Tag Archives: Giuseppe Strappa

LETTURA DELL’ ORGANISMO ARCHITETTONICO

 

Lezione di G.Strappa
Prendiamo in esame il caso di Villa Capra cercando di comprenderne le ragioni formative e le potenzialit¦ di sviluppo:
– perché essa si configura come organismo;
– perché di questo organismo possono essere date alcune leggi generali, che lo identificano allíinterno di una famiglia di organismi: una definizione che, trascendendo il singolo edificio, permetta di riconoscere nel manufatto architettonico la presenza di caratteri costanti che individuano il tipo.
Villa Capra, concludendo una famiglia di edifici e ponendosi all’inizio di un’altra, sotto molti punti di vista, esemplare. Riguardiamola sotto l’ottica del rapporto col luogo e delle componenti che lo informano.
Il luogo. Nel programma unitario dell’organismo uno dei dati del problema è legato all’utilizzazione dell’edificio rispetto alle condizioni al contorno: una villa situata nella campagna vicino Vicenza, su un luogo di cui sono note le qualità, e dal quale è possibile osservare quasi in maniera isotropa il paesaggio circostante con pochi discreti punti cospicui: “Il sito è degli ameni e dilettevoli che si possano ritrovare, perché è sopra un monticello di ascesa facilissima ed è da una parte bagnato dal Bacchiglione fiume navigabile, e dall’altra è circondato da altri amenissimi colli, che rendono l’aspetto di un molto gradevole Theatro, e sono coltivati, e abondanti di frutti eccellentissimi e buonissime viti…”.

 

L’utilitas. Questo edificio è una villa, quindi fa riferimento ad un modo di abitare di consolidata tradizione: corrisponde ad una grande, ben individuabile famiglia di edifici. La villa, così come si è configurata nel tempo, corrisponde ad un edificio di abitazione di campagna, che ha con la natura un rapporto contemplativo: la tradizione della villa corrisponde alla cultura dell’otium, del riposo volto alla riflessione, allo studio, alla contemplazione. Rapporto diverso, quindi, da quello che instaura la casa rurale, altra forma diffusa di relazione diretta tra edilizia abitativa e natura, che è invece principalmente produttivo, di sfruttamento. dato che condiziona la funzione è costituito dalla figura del committente, il referendario apostolico Paolo Almerico, figura di prelato colto, intellettuale e letterato. Ne risulta un programma di relazioni tra le parti dell’edificio dove l’istanza funzionale non è separabile da quella simbolica.
La firmitas. Dal punto di vista della costruzione il programma è altrettanto chiaro: non possono che essere utilizzate le tecniche tradizionali disponibili, legate alla struttura muraria continua o alla struttura trilitica (parti portanti) e alle coperture spingenti a volta, a cupola o semplicemente appoggiate come travi e capriate (parti portate). L’esteso uso della parete muraria condiziona la geometria dell’edificio: l’organizzazione per setti murari costringe ad un rapporto di necessità strettissimo tra la parete portante (che è anche chiudente) e la coperture portate. Lo studio statico dell’organismo risulta dunque non isolabile da quello distributivo.

