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Figure dell’architettura contemporanea

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FACOLTA’ DI ARCHITETTURA “VALLE GIULIA” – AULA 16 – lunedì 9,30 – 13,30

prof. Giuseppe Strappa, prof. Lina Malfona, arch. Livia de Andreis

il Corso di Figure dell’architettura contemporanea (4 CFU) è collocato al primo semestre dell’anno accademico ed è propedeutico, all’interno del Laboratorio di Progettazione 1, al corso di Progettazione Architettonica 1 collocato al secondo semestre.
Il corso si propone di fornire allo studente, nella prima fase di contatto con i problemi della progettazione, una sintesi essenziale dei temi attraverso i quali si configura la disciplina del progetto architettonico e che verranno affrontati nel corso degli anni successivi.
Tale quadro generale sarà fornito allo studente attraverso cicli di lezioni teoriche ed anche, in modo più diretto, attraverso casi di studio scelti tra quelli che illustrano in modo più diretto i problemi che l’architetto deve affrontare nel corso del progetto:

1.    La progettazione come sintesi dei vari aspetti della disciplina architettonica;
2.    l ruolo della tipologia;
3.    I processi di definizione della forma;
4.    La relazione con le preesistenze;
5.    Il rapporto con la storia;
6.    Il rapporto con la scala urbana e territoriale;
7.    La componente tecnica e tecnologica;
8.    I problemi della realizzazione;
9.    La critica dell’architettura contemporanea come componente del progetto.

Uno o più autori od esperti significativi delle diverse discipline presenteranno la loro opera (progettuale, tecnica, critica) attraverso una comunicazione comune ai tre corsi. Ogni intervento sarà inserito all’interno di una lezione nella quale il docente presenterà il tema.

All’interno del programma generale del nuovo insegnamento, questo corso si articolerà in fasi successive che riguarderanno i molteplici modi nei quali l’architettura, pur nella propria essenza fondamentalmente unitaria, si individua.
L’architettura, infatti, non può essere colta da una sola definizione ma è costituita da un flusso di esperienze (spaziali, costruttive, storiche, estetiche) che si raccolgono intorno al nodo del progetto. Queste esperienze risultano frammentate, negli insegnamenti universitari, in un insieme di discipline le quali, tutte, confluiscono nel progetto, ma delle quali lo studente rischia di non cogliere l’aspetto operante. Poiché gli studi di architettura non sono finalizzati solo alla formazione, ma anche all’educazione al progetto (configurandosi quindi la sede di questi insegnamenti più come scuola che come facoltà) riteniamo che allo studente che si avvicina al suo apprendimento debba essere offerta una “sezione trasversale” del problema attraverso un corso che ne illustri, insieme, la fondamentale unità, ma anche la complessità delle componenti. Questo approccio dovrebbe essere diretto e sintetico, non mediato da una rigida struttura didattica che: un viaggio che, come ogni viaggio, abbia una direzione ed uno scopo, ma includa l’imprevisto, la scelta personale, la scoperta.
Di questo viaggio il corso non vuole essere tanto la guida (ce ne saranno molte negli anni successivi) ma piuttosto un’indicazione e un invito a esplorare.
Intendendo il termine “figura” nel suo senso etimologico (da fingere, plasmare), il corso proporrà tre modi nei quali la realtà costruita, oggetto dello studio, appare e viene letta dal soggetto secondo intenzionalità operative (il progetto):

1.    La figura della trasformazione
2.    La figura della costruzione
3.    La figura del linguaggio

Si cercherà di trasmettere allo studente l’accezione ampia e fertile di queste figure: come la trasformazione, ad esempio, non modifichi solo la realtà fisica delle cose, ma anche il modo nel quale essa si esprime e rappresenta, ponendo il problema di un processo che è, insieme, logico e costruttivo, storico ed estetico.
Il corso tenterà anche di affrontare, ponendo la questione in termini didattici, il problema dell’invenzione, intesa come atto del trovare o dell’incontrare.
I diversi temi verranno affrontati, per questo, attraverso l’impiego di diadi di termini opposti e complementari: non solo la costruzione (da struo, fabbricare per strati) ma anche lo scavo; non solo la trasformazione, ma anche la permanenza; non solo il linguaggio, ma anche la sua assenza nella più generale struttura della lingua (della quale il linguaggio è uso particolare). Non solo il viaggio, quindi, ma anche il suo contrario: la sosta e la riflessione che sono, anch’esse, strumento della conoscenza.
Verranno proposte agli studenti, di volta in volta, letture relative agli argomenti affrontati e visite ad edifici romani, cominciando dall’edificio della nostra Facoltà di Valle Giulia, caso di studio esemplare di mutamento e durata, di tettonica muraria ed elastica, di espressione diretta e mediata.
Lo studente sarà invitato a compilare un “quaderno di viaggio” nel quale prenderà nota, con schizzi e appunti scritti, delle lezioni, conferenze e sopralluoghi proposti dal corso.
L’esame consisterà in una discussione sui temi svolti nel corso sulla base delle note riportate nel “quaderno” presentato dallo studente.

