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SALVIAMO LA DIGA DI CASTEL GIUBILEO

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del  7.06.2003

Se si alzavano gli occhi verso monte, sull’abbagliante specchio d’acqua dove saltavano i cavedani apparivano,  fantastiche, le torri di cemento e acciaio dello sbarramento di Castel Giubileo.
Come una misteriosa macchina futurista arenata sul greto del Tevere, la centrale elettrica sembrava, a noi ragazzi, il limite del mondo selvaggio del fiume, la geometria esatta della diga contrapposta all’anarchia del ponte crollato tra le cui rovine vorticavano i magnifici mulinelli della pesca alle rovelle.
Per le generazioni dei romani delle Topolino e delle Seicento, la centrale di Castel Giubileo ha rappresentato uno dei segni ottimisti della ricostruzione, illustrato con chiarezza dal carattere dei nuovi materiali: dalla leggerezza dell’acciaio delle cabine di comando e delle passerelle aeree, dalla trasparenza delle pareti in vetrocemento che contenevano i gruppi di turbine Kaplan, dal vigore del calcestruzzo armato dei piloni e dell’impalcato stradale. E per molto tempo è rimasta il nodo macchinista che legava, alle soglie di Roma, il flusso dell’Anulare allo scorrere antico del Tevere.
Ma per la storia dell’architettura contemporanea la diga, progettata nel ’48 e terminata nel ’53, non è solo una perfetta opera d’ingegneria civile: insieme alle altre centrali costruite da Gaetano Minnucci per la Società Idroelettrica Tevere (quella di Nazzano del ’54, quella di Ponte Felice del ’59), è il manifesto di un modo di concepire le grandi infrastrutture territoriali come opere d’arte. Opere di un’arte dell’esattezza tessuta, aveva scritto Minnucci stesso, ” su di una trama esclusivamente tecnica, basata sulla scienza delle costruzioni e sulla conoscenza delle infinite materie che la natura e l’industria offrono”. Molte opere di questo grande ingegnere, fondatore del Movimento Italiano per l’Architettura Razionale, hanno avuto un destino sfortunato, deturpate da dissennate trasformazioni, come il Dopolavoro della Città universitaria o, peggio, la GIL di Montesacro. Il complesso di Castel Giubileo sembra invece, per ora, in buone condizioni. Ma l’ipotesi di dismissione dell’impianto idroelettrico, ormai antieconomico, insieme al progetto per la terza corsia dell’Anulare ne rendono oscuro il futuro.
Mi sembra che un buon suggerimento al problema della sua conservazione venga dal consulto sul Tevere promosso dalla Facoltà d’Architettura di Valle Giulia e dall’Acer, con la proposta degli architetti Petrachi e Montuori di tutelare le strutture disegnate da Minnucci riutilizzandole come polo di un sistema d’uso del bacino fluviale che preveda l’attracco di barche e la possibilità di risalire il fiume fino all’oasi naturalistica di Farfa, mentre le sale macchine potrebbero ospitare ambienti di ristoro e spazi didattici. Un progetto che, condiviso o meno, ha comunque posto il problema: occorre prevedere per tempo nuove destinazioni a questa testimonianza preziosa del nostro passato recente, per non rischiare che, per incuria o distrazione, venga riassorbita come rovina dalla vita distruttrice del fiume.