Progetto Palladio Digitale

La venustas, problema delicatissimo per essere il periodo nel quale Palladio progetta un momento di transizione nel quale si instaura un rapporto tutto particolare con l’antico. Le componenti del programma “espressivo” della villa palladiana sono molteplici: da una parte líistanza di dare dignit¦ allíedificio utilizzando le forme rintracciate nelle testimonianze dell’antico, secondo il disegno, che Palladio persegue costantemente, di dare un volto nuovo agli edifici della nobiltà colta veneziana che ancora non possiede segni attraverso i quali autorappresentarsi. Non possono che rivelarsi inadeguati alle esigenze della committenza tanto il tipo di edificio derivato dalla “barchessa”, la residenza del piccolo proprietario terriero veneto con semplice copertura a tetto, quanto il tipo della villa-castello formatasi nel Quattrocento (Villa Porto-Colleoni a Thiene; Villa Giustinian a Roncade) ed ancora in uso ai tempi di Palladio. Ma qui più che altrove, cogliendo l’occasione di rispecchiare il carattere di una committenza allo stesso tempo intellettuale e religiosa, insorge l’istanza a fondere elementi di un edificio religioso legato alla storia (il tempio) con le forme di un edificio civile (la residenza di campagna). Si tratta di un processo critico complesso per le scelte da operare e perchè in realtà Palladio, come è noto, opera su materiali da tempo detratti dalla storia. Egli non vive la prima età della riscoperta dell’antico, quando con entusiasmo si cominciavano a studiare le tracce lasciate dal mondo classico. Opera, invece, su un corpo già consolidato di nozioni, riflessioni, conoscenze: conosce a fondo Vitruvio e i trattatisti rinascimentali, ha acquisito e fatto uso di un patrimonio di studi ormai consolidati. Opera, inoltre, all’interno di una sorta di fertile contraddizione tra fonti dirette e fonti letterarie: il trattato di Vitruvio trae origine per larga parte dallíantichità greca, mentre Palladio in realtà studia ed opera sull’antichità romana. Contraddizione che si manifesta appieno quando gli vengono commissionate le illustrazioni al testo antico (un testo letterario del I secolo a.C. privo, com’è noto, di commento grafico). Questa condizione di interprete costretto a fondare le sue deduzioni su fonti malsicure pone Palladio in una posizione particolare nei confronti dell’antico: non già quella dell’archeologo o del filologo, ma dell’architetto, nel ruolo fecondo di chi è costretto a risalire processualmente alle origini delle forme architettoniche, ad interpretare “criticamente” gli esempi antichi, ad “inventare” nuove varianti ai tipi tramandati. Inventare nel senso etimologico di invenire, dunque trovare, incontrare, scoprire (imbattersi, in un certo senso), dove l’inventio è più ritrovamento critico che innovazione programmatica.
Cerchiamo di ricostruire, interpretandola strumentalmente, la genesi di Villa Capra. Per prima cosa vengono tracciati due assi. Gesto fondamentale di orientamento che permette all’uomo di orizzontarsi rispetto alla natura (al sole, alla campagna, alla vegetazione). Sono gli stessi gesti elementari di fondazione, ripetuti per gli edifici come per le città. Il tracciamento dei due assi di orientamento è seguito dal disegno del recinto quadrato, atto elementare di appropriazione dello spazio. L’edificio deve essere rivolto verso il paesaggio per permettere la contemplazione della campagna circostante: viene tracciato un sistema ordinatore di altri quattro assi, secondo due direzioni, che proiettano l’edificio all’esterno; la contemplazione viene tradotta in termini architettonici, attraverso l’idea del pronao ripetuto sui quattro lati.
Palladio stabilisce una gerarchia tra le parti:
– il perimetro quadrato, limite individuato da linee che dividono l’architettura dalla natura, l’interno dall’esterno;
– la serie dei vani perimetrali ripetuti lungo il perimetro, alla periferia dell’edificio;
– il nodo spaziale, il grande vano centrale, fondamento e cuore dell’edificio, espresso attraverso la forma circolare.