ALFIO SUSINI E I PROPILEI SUL MARE

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di Giuseppe Strappa

in “La Repubblica” del 28/8/1991

Alfio Susini doveva essere un personaggio singolare. Nato al Cairo esattamente all’inizio del secolo da una famiglia di costruttori percorse, giovanissimo, mentre in Europa infuriava la prima guerra mondiale, l’intero Medio Oriente  occupandosi, con erratica curiosità, di monumenti arabi, di dighe, di rilievi di edifici: a Gerusalemme, a Nazareth, a Giaffa.
A vent’anni si iscrisse alla Regia Scuola di Architettura di Roma dove docenti e colleghi impiegarono il suo  talento di  disegnatore in prospettive di maniacale accuratezza. Nella professione si dedicò con discreto successo  all’urbanistica ma la sua produzione architettonica fu  scarsa  e  ancor più scarsa  la fortuna critica.
A quarant’anni  immaginò, tuttavia, un’opera folle e straordinaria,  rimasta ineseguita: una singolare porta di marmo, degna conclusione di quella via Imperiale  che, attraversata la città di pietra dell’E.42, superata la prima “Porta del Mare” e l’immenso arco di 200 metri  sognato  da Libera, avrebbe dovuto incontrare a Castelfusano le sabbie ancora deserte di questo tratto del litorale romano.
Fu appunto nel 1940 che il  Governatorato di Roma incaricò Susini di occuparsi della sistemazione di questo  tratto di costa. All’architetto forse ripugnava, come  avrebbero consigliato la  vicinanza di Ostia e la natura dell’incarico , pensare ad un luogo per la celebrazione di riti balneari   (alle torme di bagnanti riversate dalle corporazioni  di regime, alla ricreazione delle  comitive dei dopolavoro). Eseguì, è vero, un piano generale di banale funzionalità per i servizi  del litorale, ma sembrò dimenticarlo  quando disegnò  i nuovi propilei . Per questi certamente  pensò, invece,  alla pineta misteriosa e disabitata dell’entroterra dove appariva ,  tra   fughe contorte  di fusti   altissimi, il Mediterraneo familiare e lontano. Forse la pineta  gli suggerì  una nuova fuga di fusti marmorei attraverso i quali osservare il mare, una selva di  colonne senza basi né capitelli.
Ma è più probabile che per l’edificio principale, destinato ad una solennità inevitabile, questo italiano d’Egitto, dallo sguardo sognante e un po’ acquoso, avesse immaginato una migrazione, una scheggia dell’E. 42  in costruzione arenata sulle sabbie ancora selvagge del litorale: due torri non alte, una piazza protetta da due ali porticate della quale, nelle splendide  tempere del progetto, rari viandanti misurano l’incongruente vastità . Una replica di frammenti di città straniati dal contesto  urbano : il mondo esangue dipinto da Susini è in realtà  più una trascrizione  che una scrittura. Ma una trascrizione sottilmente ingegnosa che, nella contrapposizione senza mediazioni  di architettura e natura, coinvolge lo spettatore nelle spire di un racconto di calcolata evanescenza. Anziché gerarchi in orbace si immaginano  “alcuni gentiluomini vestiti di nero” aggirarsi tra i colonnati di marmo di  un’architettura silenziosa e semplificata all’estremo, attraverso la quale l’architetto allude ad una città esemplare, freddamente dimostrativa, dove gli edifici rimangono senza aggettivi, rifiutano ogni complessità. Una città  di forme allo stato aurorale,   splendenti nel biancore del marmo contro il cielo blu di Prussia,  assurdamente non inquinate da alcun uso prevedibile,  dai traffici, dagli scambi. Edifici  inospitali, inabitati e inabitabili.
