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OSTIA MODERNA

 

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di Giuseppe Strappa

Ostia, la città interrotta, in «La Repubblica» del 20 maggio 1994
Ostia vista dal mare.  L’orizzonte  è occupato quasi per intero  dalle sagome di casermoni senza volto, figli del   boom economico degli anni ’60. Edifici generati  senza amore,  condannati ad affollarsi confusamente  lungo una  spiaggia  un tempo bellissima.  La metropoli  non ha rovesciato su queste coste  solo i liquami che hanno  avvelenato  il mare; ha vomitato qui anche milioni di metri cubi di cemento che hanno trasformato una delle città balneari più singolari  d’Europa in una periferia desolata .
Al centro  della massa informe,  appena sopra  la linea d’acqua ,  si scorgono  tuttavia le  tracce di un’edilizia dignitosa  raccolta intorno alla sagoma della chiesa Regina Pacis  , ultimi resti   della stagione  che vide Ostia crocevia   di un originale  percorso verso l’architettura moderna interrotto dal cinismo di chi ha saccheggiato per decenni queste coste.
Volgendo lo sguardo un po’ a nord , dove l’edilizia più recente e volgare domina incontrastata,  emergono dal caos  edilizio del lungomare Toscanini , inaspettate  come un’apparizione ,  le sagome nettissime e tutte uguali   dei dormitori della colonia  Vittorio Emanuele III.  Volumi semplici come giochi o disegni infantili, architettura ridotta alla sua essenza: le pareti nude  increspate da rari ma meticolosi dettagli, le finestre  regolarissime, il semplice tetto a due falde, i comignoli.
L’ elementare purezza  dei volumi rimanda ad immagini consuete e lontane,  alla  pacata allegria di quelle costruzioni  balneari tra le due guerre ,un po’ nude ma  ravvivate da  tende a grandi strisce bicolori , alle  file di cabine , a sereni viali di palme. Eppure quella della colonia non è un’architettura di “intrattenimento”: troppo rigida e forse un po’ sgradevole, apparentemente priva di slanci, quest’architettura rinuncia ad ogni espediente accattivante a  favore della delicata, enigmatica poesia dell’elenco.  Come in un quadro di Carrà , il suo “realismo magico”  deriva dalla  laconica parsimonia dei mezzi espressivi impiegati.
La progettazione di questo “ospizio marino” del 1927 deve essere stato un arduo esercizio di rigore per il suo  architetto Vincenzo Fasolo, virtuoso del disegno (i suoi allievi  ricordano ancora ammirati  le complesse piante disegnate alla lavagna  con ambedue le mani) e acrobatico interprete  degli stili storici la cui versatilità è testimoniata ,tra l’altro,dal  neobarocco liceo Mamiani in viale delle Milizie e dal pastiche  medievaleggiante della caserma dei  Vigili del Fuoco in via Marmorata .
Della colonia  Vittorio Emanuele III sono ora, finalmente,iniziati i restauri delle opere esterne, in attesa dei molti milardi necessari a completare anche l’interno. Non è dato sapere quando nè, soprattutto, come finiranno questi lavori. L’architetto Luigi Ventura Piselli , che cura la difficile impresa  con la collaborazione dell’architetto Valerio Andronico, assicura che verranno  rispettati integralmente sia i prospetti dell’opera che le strutture interne,  compatibilmente con le nuove funzioni che il grande  complesso dovrà ospitare :un centro anziani,case-famiglia con alloggi indipendenti per  giovani disadattati, mensa ,centro culturale , biblioteca  e ,all’esterno ,orti per anziani e campi sportivi. Tuttavia  anche qui compariranno quelle  terribili scale esterne in metallo imposte dai Vigili del Fuoco  che hanno già deturpato molti edifici pubblici romani .Si spera che sia la sola violenza che  questo insolito  edificio , abbandonato dalla storiografia di architettura ,dovrà subire.