Il tipo si comincia a tradurre in un programma di assi, linee, vani attraverso riflessioni che abbiamo esposto in astratto, ma che in realtà, nella mente dell’architetto, non sono scindibili da ragionamenti costruttivi, funzionali, espressivi: dalla concretezza muri e delle volte. Ne deriviamo una considerazione che svilupperemo ampiamente in seguito: la geometria non determina, ma interpreta ed esprime la vita dell’edificio. Le componenti dell’organismo hanno tra loro un rapporto di necessità intrinseco, secondo una concezione unitaria dello spazio, della struttura, della vita che nell’edificio si dovrà svolgere. Palladio non pensa ad uno schema funzionale da tradurre in architettura: la sua è una totale dell’edificio da realizzare attraverso forme semplici, elementari, dove la forma circolare del nodo spaziale è, coscientemente, leggibile come sintesi perfetta dell’unità dell’organismo perché la circonferenza “avendo le sue parti simili tra loro, e che tutte partecipano della figura del tutto; e finalmente ritrovandosi in ogni sua parte l’estremo ugualmente lontano dal mezo, è attissima a dimostrare la Unità, la infinita Essenza, la Uniformità e la Giustizia di Dio”. Per questo Villa Capra è uno degli esempi di organismo architettonico più chiari: perché è cristallinamente unitario il modo di relazionarsi delle parti con le necessità generali dell’edificio. Dalla iniziale concezione unitaria dell’organismo Palladio ha derivato le considerazioni che uniscono funzione e simbolo: lo spazio centrale è lo spazio della vita, quindi deve essere lo spazio dell’emozione dinamica che si prova entrando
all’interno dell’edificio.” uno spazio domestico, ma anche simbolico, che trascende la pura funzione abitativa. Come la geometria è la rappresentazione formale della regola gerarchica per la pianta, così avviene per l’alzato. Il vano circolare centrale è dominante e quindi a doppia altezza, i vani minori occupano la periferia dell’organismo, sono secondari e “quindi” su una sola altezza: il concetto di centro e periferia, della gerarchia delle parti, informa in modo totale il disegno dell’edificio. E quasi a conservare l’idea leggibile del recinto, della corte originariamente aperta intorno alla quale l’edificio si struttura, il grande vano centrale viene coperto a cupola, simbolo della volta celeste, dello spazio dinamico, aereo, mentre il volume del parallelepipedo che lo circonda simboleggia la base, la terra, la parte statica, materiale dell’edificio. Gerarchicamente il cilindro è la parte più importante, e accanto ad esso si organizzano le parti periferiche, subordinate dal punto di vista funzionale e statico. L’edificio è un organismo perfetto perché ogni parte concorre in rapporto di strettissima necessità statica, funzionale, espressiva a formare un’unità: tant’è che le parti periferiche sono subordinate gerarchicamente anche dal punto di vista del ruolo che svolgono all’interno del sistema statico-costruttivo: la cupola, parte portata, spinge sulle reni, dove viene impostata la capriata, e sui vani periferici (parte portante) destinati ad assorbire, secondo un meccanismo consolidato, le sollecitazioni prodotte dal vano centrale. Anche la capriata, a sua volta, potenzialmente spinge sulla muratura perimetrale (anche se le azioni mutue sono “provvisoriamente”, potremmo dire, eliminate dal tirante) e quindi la funzione dei pronai è allo stesso tempo quella di individuare e rendere leggibili gli assi accentranti dell’edificio, e, contemporaneamente, di reagire alle sollecitazioni ultime trasmesse dalla copertura agli elementi contigui. L’intero edificio poggia infine su un basamento-podio che, oltre a sopraelevare la villa rispetto al terreno, indicandone l’artificialità rispetto alla natura, ha il compito di scaricare sul terreno i carichi delle murature.
E’ riscontrabile, in altre parole, una legge gerarchica comune a tutte le componenti dell’edificio. Nell’utilitas questa legge è riconoscibile attraverso la sequenza: vano centrale di rappresentanza, vani subordinati perimetrali. Nella firmitas lo stesso programma funzionale coincide in una gerarchia statica: parte portata (la cupola spingente), vani perimetrali che sostengono questa spinta, pronai che raccolgono la spinta residua delle coperture e la contrastano, basamento. Utilitas non significa quindi dare risposta alle funzioni in modo meccanico e utilitaristico: quella di Palladio è uníidea umanistica di funzione, legata al modo con cui l’uomo è destinato a vivere lo spazio, che procede non attraverso strumenti puramente logico-funzionali ma fondamentalmente emotivi. Si veda, come lampante dimostrazione, il ruolo assegnato alle scale interne. Villa Capra è una particolare interpretazione della villa e, ovviamente, non l’unica possibile: in molti edifici di questo tipo, a volte anche ville palladiane, la scala ha una funzione importante, costituisce il cuore stesso dell’edificio che indica l’idea di continuità dello spazio centrale del piano terreno con il resto della casa. In questo caso il programma Ë diverso: lo spazio simbolico al centro dell’edificio deve essere di chiarezza assoluta, non disturbato da elementi accessori. La scala ha quindi un ruolo meno importante di quanto la sua funzione richiederebbe, un ruolo del tutto subordinato: il programma dell’utilitas è condizionato dalla più generale visione del “funzionamento simbolico” dell’edificio.
