre la bottega (o atrio), il vano scala, il passaggio all’area di pertinenza, il magazzino, e al piano superiore l’abitazione propriamente detta, che aumenta il grado di specializzazione con la progressiva moltiplicazione verticale delle cellule e la distinzione della zona giorno dalla zona notte. La posizione della scala varia in funzione della specializzazione del piano terreno:
– nella casa a bottega la scala si dispone in genere ortogonalmente alla strada, in diretta corrispondenza dell’ingresso, in modo da separare nettamente i vani specializzati dai vani abitativi attraverso il muro che si rende necessario per sostenere le travi di solaio tessute parallelamente alla strada;
– nella casa ad atrio, ad uso completamente abitativo, la scala si dispone di preferenza parallelamente alla strada, nel fondo del vano, con le prime alzate sul lato opposto all’ingresso, in modo da avere altezza sufficiente da permettere il passaggio diretto dall’accesso al vano posteriore ed all’area di pertinenza.
Naturalmente, oltre a queste soluzioni tipiche e generalizzate, esistono molte altre possibili dislocazioni della scala dovute a componenti areali o alla presenza di tipi-sostrato, come nel caso della scala esterna che occupa l’area di pertinenza nelle “corti-schiera” fiorentine originate dal consumo della domus.
La leggibilità è, nelle fasi spontanee di formazione delle unità di schiera, direttamente dettata dalla dimensione e posizione delle aperture, con la specializzazione indicata spesso all’esterno dalla porta con bancale per esposizione delle botteghe al piano terreno, e apertura di minori dimensioni per l’accesso alle scale ed all’area di pertinenza, e inoltre dall’uso di marcapiani e marcadavanzali e, in generale, dai nodi tettonici che indicano il diverso carattere (elastico-ligneo o plastico-murario) dei tipi pertinenti ad aree diverse.

3. GERARCHIZZAZIONE DEI PERCORSI

Da quanto esposto risulta chiaro come l’ambiente costruito possa essere solo strumentalmente ed in prima approssimazione studiato per parti: come gli edifici non possano essere considerati autonomamente, ma concorrano alla formazione di unità a scala maggiore che ne condizionano i caratteri. I concetti che abbiamo espresso per i tipi edilizi sono in qualche modo estendibili anche ai tessuti urbani: si intende per tessuto la somma dei caratteri, processualmente determinati, che contraddistinguono la formazione di un aggregato edilizio. In altre parole, la nozione di tessuto sta a quella di aggregato come la nozione di tipo sta a quella di edificio. Un tessuto edilizio è dunque contraddistinto da una legge riconoscibile, iterativa e individuabile. Da questo punto di vista potremmo parlare di organismi edilizi che si compongono a formare organismi a scala superiore: l’organismo urbano, per poi riconoscere che tra questi due estremi di scala esiste un salto logico (che è anche anche un salto storico-processuale), nel senso che il passaggio tra l’edificio e la città avviene attraverso leggi aggregative che formano (individuano) parti di organismo urbano riconoscibili. L’organismo aggregativo rappresenta dunque il passaggio di scala fondamentale che fornisce la misura di come la città sia, essa stessa, il risultato di un processo di successivi incrementi storicamente individuato.Il percorso originario, dal quale l’aggregato prende inizio, è la traccia visibile di un attraversamento che unisce due punti del territorio particolarmente rilevanti, detti poli. Nella realtà costruita sono riscontrabili quattro tipi principali di percorso che corrispondono ad altrettante fasi di sviluppo e trasformazione degli aggregati urbani:

 