La vicenda   di questa costruzione  è un esempio di come nell’avventura  del  patrimonio edilizio di Ostia moderna gli edifici migliori escano regolarmente malconci .  Destinato al recupero di bambini  affezioni polmonari , l’edificio fu progressivamente abbandonato col regredire della frequenza del male fino a quando si decise di destinarlo ad altro uso. I geometri del Comune incaricati dei rilievi che nel 1983 fecero irruzione nell’universo segregato delle poche, operose suorine rimaste raccontano la sorpresa di aver trovato gli interni dell’edificio fermi agli anni Trenta, intatti negli arredi originali, con i tavoli  in massello  lucidati con cura e i bagni ben costruiti in perfetto stato di conservazione . Solo all’esterno le ingiurie inevitabili della salsedine avevano provocato qualche ferita.  Poi, nel breve intervallo che ha preceduto i lavori  di ristrutturazione, lo sfascio. Occupato e devastato dai baraccati, territorio di conquista frammentato in possedimenti autonomi occupati da USL,  Vigili Urbani , scuole , l’ex colonia  è giunta   in stato di pietoso degrado ai lavori di restauro.
Ma non solo sul lungomare si stanno eseguendo lavori. A piazza della Posta si restaurano (anche qui con molta lentezza) quella “ricevitoria postelegrafonica”  inaugurata nel 1934 che rappresenta forse il gioiello di Ostia Moderna. Nella tranquilla scacchiera della cittadina  l’immagine folgorante  di un edificio dalle forme nuovissime arenato sul litorale   riportava le suggestioni del nuovo mondo della velocità e delle comunicazioni   nelle tranquille sabbie del Lido .Le cure  filologiche che  l’arch. Marina Del Bufalo  dedica all’edificio, sono indicative sia della nuova sensibilità  per i problemi del patrimonio storico da parte del Ministero delle Poste , sia della nuova attenzione per il suo autore Angiolo Mazzoni, architetto-funzionario delle Ferrovie di Stato e   protagonista di primo piano dell’effimera ventata dell’architettura futurista ,del quale studi recenti  vanno  riscoprendo il valore .
E tuttavia , a fronte di  qualche timido segnale che fa sperare  in una riscoperta del fascino  del Lido di Roma, in una considerazione meno distratta della sua vocazione tradita, stanno i tanti guasti irreparabili dell’edilizia recente.
Triste destino di Ostia decaduta, degradata a  periferia e  abbandonata alla sua sorte  di frammento segregato  di città  (nessun  collegamento moderno integra ancora la  primitiva linea ferroviaria ,  alleggerendo   il fiume di auto riversato dalla Colombo e dalla via del Mare).
E mentre non si è ritenuto di  costruire   la chiesa di S. Maria di Bonaria secondo il disegno solare  di Berarducci, Monaco e Rinaldi, opera che poteva costituire, nel panorama della nuova Ostia, una   testimonianza di ottimo livello della cultura architettonica  alla fine degli anni ’60,   si è realizzato  di recente , verso Castelfusano ,  il  verde sombrero  che copre il  nuovo,   “Palazzetto delle arti marziali” . Infelice testimone dell’imbarbarimento di un  costume edilizio che ha  sostituito   al raffinato   razionalismo delle case di Libera e al brio delle ricerche di Marchi   lo stile neocaprese   e  il moresco di cartapesta delle ville dove fumano instancabili  barbecue o  il kitsch senza volto delle discoteche nei paradisi delle  nuove maiemi.