SEGMENTI E BASTONCINI La deriva empirica dell’architettura

Presentazione a

Progettare il tessuto urbano di Alessandro Franchetti Pardo, Roma 2012

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di Giuseppe Strappa

Non è facile, ai nostri giorni, convincere i giovani della necessità della teoria, del pensiero unificante che da senso al molteplice, che riporta il particolare alla visone sintetica delle cose.
I motivi sono molti e riguardano tutte le età dell’educazione e della formazione dei nostri studenti.
Un ruolo certamente importante è svolto dall’insegnamento nelle scuole medie dove la constatazione dei fatti ha sostituito la loro dimostrazione e  l’esperienza pratica la conoscenza generale della quale ogni caso specifico costituisce un’applicazione. Gli studenti che frequentano i nostri corsi universitari sono figli di questo insegnamento che, negli studi di architettura, sembra trovare conferma da quello che vedono intorno a loro, dalla deriva, spesso estetizzante e indimostrabile, di molte ricerche contemporanee.
Lucio Russo ha espresso questo dato con un’ osservazione fulminante, che vale la pena di riportare. Egli parla della disastrosa diffusione della “matematica pratica” e riporta l’opinione di uno studente della “Sapienza” di Roma che ritiene falsa la geometria, astratta e generica,  derivando la sua deduzione dal fatto che non esistono nella realtà segmenti, che ha valore solo quello che è concreto, ha uno spessore ed è verificabile con l’esperienza: i bastoncini. “L’argomento – scrive Russo – non mi è giunto nuovo: l’avevo già letto nelle opere di Sesto Empirico; allora la razionalità scientifica stava per essere abbandonata per una quindicina di secoli.”
Abbiamo spesso riflettuto con Alessandro Franchetti Pardo, autore di questo prezioso libretto sulla didattica di architettura, su come l’osservazione trovi una puntuale corrispondenza nella predisposizione dei nostri studenti dei corsi di progettazione alle scorciatoie che evitano il confronto con la conoscenza generale dei problemi, la quale, per noi, consiste soprattutto nella lettura critica della realtà costruita, nell’interpretazione metodica e finalizzata dei fenomeni urbani che, sola, dà senso generale alla proposta progettuale particolare.
Questo problema dell’approccio diretto ed empirico al progetto è particolarmente sentito, peraltro, in un settore dell’insegnamento di architettura come il nostro, nel quale la componente pratica ha un ruolo importante e rischia di essere indirizzata all’imitazione della produzione più nota e diffusa dai media. Produzione nella quale il progetto, per larga parte, avendo smarrito il suo fondamentale carattere di costruzione, continuazione di un processo formativo in atto della città e del paesaggio, rischia di perdere il proprio senso civile per  divenire altro dall’architettura: comunicazione, arte visiva, comunque espressione individuale e soggettiva.
Franchetti Pardo è uno dei non molti insegnanti di progettazione che io conosca a porsi, controcorrente, con originalità e grande competenza, il problema di informare il proprio insegnamento non solo a principi generali legati alle incertezze della mutevole condizione contemporanea, ma anche ad un metodo rigoroso di comprensione dei luoghi e dei loro processi formativi, propiziando una ricerca, da parte degli studenti, i cui notevoli esiti sono in piccola parte dimostrati dalle pagine che seguono.
Leggere e progettare, oggi, la nobile area di via Giulia, con i suoi tessuti  ed i suoi palazzi disegnati da grandi architetti del passato e confrontarla con quella periferica e dimenticata di Casal Monastero, come fa qui Franchetti Pardo, è, a mio avviso, una scelta importante e coraggiosa. Significa affermare che i principi che determinano il formarsi e trasformarsi dello spazio abitato dall’uomo hanno una matrice comune, che quello che produciamo oggi è una continuazione e un aggiornamento di un processo lungo e continuo nel tempo che va riconosciuto superando gli stereotipi e le ideologie di superficiali rivoluzioni.
Attraverso i corsi di Franchetti Pardo lo studente ha individuato, credo, non solo la forma della città antica e le trasformazioni operate dall’intelligenza di costruttori-architetti la cui opera è tramandata dalla Storia, ma anche la permanenza di questa capacità di comprensione delle cose in progettisti contemporanei che hanno interpretato, pur nelle difficili condizioni della periferia romana, il territorio marginale come città in divenire della quale vanno individuati forma e caratteri. In modo non molto diverso, in fondo, da come della città del passato è stata letta la  struttura sviluppatasi per gerarchie di percorsi, polarità, tipi di edifici congruenti con la propria fase storica.
In questo, mi sembra, il lavoro didattico di Alessandro Franchetti Pardo si collega con coerenza, per metodo e fini, all’attività di indagine innovativa che stiamo conducendo insieme, nel quadro delle ricerche  Prin, sulla progettazione nei piccoli centri storici del Lazio orientale,  e alla precedente indagine sulla periferia ad est di Roma, in corso di pubblicazione, a testimonianza di un fertile volano che sempre dovrebbe trasmettere alle giovani generazioni i risultati delle sperimentazioni in corso.

AREE DISMESSE E FUTURO DELLA CITTA’: LA VENDITA DELLE CASERME ROMANE INCONTRO PUBBLICO E TAVOLA ROTONDA

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SA nuovo corso di laurea triennale in scienze dell’architettura
LPA laboratorio di lettura e progetto dell’architettura

AREE DISMESSE E FUTURO DELLA CITTA’: LA VENDITA DELLE CASERME ROMANE
INCONTRO PUBBLICO E TAVOLA ROTONDA

La vendita ai privati di 15 caserme romane, per un totale di un milione e mezzo di metri cubi edificati e più di 80 ettari di territorio, ha dimensioni tali da portare conseguenze enormi sul futuro della Capitale. L’iniziativa ha lo scopo di mettere a confronto idee, opinioni e progetti elaborati non solo in ambito amministrativo e universitario, ma soprattutto da parte di comitati e associazioni di cittadini.