–  Percorso matrice, che esiste prima che intervenga la costruzione. Dunque l’edilizia su percorso matrice corrisponde alla prima fase di edificazione ed è l’edilizia più antica, su lotti in genere meno regolari di quelli successivi, perché l’atto costruttivo non obbedisce ancora a convenzioni istituzionalizzate (esiste una “coscienza spontanea della norma”, alla quale nel tempo si sostituisce una “coscienza critica e istituzionalizzata della norma”) e, allo stesso tempo, il valore del suolo permette ancora estensioni dei lotti spontaneamente adeguate alle necessità edilizie più che condizionate dal loro valore di mercato, come avviene invece in fasi successive dove, in alcuni casi, si formano veri e propri regolamenti edilizi, indicati negli statuti dei comuni.
Percorsi di impianto edilizio, cronologicamente successivi e gerarchicamente subordinati al primo, sono tracciati in funzione dell’edificazione in profondità. Col progressivo allontanamento dal polo, il valore del terreno sul percorso diminuisce rispetto a quello retrostante la prima fascia di edificazione. Per motivi di carattere economico-funzionale è intuibile come, dopo la prima edificazione su percorso matrice, l’aggregato tenda ad utilizzare la fascia retrostante, piuttosto che continuare un’espansione lineare che virtualmente occuperebbe l’intero percorso, con evidente perdita di significato delle nozioni di nodo e polo. Questa seconda fase di edificazione, in generale, avviene orientando percorsi ortogonali al percorso matrice, distanti tra loro la profondità di due dei nuovi lotti. All’intersezione tra percorso matrice e percorso di impianto si formano inevitabilmente, data la possibile duplicità di affaccio dell’edificio d’angolo e, soprattutto, la necessità di sfruttare la relativa area di pertinenza con affaccio su percorso di impianto, varianti sincroniche del tipo base dette varianti di intasamento.
Percorsi di collegamento che uniscono tra loro i percorsi di impianto edilizio. Tali percorsi si possono formare soprattutto in due modi:

– per soppressione delle abitazioni insistenti su due lotti contigui ortogonali al percorso di impianto (una sorta di percorso di ristrutturazione, come vedremo, a scala limitata). In questo caso l’intervento è riconoscibile per il parallelismo dei lotti sul nuovo percorso e la sincronicità delle costruzioni relative.
– per costruzione intenzionale di un nuovo percorso nella fase successiva di espansione, seguente la formazione ed il completamento dell’isolato. In questo caso la programmazione è riconoscibile per essere i nuovi lotti orientati ortogonalmente al nuovo percorso (la tendenza è sempre a massimizzare l’affaccio su percorso), e, spesso, per la diacronicità del costruito nelle due fasi successive di costruzione sui due lati del percorso.
Percorsi di ristrutturazione (non necessariamente sempre presenti negli organismi aggregativi) intervengono alla conclusione del processo di edificazione, nei tessuti maturi nei quali si formano nuovi poli che creano nuove esigenze di collegamento. Sono quindi percorsi “traumatici” che si sovrappongono all’organismo preesistente, considerato obsoleto sulla base di una nuova nozione di tessuto.
La formazione del percorso di collegamento che completa la perimetrazione di un insieme di lotti dà origine all’isolato, componente tra le più stabili degli organismi aggregativi che, rendendo discreto il processo di aggregazione, costituisce la premessa geometrica alla costruzione della città ottocentesca: la dialettica della città moderna si forma attraverso un’interpretazione critica di accettazione od opposizione della geometria della formazione dell’isolato.

Case a schiera moderne.    Oud,  Kiefhoek – piante

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IL RINASCIMENTO UMILIATO – Progetti per via Giulia

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 4  marzo 2013

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Il vuoto urbano tra piazza della Moretta e il Tevere, derivato dalle demolizioni operate nel ’39 per unire piazza della Chiesa Nuova a ponte Mazzini, è uno dei nodi architettonici più controversi del nostro centro storico.

Dopo la guerra, tra le tante rovine lasciate dal fascismo, la ferita di piazza della Moretta è divenuta quasi un simbolo, un buco nero della memoria urbana sul quale si sono esercitati infiniti architetti sperimentando idee, metodi, progetti. Su fronti opposti. All’inizio degli anni Ottanta, ad esempio, Maurizio Sacripanti vi pose il suo fantasmagorico e provocatorio Museo della Scienza; non molto dopo Gianfranco Caniggia indicò, al contrario, la via del “riammagliamento”, la continuazione dell’edilizia storica, come se la città ricucisse le proprie ferite.

Che questa lunga e nobile storia di riflessioni e confronti si debba concludere, come sembra ormai stabilito, con la desolante decisione di costruire un albergo di lusso, a sorpresa, senza un concorso, senza alcuna partecipazione, sembra un segno dei tempi.

Ci sarebbe molto da discutere su come i pilastri delle nuove costruzioni invaderanno i fragili resti antichi o su quale interesse pubblico giustifichi un enorme intervento che attrae traffico proprio in un luogo che dalle auto andrebbe solo difeso. E non si comprende quale logica la Soprintendenza abbia seguito, quali illustri opinioni abbia ascoltato per permettere che s’intervenga tanto pesantemente sull’immagine di un luogo straordinario come via Giulia, la strada più importante dell’intero Rinascimento italiano, dove hanno lasciato il segno Bramante, Borromini, Sangallo.