Anche se il problema dei due vani angolari, che risulterebbero dall’applicazione meccanica della geometria, non può che essere risolto nella fusione di due vani, ottenendo vani gerarchizzati, l’impianto rimane, tuttavia, orientato dai due assi di percorrenza che organizzano due fasce laterali (quasi la fascia di pertinenza di una strada urbana) che generano, come nei tessuti urbani di case a schiera, un’anomalia sugli angoli, dando luogo ad una pianta “incidentalmente” asimmetrica. L’interpretazione di questo edificio svolta con gli strumenti dell’architettura, riconoscendo la fondamentale unità dell’organismo, è diversa dall’interpretazione dello storico dell’arte: se si osservano gli schemi interpretativi di R. Wittkower delle ville palladiane si rileverà una diversa lettura, legata alla forma visibile che l’edificio ha assunto nella costruzione: da storico, riflettendo sugli esiti, Wittkower riconduce questo edificio nel filone degli organismi monoassiali, secondo lo schema comune che dovrebbe informare tutte le ville palladiane14. In realtà, riguardato sotto il punto di vista della “matrice” formativa che presiede alla formazione dell’organismo, esso possiede due assi di simmetria intersecantesi nel polo dello spazio centrale, con vani perimetrali di carattere rigidamente seriale, gerarchizzati unicamente allo scopo di risolvere il problema dell’accesso al vano angolare. Anche la posizione delle aperture di porte e finestre, distribuite in “infilata” secondo assi contemporaneamente di percorribilità secondaria e di continuità percettiva, conferma la legge generale di isotropia. In che modo quello che sembra essere esclusivamente il portato “necessario” delle scelte che riguardano l’organismo riesce a rendere leggibili i contenuti dell’edificio? Si immagini di sovrapporre alla sezione il prospetto: la facciata (dove sono anche rappresentati i diversi ruoli delle parti di edificio rispetto alla verticale, alla forza di gravità: basamento, elevazione, unificazione, copertura) corrisponde esattamente, ma, si badi, non meccanicamente, all’idea di spazio che Palladio voleva rappresentare. Essa non rispecchia il semplice dato costruttivo, ma esprime la vita dell’edificio. Le linee orizzontali (sia la sequenza continua della trabeazione che il marcapiano unificante il piano dí appoggio alla conclusione del basamento) percorrono le quattro facce dell’edificio rivelandone la gerarchia interna coll’informare le pareti murarie e i quattro pronai, indicando la quota di imposta sia del primo piano che dei timpani. Sono segni che esprimono sinteticamente e convenzionalmente (simbolicamente) il carattere dell’edificio, rendendone leggibile l’unità. Si noti come anche il basamento, quasi una fondazione fuori terra, denunci la gerarchia che anima l’edificio, eseguito ad archi e volte in quanto autonomamente stabile e virtualmente precedente la costruzione abitata, come un suolo artificiale sul quale fondare líedificio.
E’ chiaro come tutta l’espressione architettonica corrisponda ad alcuni principi, un ordine generale che denuncia la necessità del rapporto tra i diversi elementi: questa regola, resa leggibile, è lo stile usato da Palladio.
A differenza del modo romantico di intendere lo stile come espressione individuale, lo stile in architettura può essere quindi definito come la scelta dei principi che coordinano l’atto costruttivo dell’artefice. E’ quindi un principio molto diverso, ad esempio, da quello che contempla l’uso personale di un repertorio.
In fase di coscienza critica la nozione di stile prevede, nella mente dell’artefice, una conoscenza degli elementi e della loro relazione reciproca (struttura) talmente profonda da consentire un uso del linguaggio individuale eppure aderente alla processualità della realtà costruita. La riconoscibilità individuale dello stile, tutt’altro che condannabile, è comunque data dalla inevitabile frequenza di certi elementi e dalla ripetizione di alcune strutture tettoniche sperimentate. E se in altre arti può esistere una relativa coincidenza tra poetica e stile, questo non può verificarsi in architettura: dove nelle arti figurative lo stile riguarda la rappresentazione, in architettura esso riguarda la costruzione. Lo stile per l’architetto deve essere generalizzabile, deve corrispondere appunto ad un modo universale, trasmissibile e leggibile, di coordinare la progettazione. In questo l’architettura è diversa dalle arti visive: le altre arti rappresentano o interpretano, in diverse forme, la realtà; l’architettura è la realtà. Da questa considerazione deriva larga parte delle riflessioni che verremo sviluppando nel seguito.