Il paradosso dei propilei che preludono a un immenso vuoto, stretti tra le sabbie e la distesa arborea, crea un’attesa piena d’inquietudine, vicina al “terribile mistero” delle piazze metafisiche. Un racconto nel quale si percepisce, celata, la presenza del tragico senza che il narratore riveli il nodo drammatico della vicenda. Eppure non c’è traccia  in questi dipinti di  quella linea d’ombra che avanza vittoriosa nelle pitture metafisiche:  come in un incubo tenace quella di Susini è una città senza ombre .
Anche la topografia visionaria  che ordina la conclusione  della via Imperiale sognata dall’architetto ha un rapporto del tutto casuale e trascurabile con la realtà. Non è, dichiaratamente ,  un luogo geografico, ma una condizione della mente che possiede  dell’incubo la rovinosa, insondabile coerenza. La porta che Susini immagina, in altre parole, è pura astrazione: non occupa la periferia remota di una città, ma la periferia smarrita dell’Universo.
Un’architettura, la sua,   costretta a difendersi da una natura mitizzata ed ostile (desiderata, e quindi rappresentata, ancora  incontaminata) manifestando per intero la propria artificialità,  esasperando la durezza  di imperativi geometrici rigidissimi e ineludibili contro un mondo vegetale che minaccia la strada verso la città. Strada dalla quale, come in una fiaba, non ci si potrà staccare senza pericolo: per chi percorre il rettilineo in senso inverso , provenendo da Roma ,l’architetto ha previsto nelle piante un faro visibile a distanza, che sembra destinato a rassicurare nella notte più il viaggiatore perso nel mare vegetale che i pescatori della costa.
Ma anche il mondo minerale e civilizzato dall’architettura è tutt’altro che un’isola consolatoria: la piazza è un luogo infinitamente solitario, dove , nella ossessiva regolarità  della pavimentazione , ogni passo sembra produrre una nuova eco . Se si deve cercare nella memoria l’immagine di un contrasto altrettanto inquietante tra il mondo civile ed una natura  insondabile dove tutto può accadere, più che de Chirico, occorre forse ricordare, per certi versi, le scene finali di Un tranquillo week end di paura.  La carcassa d’auto, segno del mondo civile che i superstiti finalmente incontrano al termine del viaggio nell’oscuro continente vegetale del film di Boorman, ha in comune con l’allucinata piazza di Susini l’inquietante qualità di segno, allo stesso tempo, protettore ed infido, di ancora di una salvezza precaria, minacciata .
Architettura sognata e rappresentata, si diceva: relitto della memoria che forse, realizzato, avrebbe deluso le attese. Al contrario di quasi tutti  i luoghi costruiti questi volumi abbaglianti,  abbandonati al limite di spiagge divenute ormai affollatissime, non sarebbero mai divenuti col tempo necessari e familiari perché, senza dubbio, non ci  si attende che una progressiva rovina degli incorruttibili colonnati  renda  più umana quest’architettura  di studiata, immutabile fissità.
Del sogno di Susini  rimane dunque solo un bellissimo racconto notturno che la storia, per una volta forse saggiamente, ha risparmiato alla realtà.