Ma il problema è più generale: riguarda il modo casuale e senza regole attraverso il quale i nuovi interventi sembrano “capitare” in un centro storico abbandonato agli interessi privati.

Perché, a seguire la tragicomica successione degli eventi, sembrerebbe proprio che al nuovo progetto si sia arrivato “per caso”.  Nel 2009 iniziano i lavori per la costruzione di un parcheggio sotterraneo. A scavo inoltrato, ecco la sorpresa: si scopre che il sottosuolo di Roma è inaspettatamente ingombro di rovine antiche e che i lavori, purtroppo, non possono andare avanti. Però il Grande Buco è stato ormai creato, insieme a un potenziale contenzioso con la Cam, la società appaltatrice. E allora, che fare? Nulla. Meglio attendere. Finché, quando l’attenzione è distratta dalle elezioni, appare una soluzione già definita, conciliatoria.  Un progetto con tanto di approvazioni e pareri favorevoli, bell’e pronto per essere realizzato: oltre all’hotel a cinque stelle, un ristorante, appartamenti di lusso in vicolo delle Prigioni e sul lungotevere e, visto che ci siamo, altre abitazioni su un’area libera in via Bravaria che nulla ha a che vedere con lo scavo. E poi posti auto, un urban center con sala per eventi e convegni… E, al di sotto, le ossa degli stabula romani, centro e ragione dell’intera operazione, sepolte tra fondazioni e parcheggi.

Un disastro urbano legato a un affare immobiliare che la società Cam definisce, con involontaria ironia, “l’unica soluzione sensata e storicamente fondata”.

LA BELLEZZA PERDUTA

di Giuseppe Strappa

in “Corriere della Sera” del 15 febbraio 2013

PAOLO CAPRIOLI AG. TOIATI Decordo, ordinanza antibivacco del sindaco nelle aree di pregio storico e artistico.

Non si può non apprezzare l’eleganza, da mecenate d’altri tempi, della fashion house Fendi. Oltre due milioni di euro elargiti per il Restauro della Fontana di Trevi senza chiedere, per i due anni di lavori, una sola immagine pubblicitaria sulle transenne di protezione. Anche chi, come me, non ama le griffe, guarderà d’ora in poi con maggiore simpatia le nuvole di F impresse sulle borse dell’antica impresa romana. La quale avrà pure il suo ritorno d’immagine, ma in modo discreto, subliminale, si direbbe.

Perché Fontana di Trevi, triplo nodo di vie d’acqua, è anche uno dei grandi nodi della memoria universale, un groviglio d’immagini che lega insieme il prorompente carro di Oceano, la barocca sensualità di Anita  Ekberg, il dinamismo delle volute di pietra, le monetine e il sole di Roma riflessi nella grande vasca disegnata da Nicola Salvi.

Si va alla Fontana, cinesi, russi, brasiliani, ognuno con la propria immagine privata, quasi per vedere se esista davvero: ognuno fotografa ma nessuno guarda, come se cercasse non la gioia dello spettacolo fastoso e irripetibile, ma una certificazione, una prova.

Proprio questo fiume di turisti sempre in piena, quest’ansiosa curiosità globale che alimenta un commercio invadente e senza ordine, pone il vero problema della tutela della Fontana. Se, infatti, il suo restauro architettonico è indispensabile, è ancora più urgente restituirne il valore urbano, lo splendore dello spazio che genera e le si avvolge intono invadendo piazza di Trevi.

Una bellezza perduta, trasformata com’è in un groppo di degrado che s’irradia nelle vie circostanti. Il povero visitatore che percorra la strada dal Pantheon alla Fontana, costretto a passare per le forche caudine di file ininterrotte di tavoli, s’immerge in un mondo senza dimensione, in un magma di bandiere della Ferrari, colossei di plastica, centurioni con colli di peluche leopardati, bancarelle dove l’umano stenta a ricavarsi un varco.

Una potente risorsa economica come il turismo si trasforma così in un danno. Dopo aver rovinato le nostre coste dove, tra condomini e casette abusive, nessun forestiero ormai passerebbe le vacanze, dopo aver distrutto la fiorente agricoltura della campagna romana convertita in una periferia diffusa, ora stiamo trasformando i nostri spazi storici in luoghi invivibili, dove il turista si ferma il meno possibile lasciando solo i pochi spiccioli dei menù a presso fisso.