RIPENSARE IL CASILINO 23

workshop

RIPENSARE IL CASILINO 23
WORKSHOP INTERNAZIONALE DI RIPROGETTAZIONE URBANA

ASSOCIAZIONE CULTURALE CASALE GARIBALDI
Facoltà di Architettura “Valle Giulia”
S.A.C. – Corso di Laurea in Scienze dell’Architettura e della Citta’
Laboratorio di Progettazione 2A, Prof. G. Strappa A.A. 2009/2010
Con il Patrocinio della Consulta dei Beni Culturali dell’Ordine degli Architetti P.P.&C. di Roma e Provincia

Giovedì 17 giugno ore 9,00
– Presentazione del workshop
– Lavori dei seminari
Venerdì 18 giugno h. 9,00
– Lavori dei seminari

Dal Casilino 23 a villa de Sanctis
Venerdì 18 giugno 2010, ore 18.00
ASSOCIAZIONE CULTURALE CASALE GARIBALDI
Via Romolo Balzani, 87 (Villa De Sanctis) Roma
Saluti: Giammarco Palmieri (Presidente, Municipio Roma 6)
Sandro Sanguigni (Assessore all’urbanistica, Municipio Roma 6)
Pino Bendandi (Presidente Associazione culturale Casale Garibaldi)
Coordina: Giuseppe Strappa (Presidente del corso di Laurea in Scienze dell’architettura e della città, Facoltà di Architettura “Valle Giulia”)
Intervengono: Marco Corsini (Assessore all’urbanistica, Comune di Roma)
Francesco Coccia (Direttore Dip. XVI – Politiche per lo sviluppo e il recupero delle periferie, Comune di Roma)
Daniel Modigliani (Dirigente ATER, Comune di Roma)
Tom Rankin (Coordinatore California Polytechnic State Institute Rome Program in Architecture)
Alessandro Camiz (Direttore del seminario “Architettura e Città“)
Paolo Carlotti (Direttore seminario, Laboratorio di Progettazione 2)

Ingresso libero, la cittadinanza è invitata
A cura di:
Alessandro Camiz

alessandro.camiz@uniroma1.it
3388713648 Lpa
Laboratorio di Lettura e Progetto dell’Architettura

V. anche
Camminare Roma
X Uscita 17 Giugno 2010

OSTIA MODERNA

 