PIRANESI DI LANGENBACH

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di Giuseppe Strappa

Piranesi, Invenzioni al digitale,  in «Corriere della Sera» del 06.03.2005

Gli edifici antichi si accalcano, nell’Iconografia del Campo Marzio disegnata da Giovanni Battista Piranesi, come fantastici, simmetrici microcosmi che prolificano senza relazione tra loro. Ogni occasione offerta dalle rovine reali viene amplificata, moltiplicata a dismisura fino a coprire, per intero, la millenaria ansa del Tevere con un densissimo tessuto d’incredibili invenzioni antiquarie dove l’occhio stupito dell’osservatore non trova mai riposo. Perfino la fonte letteraria diviene pretesto.  Basta un cenno di Plinio ad un orologio solare perché  nasca, a ridosso del mausoleo d’Augusto, un’immaginaria, colossale macchina architettonica.
La Roma settecentesca di Piranesi è, in realtà, un magma visionario dove la fascinazione delle rovine antiche confluisce in paesaggi a volte del tutto inesistenti, come le suggestioni della Mole Adriana e del Tabularium che si fondono nelle “Carceri d’invenzione”.
Ammirato dagli artisti anglosassoni fin dai tempi del Grand Tour, Piranesi è stato, venerdì scorso, oggetto di un’insolita celebrazione all’Accademia di San Luca dove l’architetto americano Randolph Langenbach ha presentato The Piranesi Project, performance basata su proiezioni, citazioni, commenti, concepita nel quadro del Rome Prize Fellowship dell’American Academy in Rome.
La vocazione piranesiana di Langenbach è dimostrata dalle tante vedute d’archeologia industriale prodotte nel corso della sua passata attività di fotografo, dove ombre lunghe di pilastri e luci radenti sulle murature sembrano dilatare spazi, alterare prospettive. In un processo inverso alla deformazione della realtà, Langenbach impone ora alle fotografie digitali della Roma contemporanea di coincidere con i disegni d’invenzione piranesiani, facendo confluire in una sola immagine temerarie fughe prospettiche le quali, multiple e astratte, costringono l’occhio e l’intelligenza a smentirsi reciprocamente. Le ossessive tessiture delle acqueforti, che s’intersecano provocando ombre cupe e si addensano in rovinosi  labirinti notturni, si distendono così in lente diffrazioni, si trasformano in forme che alludono alla realtà senza mai riprodurla per intero. L’esperimento, del resto, non poteva trovare terreno migliore del  disegno pastoso delle incisioni piranesiane che si forma come la materia muraria che è chiamato a rappresentare: per strati successivi, ripetute morsure di acido sul rame, sottrazioni violente, come se la figura fosse estratta a fatica da una geologia di segni profonda e  preformata.
Le costruzioni di Langenbach, che non reclamano valore scientifico, forniscono la straordinaria emozione artistica di un completamento dei disegni di Piranesi, come se le settecentesche nebulose di segni, provvisoriamente coagulate  nell’immagine fantastica delle rovine, trovassero oggi una conclusione nella rappresentazione digitale delle murature.
Ma il passaggio del tempo mostrato dalle raffinate dissolvenze, fa anche emergere il progressivo, drammatico distacco della Roma antica da quella contemporanea, il moderno isolamento delle rovine dal proprio tessuto. Estraneo alla classicità razionale e cristallina di Winckelmann che guarda all’arte greca, Piranesi ci ricorda, infatti, un’antichità contaminata dalla vita e dal suo fluire nel tempo, un paesaggio, tutto romano, distrutto nei secoli successivi da quella progressiva monumentalizzazione dell’antico, come ha commentato Giorgio Ciucci, i cui guasti continuano a prodursi  anche ai nostri giorni.
A farci riflettere è, ancora, l’occhio che guarda Roma dall’esterno.  Dell’americano Langenbach, questa volta, che, come in un gioco di specchi, osserva Roma attraverso gli occhi del veneziano Piranesi.

RIDOLFI, IL VILLINO ASTALDI E IL POVERO FOSCHINI

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di Giuseppe Strappa

Il valore di un simbolo, in «Corriere della Sera» del 04.03.2006

Il villino Astaldi, celebrato per la memoria che lo lega alla figura di Ridolfi e mai a quella di Foschini è, oggi, un’opera d’architettura tra le più complesse. E’ il simbolo del passato che ha cessato di fluire nel presente e un viaggio nell’inquietudine della nostra coscienza moderna: non solo una stratificazione che, come un deposito geologico, mostra i traumi delle diverse epoche di formazione, ma anche la rappresentazione, esibita, di una demolizione, di un giudizio su un’intera stagione dell’architettura romana e di una rottura della quale, ancora, portiamo i segni.
Una storia che ha inizio ai primi del’900 con la lottizzazione delle aree comprese tra Villa Torlonia e Villa Borghese dove l’ing. Adolfo Sebastiani decide di costruire due magnifiche ville per le proprie figlie. L’architetto è quell’Arnaldo Foschini (coadiuvato da Attilio Spaccarelli) destinato a svolgere un ruolo decisivo nelle vicende edilizie romane, dalla trasformazione di corso Rinascimento alla presidenza dell’INA Casa negli anni della Ricostruzione. Nei due edifici costruiti tra via Mercadante e via Porpora, Foschini si pone sul solco tracciato dai maestri, dai Koch, dai Calderini. Ma il tradizionale riferimento al rigore dell’architettura civile del’500 diviene meno severo, si stempera nei primi, tolleranti sentori del“barocchetto” che incresperà lo storicismo romano di un gusto pittoresco e lieve, brulicante di sottili estrosità.
Il villino destinato a Valeria Sebastiani, rilevato e completato nel 1923 dalla famiglia Astaldi, viene sottoposto a radicale trasformazione nel 1954. Questa volta l’architetto è Mario Ridolfi, uno dei migliori del panorama romano. Il quale demolisce i volumi dell’attico che concludono l’edificio per costruire un grande piano in calcestruzzo armato, aggettante dal filo dell’edificio. Una nuova costruzione nasce così liberamente, come poggiata, si direbbe, su una sorta di suolo artificiale, su moderne rovine: “completamente staccata – per usare le parole di Ridolfi – e disimpegnata dal resto”, è priva del legame organico che, a Roma, ha sempre annodato alle preesistenze la nuova costruzione.
Per questa sua storia di lacerazioni, il villino Astaldi sembra sintetizzare, in modo esemplare, valori e contraddizioni della vicenda romana moderna, dove la qualità dell’architettura si confronta con la labilità delle regole e sembra divenire incerto, perfino nella coscienza dei migliori, il senso e il carattere della realtà costruita.