Una follia collettiva che quest’ Amministrazione ha spinto a limiti estremi, ma che ha radici lontane, nella disinvoltura con cui per tanti anni sono stati rilasciati permessi e si sono evitati i controlli.

Eppure, per ridare almeno un po’ di decoro agli spazi più preziosi e fragili della nostra città, non servirebbero milioni ma una ragionevole volontà di governare le trasformazioni in atto. Basterebbe un “restauro dell’uso delle aree pubbliche” da eseguire con poche regole, ma chiare, con qualche divieto elementare, ma rispettato.  Un’utopia si direbbe, nella Roma dei nostri giorni.

CARATTERE DELLA MATERIA, CARATTERE DEL MATERIALE

MATERIA, MATERIALE

prof. Giuseppe Strappa

Dire che il materiale rappresenta il mezzo necessario e sufficiente – scriveva Giuseppe Pagano – per la realizzazione architettonica non basta. Esso è qualche cosa di più. Esiste nel materiale qualche cosa che non è soltanto aspetto esterno ma è tendenza formale inerente il materiale prescelto.Il problema dell’impiego dei materiali non è la fase conclusiva del processo di progettazione, quella che prelude alla costruzione. Al contrario, la scelta dei materiali, l’individuazione del loro uso possibile, costituisce uno dei momenti fondanti del progetto e interviene fin dalla sua impostazione.

Possiamo definire un organismo, sotto questo punto di vista, come trasformazione della materia in elementi, i quali si aggregano stabilendo tra loro un rapporto di necessità fino a costituire un’unità autonoma.

I caratteri degli edifici sono legati al problema fondamentale delle trasformazioni della natura in realtà costruita: al problema di come la materia cambi, per così dire, di stato, divenga  materiale prima di essere trasformata in elemento di architettura e di come l’elemento concorra alla formazione dell’ organismo componendosi in strutture di grado sempre maggiore. La serie delle delle trasformazioni e aggregazioni che determinano selettivamente il carattere di un edificio può essere individuata nel passaggio dal  carattere della materia al carattere del materiale fino, attraverso la formazione di elementi e strutture, al carattere dell’ organismo. L’impiego della materia (i suoi diversi modi) è dunque uno dei dati fondamentali che presiedono alla formazione dell’edificio.

Risulta dunque riconoscibile  un carattere della materia, allo stesso modo in cui è riconoscibile  un carattere del materiale, degli elementi, e dell’organismo architettonico. Questi caratteri si influenzano reciprocamente, nel senso che l’edificio è sintesi e conclusione di un processo continuo di trasformazione della natura in realtà costruita.

Si è distinta la materia dal materiale perché i due termini hanno valore  profondamente diverso.

La materia è la sostanza di cui sono composti i corpi dell’universo, la parte fisica e sensibile del mondo: il termine esprime, insieme all’indeterminatezza, la potenzialità a ricevere forma. Essa non è, dunque,  un materiale edilizio:  è invece  il dato del problema, preesistendo  alla trasformazione. Dunque la materia  è l’origine prima della realtà costruita. La differenza tra materia e materiale  non riguarda dunque tanto la concretezza della costruzione, quanto la coscienza dell’uomo, la cognizione che una certa materia sia suscettibile di essere utilizzata come (o trasformata in) materiale, sia adatta o adattabile a diventare edificio.[1] Il riconoscere all’interno della natura la disponibilità di alcune materie ad essere trasformate in materiali fa parte della storia della coscienza (spontanea o critica) dell’uomo di fronte all’universo. Lo dimostra la storia: il Neolitico è la fase di sviluppo della coscienza dell’uomo nella quale viene soprattutto riconosciuta l’attitudine della pietra ad essere trasformata in materiale lapideo benché fossero a disposizione, in potenza, infinite altre possibilità; lo stesso è avvenuto per il ferro, il bronzo ecc. con un progressivo adattamento artificiale (un processo di domesticazione del mondo minerale e vegetale) della materia a materiale. Adattamento segnato dal passaggio dal puro adattamento dei materiali “trovati” (le scaglie di pietra utilizzate come punte di frecce, la pietra raccolta e impiegata senza trasformazione nelle murature a secco) alla lavorazione della pietra in blocchi e conci squadrati, al controllo della fusione dei metalli, alla formazione delle leghe. Dunque il termine “materiale” indica l’attitudine che viene riconosciuta dall’uomo alla materia di essere impiegata, trasformata o meno, nella costruzione. Il materiale può essere interpretato come il risultato di un processo di “distillazione” della materia operato attraverso selezioni successive dovute alla convergenza di istanze civili e pratiche. Si pensi alla cura della “purezza” dei materiali che ricorre tanto nelle raccomandazioni di Vitruvio per la scelta dell’argilla, quanto nelle norme degli statuti medievali sulla tutela della qualità del gesso, la cui vendita, perché ne fosse controllata la purezza, era riservata agli iscritti nella lista dei mestieri. Se nel cantiere medievale il nome dell’architetto è spesso sconosciuto, ogni pietra reca invece la firma del tagliapietre che l’ha sagomata non solo per controllare la quantità del lavoro svolto, ma come verifica dell’esatta lavorazione del materiale e, anche, gesto d’orgoglio delle maestranze.