ostia-colonia

di Giuseppe Strappa

Ostia, la città interrotta, in «La Repubblica» del 20 maggio 1994
Ostia vista dal mare.  L’orizzonte  è occupato quasi per intero  dalle sagome di casermoni senza volto, figli del   boom economico degli anni ’60. Edifici generati  senza amore,  condannati ad affollarsi confusamente  lungo una  spiaggia  un tempo bellissima.  La metropoli  non ha rovesciato su queste coste  solo i liquami che hanno  avvelenato  il mare; ha vomitato qui anche milioni di metri cubi di cemento che hanno trasformato una delle città balneari più singolari  d’Europa in una periferia desolata .
Al centro  della massa informe,  appena sopra  la linea d’acqua ,  si scorgono  tuttavia le  tracce di un’edilizia dignitosa  raccolta intorno alla sagoma della chiesa Regina Pacis  , ultimi resti   della stagione  che vide Ostia crocevia   di un originale  percorso verso l’architettura moderna interrotto dal cinismo di chi ha saccheggiato per decenni queste coste.
Volgendo lo sguardo un po’ a nord , dove l’edilizia più recente e volgare domina incontrastata,  emergono dal caos  edilizio del lungomare Toscanini , inaspettate  come un’apparizione ,  le sagome nettissime e tutte uguali   dei dormitori della colonia  Vittorio Emanuele III.  Volumi semplici come giochi o disegni infantili, architettura ridotta alla sua essenza: le pareti nude  increspate da rari ma meticolosi dettagli, le finestre  regolarissime, il semplice tetto a due falde, i comignoli.
L’ elementare purezza  dei volumi rimanda ad immagini consuete e lontane,  alla  pacata allegria di quelle costruzioni  balneari tra le due guerre ,un po’ nude ma  ravvivate da  tende a grandi strisce bicolori , alle  file di cabine , a sereni viali di palme. Eppure quella della colonia non è un’architettura di “intrattenimento”: troppo rigida e forse un po’ sgradevole, apparentemente priva di slanci, quest’architettura rinuncia ad ogni espediente accattivante a  favore della delicata, enigmatica poesia dell’elenco.  Come in un quadro di Carrà , il suo “realismo magico”  deriva dalla  laconica parsimonia dei mezzi espressivi impiegati.
La progettazione di questo “ospizio marino” del 1927 deve essere stato un arduo esercizio di rigore per il suo  architetto Vincenzo Fasolo, virtuoso del disegno (i suoi allievi  ricordano ancora ammirati  le complesse piante disegnate alla lavagna  con ambedue le mani) e acrobatico interprete  degli stili storici la cui versatilità è testimoniata ,tra l’altro,dal  neobarocco liceo Mamiani in viale delle Milizie e dal pastiche  medievaleggiante della caserma dei  Vigili del Fuoco in via Marmorata .
Della colonia  Vittorio Emanuele III sono ora, finalmente,iniziati i restauri delle opere esterne, in attesa dei molti milardi necessari a completare anche l’interno. Non è dato sapere quando nè, soprattutto, come finiranno questi lavori. L’architetto Luigi Ventura Piselli , che cura la difficile impresa  con la collaborazione dell’architetto Valerio Andronico, assicura che verranno  rispettati integralmente sia i prospetti dell’opera che le strutture interne,  compatibilmente con le nuove funzioni che il grande  complesso dovrà ospitare :un centro anziani,case-famiglia con alloggi indipendenti per  giovani disadattati, mensa ,centro culturale , biblioteca  e ,all’esterno ,orti per anziani e campi sportivi. Tuttavia  anche qui compariranno quelle  terribili scale esterne in metallo imposte dai Vigili del Fuoco  che hanno già deturpato molti edifici pubblici romani .Si spera che sia la sola violenza che  questo insolito  edificio , abbandonato dalla storiografia di architettura ,dovrà subire.
La vicenda   di questa costruzione  è un esempio di come nell’avventura  del  patrimonio edilizio di Ostia moderna gli edifici migliori escano regolarmente malconci .  Destinato al recupero di bambini  affezioni polmonari , l’edificio fu progressivamente abbandonato col regredire della frequenza del male fino a quando si decise di destinarlo ad altro uso. I geometri del Comune incaricati dei rilievi che nel 1983 fecero irruzione nell’universo segregato delle poche, operose suorine rimaste raccontano la sorpresa di aver trovato gli interni dell’edificio fermi agli anni Trenta, intatti negli arredi originali, con i tavoli  in massello  lucidati con cura e i bagni ben costruiti in perfetto stato di conservazione . Solo all’esterno le ingiurie inevitabili della salsedine avevano provocato qualche ferita.  Poi, nel breve intervallo che ha preceduto i lavori  di ristrutturazione, lo sfascio. Occupato e devastato dai baraccati, territorio di conquista frammentato in possedimenti autonomi occupati da USL,  Vigili Urbani , scuole , l’ex colonia  è giunta   in stato di pietoso degrado ai lavori di restauro.
Ma non solo sul lungomare si stanno eseguendo lavori. A piazza della Posta si restaurano (anche qui con molta lentezza) quella “ricevitoria postelegrafonica”  inaugurata nel 1934 che rappresenta forse il gioiello di Ostia Moderna. Nella tranquilla scacchiera della cittadina  l’immagine folgorante  di un edificio dalle forme nuovissime arenato sul litorale   riportava le suggestioni del nuovo mondo della velocità e delle comunicazioni   nelle tranquille sabbie del Lido .Le cure  filologiche che  l’arch. Marina Del Bufalo  dedica all’edificio, sono indicative sia della nuova sensibilità  per i problemi del patrimonio storico da parte del Ministero delle Poste , sia della nuova attenzione per il suo autore Angiolo Mazzoni, architetto-funzionario delle Ferrovie di Stato e   protagonista di primo piano dell’effimera ventata dell’architettura futurista ,del quale studi recenti  vanno  riscoprendo il valore .
E tuttavia , a fronte di  qualche timido segnale che fa sperare  in una riscoperta del fascino  del Lido di Roma, in una considerazione meno distratta della sua vocazione tradita, stanno i tanti guasti irreparabili dell’edilizia recente.
Triste destino di Ostia decaduta, degradata a  periferia e  abbandonata alla sua sorte  di frammento segregato  di città  (nessun  collegamento moderno integra ancora la  primitiva linea ferroviaria ,  alleggerendo   il fiume di auto riversato dalla Colombo e dalla via del Mare).
E mentre non si è ritenuto di  costruire   la chiesa di S. Maria di Bonaria secondo il disegno solare  di Berarducci, Monaco e Rinaldi, opera che poteva costituire, nel panorama della nuova Ostia, una   testimonianza di ottimo livello della cultura architettonica  alla fine degli anni ’60,   si è realizzato  di recente , verso Castelfusano ,  il  verde sombrero  che copre il  nuovo,   “Palazzetto delle arti marziali” . Infelice testimone dell’imbarbarimento di un  costume edilizio che ha  sostituito   al raffinato   razionalismo delle case di Libera e al brio delle ricerche di Marchi   lo stile neocaprese   e  il moresco di cartapesta delle ville dove fumano instancabili  barbecue o  il kitsch senza volto delle discoteche nei paradisi delle  nuove maiemi.