venerdì 30 marzo, 2012, ore 16,00
Facoltà di Architettura
sede di Fontanella Borghese, aula magna
Piazza Borghese 9, Roma

presenta
GIUSEPPE STRAPPA (direttore del laboratorio Lpa)

interventi introduttivi di
CARLO RIPA DI MEANA (presidente Italia Nostra,Roma)
FRANCO PURINI (ordinario di progettazione architettonica)

scheda di
PAOLO CARLOTTI (dipartimento DIAP)

tavola rotonda. intervengono:
MAURIZIO GEUSA (dirigente U.O. pianificazione e
riqualificazione delle aree di interesse pubblico, Comune di Roma)
ELIO ROMANO (Comitato cittadino per l’uso pubblico delle caserme)
DANIEL MODIGLIANI (urbanista)
MIRELLA BELVISI (Italia Nostra)
ANDREA BRUSCHI (dipartimento DIAP)
ROBERTO CREA (Cittadinanzattiva)
ALFONSO GIANCOTTI (Casa dell’Architettura, Roma)
LUIGI TAMBORRINO (Campo trincerato, Roma)
VINCENZO GIORGI (dipartimento DIAP)
ROBERTO TOMASSI (Coordinamento residenti
città storica)
SIMONE FERRETTI (Campo trincerato, Roma)
SONO INVITATI I RAPPRESENTANTI DEI COMITATI DI QUARTIERE, DELLE ASSOCIAZIONI E TUTTI I CITTADINI INTERESSATI.

Organizzazione
Alessandro Camiz
Segreteria 06 4991933
Alessandro Bruccoleri, Pina Ciotoli, Virginia Stampete

 

CASERME, UN PROGETTO O SI SVENDONO I GIOIELLI

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“CORRIERE DELLA SERA” del 23 marzo 2012

di Giuseppe Strappa
Segregate al centro della vita brulicante della città, minacciate di prossima rovina, le grandi caserme mostrano ormai tutta la loro inattualità.
Nelle aree dismesse di molte metropoli europee (ad Amsterdam, Londra, Barcellona) strutture di questo tipo, disgregandosi, si sono ricomposte in nuovi nodi urbani, hanno creato inattese identità. Da noi gli interventi effettuati testimoniano, piuttosto, un consolidato intreccio di affari e insipienza. Come nel famoso pasticcio della Caserma Miale, edificio tra i più cospicui di Foggia: svenduto alla Paribas e poi ripreso in affitto, verrà forse riacquistato come sede universitaria con una perdita secca di 12 milioni di euro.
Anche a Roma si pone, in questi giorni, il problema. Enorme. La delibera del 2010 sembra elencare 15 “caserme” da alienare. Ma bisogna guardare oltre le parole: la Caserma Ulivelli è, di fatto, il Forte Trionfale, 11 ettari tra le aree naturalistiche dell’Insugherata e del Pineto; La Caserma Ruffo è il Forte Tiburtino, 14 ettari strategici nella periferia est; la Caserma Gandin è il Forte di Pietralata, 25 ettari nell’area protetta della Valle dell’Aniene. E poi Forte Boccea, ex conventi in pieno centro storico insieme a complessi giganteschi e quasi dimenticati, sepolti nel cuore stesso di Roma, come la Caserma Medici presso via Cavour o lo Stabilimento Militare, 220.000 mc in via Guido Reni. Un intero pezzo di futuro da affidare a imprenditori privati, con destinazioni in deroga agli strumenti urbanistici, come consente la legge 133 del 2008, e metà della superficie utile a destinazione “flessibile” (!) oltre a possibili aumenti di cubatura del 30%.
Quello che sembra soprattutto un problema di cassa e liquidità, da risolvere attraverso tavoli tecnici tra Governo e Comune, è in realtà uno dei nodi cruciali della città contemporanea.
Occorrerebbe un disegno unitario capace di raccogliere in unità i frammenti sparsi delle strutture dimesse (non solo caserme, ma anche fabbriche, carceri, parchi ferroviari). O almeno, nelle condizioni attuali, dare loro il senso di una nuova architettura, legarli ai tessuti vitali dei quartieri in trasformazione attraverso un progetto che l’Amministrazione dovrebbe individuare e proporre insieme alla vendita. Un progetto, economicamente vantaggioso, certo, ma anche parte solidale del più generale organismo urbano.  Perché l’Amministrazione romana, pure stretta tra continue emergenze, non può comportarsi come una vecchia signora che, rovinata dai debiti, è costretta a svendere i beni di famiglia.

incontro pubblico
AREE DISMESSE E FUTURO DELLA CITTA’
LA VENDITA AI PRIVATI DELLE CASERME ROMANE

 

Facoltà di Architettura
Sede di Piazza Borghese,9
Venerdì 30 marzo, ore 16