La distinzione tra materia e materiale è dunque un’ operazione  critica e allo stesso tempo collettiva che nel passato apparteneva ad una società civile (o in via di civilizzazione) anziché all’individuo. Essa è  uno dei dati fondamentali nella formazione dei caratteri degli edifici e ne contraddistingue, contro luoghi comuni diffusi, la sostanza creativa. Anzi, questa operazione di riconoscere e ordinare la materia corrisponde all’atto creativo per eccellenza, costituendo l’origine di ogni costruzione. La stessa origine del mondo interpretata come creazione è basata, in molte religioni, sulla trasformazione del caos iniziale della materia che costituisce l’universo informe in sistema ordinato di elementi.

L’omogeneità dell’ambiente costruito tradizionale pugliese, ad esempio, non deriva unicamente dall’uniformità della sua costituzione litologica, ma dalla costanza del riconoscimento nella materia lapidea (in genere calcare compatto del cretacico di notevole durezza) dell’attitudine ad essere impiegata secondo le forme prodotte naturalmente per sfaldamento, ordinate dalle diaclasi, e riaggregate in idonei sistemi statico-costruttivi. L’ omogeneità deriva dall’impiego generalizzato, insieme, di questo materiale e dei modi d’impiego che l’opera dell’uomo gli ha associato nella costruzione di abitazioni, rimesse agricole, recinti murari, pavimentazioni di strade. L’attitudine dei tufi del pliocene e della pietra leccese del miocene ad essere impiegati dopo la trasformazione, resa semplice dalla scarsa durezza del materiale, ha dato vita, invece, ad una diversa cultura edilizia sviluppatasi soprattutto nell’area del Salento. Perfino la formazione di aggregati di abitazioni trogloditiche scavate nella roccia ha comportato una forma di riconoscimento dell’attitudine della materia (calcare tenero tufaceo) a trasformarsi in materiale (pareti e volte delle grotte e delle dimore ipogee).

All’interno del caos  indifferenziato, confuso ed informe (massa senza ordine) delle Metamorfosi di Ovidio, ad esempio,  l’atto creativo  corrisponde alla composizione del conflitto interno alla materia operata da un nume che distingue (separa) i caratteri della materia: la leggerezza dell’aria e il guizzo del fuoco; la pesantezza della terra “premuta dal peso” e la fluidità dell’acqua. All’atto creativo corrisponde la leggibilità simbolica (architettonica) del gesto: l’ordine è anche comunicabile razionalmente, leggibile attraverso la forma sferica della terra. Si noti come, insolitamente per il mondo antico, sia la terra  ad avere forma sferica e non l’intero universo. La sfericità  dell’universo come elemento ordinatore della sua sostanza era invece comune alle cosmogonie antiche (si veda, ad esempio, la cosmogonia platonica esposta nel Timeo ). Anche nelle cosmogonie comuni alle culture islamiche è costantemente presente l’idea della forma sferica come geometria del mondo ordinato dal Creatore; nel X secolo la creazione viene così descritta: ” Emanata la Sfera Superiore, l’emanazione continua con la produzione di un Intelletto e di una Sfera. Dal Secondo Intelletto se ne produce un Terzo insieme alla Sfera delle Stelle Fisse; dal Terzo Intelletto un Quarto e la Sfera di Saturno; dal Quarto Intelletto un Quinto e la Sfera di Giove ; (…); dal Nono Intelletto un Decimo e la Sfera della Luna.[2]La costruzione ordinata del mondo ha dunque bisogno di un passaggio fondamentale che la completi e concluda, una  geometrizzazione del gesto creativo  che la renda  comprensibile: al primo e fondamentale gesto di organizzazione della materia corrisponde  la forma geometrica di assoluta perfezione, regolare per antonomasia. La creazione come ordinamento della materia operato distinguendone i caratteri è un gesto, dunque, fondamentalmente architettonico, tanto che il creatore di Ovidio è il fabricator mundi, l’architetto del mondo.