La città a pezzi

romaest-200x200

di Giuseppe Strappa

in «AR» n° 87/10 gennaio-febbraio 2010

– Mi sembra, prima di tutto, importante sottolineare come l’apertura di questa nostra festa dell’architettura sia iniziata invitando non un’archistar, come qualcuno si aspettava, ma un architetto appartato e fuori moda come Paolo Soleri che ricerca ancora un’alternativa alla spettacolarizzazione del nostro mestiere e, a novant’anni, ci ha trasmesso, con pacatezza, alcune tra le cose più interessanti, originali, e lucide che io abbia sentito in questi ultimi tempi. Credo che questa scelta possa essere di buon auspicio perché la nostra iniziativa trovi una propria strada originale tra le tante kermesse di architettura che ormai proliferano un po’ dovunque.
Roma città plurale: a me sembra che il titolo di questo forum dia adito a diverse interpretazioni, qualcuna fuorviante. Suggerisce, ad esempio, l’idea di un organismo urbano del quale noi cogliamo aspetti diversi e particolari, un organismo fondamentalmente unitario, secondo un’interpretazione che si potrebbe inserire nel grande flusso della tradizione romana della città frammentata, ma unita da una forma generale comune e condivisa. Un’interpretazione che rimanda alle metafore paradossali del tardo antico: Roma come casa che contiene molte città, dove l’immagine organica dell’abitazione esprimeva la visione della forma capace di contenere e, insieme, dare senso al molteplice, alle singole parti divise. Ma anche quella della metropoli contemporanea, che si vorrebbe incomprensibile e che, tuttavia, in fondo, mantiene una propria organicità strutturale, se solo si volesse leggerla, dove le schegge e i brandelli delle lacerazioni sono uniti dallo scheletro delle grandi infrastrutture, dalle arterie e dalle vene del sistema di percorsi che fanno intuire come il multiforme ed il complesso siano il portato di una nuova unità fluida e instabile, che non riusciamo ancora a definire. Ecco, a me sembra che la Roma attuale non sia nulla di tutto questo, che sia, più che una città plurale, un insieme diviso di città. Forse questa specificità ha origine, almeno in parte, nel piano regolatore del ’62 che ha previsto, soprattutto nell’espansione ad est, una città destinata a crescere attraverso insediamenti autonomi, separati da aree verdi, ma riferiti alla struttura unificante del  Sistema Direzionale Orientale. Noi abbiamo ereditato le rovine di questo piano, siamo orfani di un’idea di modernità che non si è tradotta in forma. Lo SDO non è mai stato nemmeno iniziato, il verde è diventato i prati di pasoliniana desolazione che conosciamo, aree d’edilizia abusiva, di discariche, smorzi, sfasciacarrozze. I quartieri d’edilizia economica hanno elaborato nel tempo proprie forme di autonoma sopravvivenza, a volte anche decorosa, ma estranee alla vita di una città distante e matrigna. “Vado a Roma” dicono i giovani dei quartieri periferici per dire che vanno al centro, dove c’è tutto quello che manca dove abitano: i servizi, i negozi, il divertimento.
Nonostante tutto, sebbene su quello che sto dicendo siano state innescate infinite polemiche, oggi assistiamo ad un’espansione che prosegue ancora, nei fatti, quella stessa linea dissennata, senza nemmeno l’illusione che il fiume di cemento che si sta riversando nelle periferie, possa avere qualcosa a che fare, almeno, con la città proposta dal movimento moderno quasi un secolo fa e che aveva ispirato un piano già ritardatario nel ’62.
Un’espansione che obbedisce, ancora una volta, alla regola di insediamenti autonomi ma, nei fatti, non autosufficienti, che non formano la metropoli contemporanea, ma nemmeno la continuità della città ereditata, separati gli uni dagli altri, come tante isole che si vanno ormai saldando senza che nessun sistema organizzatore, tra tante polarità rimaste nei piani e sulla carta, le possa realmente integrare. Il problema è di ottica, di prospettive: sembra che non sia possibile pensare che per rovine o frammenti. E’ il trionfo del contingente e del casuale, della trattativa tra politica e promoter sui piani e sui progetti. Le proposte di questi giorni per nuove “cittadelle dello sport”, per esempio, prevedono tutte strutture autonome: migliaia di metri cubi di nuove abitazioni con al centro uno stadio di calcio.