Così l’uso dei materiali ha inizio dal riconoscimento del loro carattere,  della suscettibilità dei metalli, ad esempio, ad essere impiegati secondo la loro natura, l’attitudine alla fusione, considerandone l’utilità potenziale che fa ritenere, nei tempi più arcaici, il bronzo materiale nobile per la sua durezza e l’oro materiale prezioso e allo stesso tempo vile per la sua scarsa resistenza.

Con ogni probabilità la prima fase del lavoro dell’uomo nella quale è riscontrabile l’intero ciclo di trasformazione della materia è da riconoscere nell’arte della ceramica, sviluppatasi in diverse fasi :

– l’individuazione dei caratteri della materia (il riconoscimento della plasticitàdell’argilla);

– l’acquisizione delle tecniche di lavorazione della materia divenuta materiale (l’uso della cottura ai raggi solari e, successivamente, l’uso del fuoco) ;

– l’adattamento del materiale ad una forma governata da un ordine riconoscibile (struttura)

– la sintesi estetica operata attraverso il pieno possesso delle tecniche di fabbricazione e l’istanza di espressione artistica.

Non a caso i resti di vasi fittili rappresentano le testimonianze più leggibili che consentono di riconoscere i caratteri delle civiltà arcaiche. Uso del fuoco nella cottura  e ordine geometrico nella  forma dei vasi costituiscono due tappe fondamentali nel processo di addomesticazione della materia. L’uso del fuoco per la cottura delle terre (vasi di terracotta, mattoni cotti ecc.) segna l’inizio del processo di progressivo abbandono da parte  dell’uomo del rapporto di imitazione della natura. Il prodotto della cottura a fuoco non rappresenta  l’utilizzazione di procedimenti esistenti in natura piegati ai fini utilitari come la cottura solare: esso possiede, al contrario, come i più tardi esiti prodotti dalla fusione dei metalli, caratteri artificiali che la natura non avrebbe potuto generare. Caratteri ottenuti inoltre, dato fondamentale, in tempi accelerati rispetto ai processi naturali: ” Se tutto ciò che cambia lentamente si spiega attraverso la vita, – scrive Bachelard –tutto ciò che cambia rapidamente si spiega attraverso il fuoco“. Proprio in questo distacco dell’uomo dalla natura, nella creazione del primo e più semplice degli elementi artificiali della costruzione, il mattone cotto (ed in seguito i prodotti delle “industrie del fuoco”, delle fornaci, delle vetrerie, delle ferriere), può essere riconosciuta l’essenza artificiale dell’architettura.

A noi è utile una classificazione generale dei materiali in funzione dei caratteri che sono stati loro riconosciuti nel rapporto con i diversi tipi di elementi, tipi di strutture di elementi, tipi di sistemi.

Quando l’uomo riconosce nella materia alcune qualità edilizie, infatti, ha già riconosciuto  la sua adattabilità a formare un certo tipo di elementi   e non altri. Il riconoscere nel  magma solidificato di una roccia eruttiva depositatasi per strati la possibilità di ottenere per sfaldamento lastre di  dimensioni pressoché costanti già contiene l’idea del modo di riaggregazione del materiale ottenuto per  stratificazione, stendendolo per sequenze di strati (stratum è participio di sternere, stendere, appunto)  secondo fasce orizzontali parallele.

Le cognizioni necessarie alle scelte vengono gradatamente acquisite ed entrano a far parte della coscienza del costruttore attraverso l’esperienza dell’atto costruttivo, inteso come processo unitario di trasformazione della natura. L’idea di tipo investe quindi l’intero processo edilizio fin dalle scelte e decisioni  iniziali che riguardano l’impiego del materiale, determinate da:

selezione  degli elementi ottenibili soprattutto in base:

– alle dimensioni (ad esempio pietre in grandi blocchi cavati, ciottoli fluviali, lastre ottenute da sfaldamento ecc., oppure tronchi di grandi e medie dimensioni, rami di dimensioni medie e piccole ecc.);

– alle qualità meccaniche (ad esempio, in base alla durezza: rocce tenere come le arenarie, i calcari gessosi, i tufi vulcanici, o rocce dure come marmi e graniti; per il legname legni dolci come il pioppo, l’ontano, la betulla, oppure duri come la quercia, l’olmo, il castagno, il faggio);

– alla durabilità, cioè alla qualità di resistere nel tempo agli agenti esterni;

– alla lavorabilità, carattere legato alla durezza e ad essa opposta. La selezione della materia prima é anche una delle  manifestazioni originarie di volontà cosciente di rapporto stabile col territorio: la vasta diffusione di alcune materie prime nel Neolitico, induce a ritenere, in assenza di commercio, che le diverse comunità di villaggio conoscessero, in un raggio piuttosto vasto, i caratteri dell’ambiente naturale, come la posizione delle cave che venivano raggiunte con viaggi anche di diversi giorni.

specializzazione degli elementi ottenuti (blocchi portanti-chiudenti, ciottoli di riempimento tra le pareti esterne del muro in pietra squadrata, marmi e graniti di rivestimento ecc.; travi ottenute da tronchi squadrati utilizzabili per grandi luci, travetti, arcarecci ecc.).

 

 

 

 

La specializzazione può avvenire non necessariamente attraverso la lavorazione, ma anche semplicemente dal riconoscimento delle attitudini del materiale al momento dell’estrazione, ad esempio sfruttando linee di stratificazione e fessure per ottenere elementi già idonei ad essere aggregati in alcuni tipi di strutture e non in altri. Il reticolo stesso della diaclasi determina spesso il modulo degli elementi impiegati nell’apparecchiatura muraria, nella quale si susseguono, diacronicamente, disposizioni irregolari di elementi poligonali, segmenti spianati e resi regolari nelle facce di contatto, filari di dimensioni regolari.

Il carattere riconosciuto nei mezzi che la natura mette a disposizione è dunque indissolubilmente legato all’esito intermedio (la formazione degli elementi) e finale (il legame degli elementi in strutture).[3] Non è possibile, per questa ragione, studiare il carattere di un edificio prescindendo dalla scelta e dal  modo d’uso dei materiali. Scelta che, come vedremo, condiziona il carattere degli organismi su tempi molto lunghi, permanendo anche nelle fasi di crisi nelle quali, per motivi contingenti (economia, nuove tecniche costruttive ecc.) la materia impiegata verrà sostituita. Le forme di individuazione dei caratteri dei materiali sono infatti elemento determinante nel riconoscimento di aree culturali. E infatti per area culturale si intende una porzione di territorio nella quale è riconoscibile un elevato numero di caratteri comuni nei materiali, negli elementi, nelle strutture degli edifici e dei tessuti edilizi. Tali aree, la cui definizione è evidentemente parziale e finalizzata allo studio che stiamo compiendo, caratterizzate da maggiore o minore persistenza dei caratteri derivati dall’uso del materiale, hanno a volte conservato nel tempo i caratteri specifici  dell’edilizia prodotta, tanto da essere identificabili perfino in una fase di estrema internazionalizzazione dei processi  produttivi come l’attuale.

Naturalmente i caratteri riconosciuti nei materiali e il tipo di elementi che ne deriva sono estremamente articolati, legati non solo alla civiltà che li ha prodotti ma anche, sincreticamente, alle influenze e interazioni tra aree culturali. Possiamo tuttavia  individuare alcuni caratteri di base comuni. Essenzialmente la materia  che l’uomo ha riconosciuto idonea a costituire materiale edilizio può essere divisa in due grandi categorie:

– materiali a carattere elastico

–  materiali a carattere plastico

Si tratta di caratteri tipici, rispetto ai quali si possono operare differenziazioni ulteriori in base al grado di tipicità che si intende utilizzare, ma che, proprio per il loro basso grado di tipicità, costituiscono un riferimento generale per la lettura della grande maggioranza degli organismi costruiti. L’attitudine riconosciuta alla materia vegetale a differenziarsi induce all’impiego di materiali gerarchizzati (l’albero possiede una struttura articolata per forma,  dimensioni  e resistenza che si traduce nella differenziazione gerarchica di pilastri, travi, arcarecci ecc.). Gli elementi prodotti e utilizzati  in prevalenza in aree eleastico-lignee (legno, ferro, acciaio),[4] caratterizzati morfologicamente da una dimensione prevalente sulle altre due (elementi lineari), presentano l’attitudine ad essere discreti e ripetibili in serie. Le strutture composte dall’unione di questi elementi presentano qualità specifiche che possono sinteticamente essere indicate come aventi tendenza seriale, intendendo con questo termine la propensione ad aggregarsi in strutture discontinue, composte di elementi  iterati e intercambiabili, che non perdono la propria funzione e riconoscibilità quando vengano sostituiti alcuni elementi della serie con altri.[5] L’attitudine riconosciuta alla materia lapidea a produrre materiali indifferenziati (le pietre vengono cavate da una massa informe di materia in pratica non gerarchizzata) induce all’impiego del  materiale in forme omogenee. Gli elementi prodotti in aree plastico-murarie (muratura in pietrame o mattoni),[6] caratterizzati morfologicamente da due dimensioni prevalenti sulla terza (elementi piani o a sviluppo curvilineo), presentano l’attitudine ad esserecontinui e individualizzabili in modo univoco all’interno della struttura. Le strutture composte dall’unione di questi elementi presentano qualità specifiche che possono sinteticamente essere indicate come aventi predisposizione organica, indicando con questo termine la propensione di una struttura ad essere omogenea, dove gli elementi sono tra loro in rapporto di necessità tale che la posizione reciproca nell’organismo ne conforma univocamente dimensioni e geometria in modo tale che sostituendo un elemento con un altro la struttura perde la sua funzione e riconoscibilità. Visti nel loro diretto rapporto con il materiale del quale sono costituiti, gli elementi possono essere considerati come individuazioni tipiche del carattere dei materiali.



[1] Una considerazione apparentemente ovvia riguarda la disponibilità del materiale in un’ area: una materia non disponibile non può essere individuata come materiale. La nozione di disponibilità dovrebbe comunque essere approfondita. Essa non riguarda solo la disponibilità fisica, ma anche l’accessibilità, la trasportabilità,  l’economicità dell’impiego, la facilità tecnica delle eventuali lavorazioni che precedono l’uso della materia . A volte l’individuazione collettiva della scelta che sintetizza anche queste componenti si traduce in norma religiosa o legislativa.

[2] Al Farabi, riportato in Fahd Toufic, La naissance du monde selon l’Islam, in  Sources orientales , Paris 1959.

[3] “Per l’architetto costruire – scrive Viollet-le-Duc – è impiegare i materiali in ragione delle loro qualità e della loro propria natura (…) I metodi del costruttore devono dunque variare in ragione della natura dei materiali, dei mezzi di cui dispone, delle necessità che deve soddisfare e della civiltà in seno alla quale nasce.” (Eugène Viollet-le-Duc, voce Construction in Dictionnaire raisonneé de l’architecture française du XI au XVI siècle, Paris 1854-68.)

[4] Si intendono come “elastici” gli elementi composti da  materiali capaci, se deformati,  di tornare alle condizioni iniziali una volta che vengano rimosse le cause della deformazione (cioè di restituire interamente  l’energia spesa nella deformazione).

[5] Mentre nella cattedrale gotica può essere sostituita una campata con un’ altra della serie, in impianti centrali barocchi come S. Ivo alla Sapienza non può essere  sostituito alcun elemento comparabile alla campata gotica, essendo l’organismo costituito da uno spazio unitario. In realtà anche nell’edifico più organico, che esprima in modo esemplare il proprio carattere plastico murario, possono essere individuati elementi ripetuti in serie (anche se limitata), qualora si riguardi l’elemento in scala opportuna (iterazione delle colonne, degli spicchi di volta ecc.). La definizione di organico e seriale è dunque relativa (si veda la definizione  di grado di serialità e grado di organicità impiegata per gli organismi architettonici). Rimane il fatto che i due diversi caratteri generali e le aree di appartenenza sono quasi sempre facilmente individuabili quando si tenga contemporaneamente conto di tutti gli attributi che ne permettono la riconoscibilità.

[6] Il calcestruzzo può essere usato, fatte salve le specificità meccaniche, sia con carattere elastico-ligneo (sistemi di elementi lineari  in cemento armato) sia  con carattere plastico-murario (setti portanti, volte ecc.).