Accettando il compito di mediazione che il progetto à chiamato a svolgere, non ci si è mai soffermati sul ruolo che l’architettura potrebbe avere nel ricostruire i pezzi dispersi delle periferie.
Sembra che il dibattito recente sull’architettura contemporanea si sia concentrato piuttosto sul rinnovo del centro storico. Non riesco a capire per quale ragione, quando si parla di architettura contemporanea e di rinnovamento a Roma, si debba parlare inevitabilmente della sua parte storica. Problema che sembra preoccupare, molto più delle periferie, non solo gli architetti italiani, ma anche quelli stranieri. Dalle dichiarazioni rilasciate dagli architetti che hanno frequentato Roma nella stagione recente, emerge come regolarmente il problema del rinnovamento del centro storico appaia il più urgente tra tutti.
Vorrei soffermarmi su questo problema, non perché sia realmente la questione principale, ma perché è lo specchio delle contraddizioni che vive l’architettura romana contemporanea.
Che il centro storico si debba rinnovare è indubbio: il problema è quale tipo di “contemporaneità” noi dobbiamo prevedere per Roma. Dovremmo considerare con maggiore attenzione, io credo, la nozione contemporanea (contemporanea, non moderna) di “tessuto”, nodo centrale dell’architettura romana estendibile, in forme diverse, dal centro storico alle periferie. L’attenzione al tessuto potrebbe essere il motore del rinnovamento e una scelta assolutamente attuale. La tradizione moderna romana andava, infatti, in direzione diversa. Lo stesso Gustavo Giovannoni, nelle sue teorizzazioni degli interventi su Roma,  proponeva esattamente il contrario, la teoria del diradamento, con il monumento al centro ed il tessuto aggregativo di peso trascurabile.
L’importanza della vitalità del tessuto e della sua funzione di lingua comune è una scoperta recente, che risale al dopoguerra. È una scoperta che ci induce a pensare che il bene cui attribuire valore non è solo il monumento (ed estendendo la nozione dal centro all’intera città, non l’episodio straordinario) ma proprio questa radice profonda che dà il carattere all’architettura romana. Una radice che, per intervenire tanto nella costruzione del nuovo quanto nel patrimonio di edilizia storica, bisognerebbe comprendere a fondo e che quasi mai è stata compresa. La quale potrebbe spiegare come i nuovi interventi di architettura “alta”, le opere firmate che dovrebbero dare nuova qualità alla periferia, dovrebbero “derivare” dal tessuto abitativo al contorno.
Nei libri di architettura e in quelli di storia dell’arte ogni edificio firmato da un grande architetto viene interpretato per la sua eccezionalità. Ma basta pensare al palazzo romano per capire come questo non sia altro che l’interpretazione colta di una nozione condivisa di tessuto che costituisce il sostrato indispensabile per comprendere il monumento e per fare architettura. Sono edifici congruenti “necessari”. Basterebbe guardare la pianta dei pianterreno della città di Roma per vedere come tutto obbedisca ad uno stesso modulo derivato dall’abitazione.
Un lavoro utile che potrebbe fare l’amministrazione è ridisegnare, con rigore scientifico, la pianta dei pianterreno della città di Roma. Pianta che potrebbe divenire il palinsesto sul quale ragionare e dal quale trarre indicazioni che, aggiornate alla luce delle nuove condizioni, potrebbero fornire un utile contributo di metodo per progettare il nuovo. Un palinsesto che  andrebbe esaminato non col gusto antiquario del nostalgico che vuole riproporre il passato, ma con gli occhi nuovi e spogli di pregiudizi di chi vede i disastri dei contemporanei e si chiede che cosa, della città umana e vivibile, sia andato smarrito.