ALFIO SUSINI E I PROPILEI SUL MARE

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di Giuseppe Strappa

in “La Repubblica” del 28/8/1991

Alfio Susini doveva essere un personaggio singolare. Nato al Cairo esattamente all’inizio del secolo da una famiglia di costruttori percorse, giovanissimo, mentre in Europa infuriava la prima guerra mondiale, l’intero Medio Oriente  occupandosi, con erratica curiosità, di monumenti arabi, di dighe, di rilievi di edifici: a Gerusalemme, a Nazareth, a Giaffa.
A vent’anni si iscrisse alla Regia Scuola di Architettura di Roma dove docenti e colleghi impiegarono il suo  talento di  disegnatore in prospettive di maniacale accuratezza. Nella professione si dedicò con discreto successo  all’urbanistica ma la sua produzione architettonica fu  scarsa  e  ancor più scarsa  la fortuna critica.
A quarant’anni  immaginò, tuttavia, un’opera folle e straordinaria,  rimasta ineseguita: una singolare porta di marmo, degna conclusione di quella via Imperiale  che, attraversata la città di pietra dell’E.42, superata la prima “Porta del Mare” e l’immenso arco di 200 metri  sognato  da Libera, avrebbe dovuto incontrare a Castelfusano le sabbie ancora deserte di questo tratto del litorale romano.
Fu appunto nel 1940 che il  Governatorato di Roma incaricò Susini di occuparsi della sistemazione di questo  tratto di costa. All’architetto forse ripugnava, come  avrebbero consigliato la  vicinanza di Ostia e la natura dell’incarico , pensare ad un luogo per la celebrazione di riti balneari   (alle torme di bagnanti riversate dalle corporazioni  di regime, alla ricreazione delle  comitive dei dopolavoro). Eseguì, è vero, un piano generale di banale funzionalità per i servizi  del litorale, ma sembrò dimenticarlo  quando disegnò  i nuovi propilei . Per questi certamente  pensò, invece,  alla pineta misteriosa e disabitata dell’entroterra dove appariva ,  tra   fughe contorte  di fusti   altissimi, il Mediterraneo familiare e lontano. Forse la pineta  gli suggerì  una nuova fuga di fusti marmorei attraverso i quali osservare il mare, una selva di  colonne senza basi né capitelli.
Ma è più probabile che per l’edificio principale, destinato ad una solennità inevitabile, questo italiano d’Egitto, dallo sguardo sognante e un po’ acquoso, avesse immaginato una migrazione, una scheggia dell’E. 42  in costruzione arenata sulle sabbie ancora selvagge del litorale: due torri non alte, una piazza protetta da due ali porticate della quale, nelle splendide  tempere del progetto, rari viandanti misurano l’incongruente vastità . Una replica di frammenti di città straniati dal contesto  urbano : il mondo esangue dipinto da Susini è in realtà  più una trascrizione  che una scrittura. Ma una trascrizione sottilmente ingegnosa che, nella contrapposizione senza mediazioni  di architettura e natura, coinvolge lo spettatore nelle spire di un racconto di calcolata evanescenza. Anziché gerarchi in orbace si immaginano  “alcuni gentiluomini vestiti di nero” aggirarsi tra i colonnati di marmo di  un’architettura silenziosa e semplificata all’estremo, attraverso la quale l’architetto allude ad una città esemplare, freddamente dimostrativa, dove gli edifici rimangono senza aggettivi, rifiutano ogni complessità. Una città  di forme allo stato aurorale,   splendenti nel biancore del marmo contro il cielo blu di Prussia,  assurdamente non inquinate da alcun uso prevedibile,  dai traffici, dagli scambi. Edifici  inospitali, inabitati e inabitabili.
Il paradosso dei propilei che preludono a un immenso vuoto, stretti tra le sabbie e la distesa arborea, crea un’attesa piena d’inquietudine, vicina al “terribile mistero” delle piazze metafisiche. Un racconto nel quale si percepisce, celata, la presenza del tragico senza che il narratore riveli il nodo drammatico della vicenda. Eppure non c’è traccia  in questi dipinti di  quella linea d’ombra che avanza vittoriosa nelle pitture metafisiche:  come in un incubo tenace quella di Susini è una città senza ombre .
Anche la topografia visionaria  che ordina la conclusione  della via Imperiale sognata dall’architetto ha un rapporto del tutto casuale e trascurabile con la realtà. Non è, dichiaratamente ,  un luogo geografico, ma una condizione della mente che possiede  dell’incubo la rovinosa, insondabile coerenza. La porta che Susini immagina, in altre parole, è pura astrazione: non occupa la periferia remota di una città, ma la periferia smarrita dell’Universo.
Un’architettura, la sua,   costretta a difendersi da una natura mitizzata ed ostile (desiderata, e quindi rappresentata, ancora  incontaminata) manifestando per intero la propria artificialità,  esasperando la durezza  di imperativi geometrici rigidissimi e ineludibili contro un mondo vegetale che minaccia la strada verso la città. Strada dalla quale, come in una fiaba, non ci si potrà staccare senza pericolo: per chi percorre il rettilineo in senso inverso , provenendo da Roma ,l’architetto ha previsto nelle piante un faro visibile a distanza, che sembra destinato a rassicurare nella notte più il viaggiatore perso nel mare vegetale che i pescatori della costa.
Ma anche il mondo minerale e civilizzato dall’architettura è tutt’altro che un’isola consolatoria: la piazza è un luogo infinitamente solitario, dove , nella ossessiva regolarità  della pavimentazione , ogni passo sembra produrre una nuova eco . Se si deve cercare nella memoria l’immagine di un contrasto altrettanto inquietante tra il mondo civile ed una natura  insondabile dove tutto può accadere, più che de Chirico, occorre forse ricordare, per certi versi, le scene finali di Un tranquillo week end di paura.  La carcassa d’auto, segno del mondo civile che i superstiti finalmente incontrano al termine del viaggio nell’oscuro continente vegetale del film di Boorman, ha in comune con l’allucinata piazza di Susini l’inquietante qualità di segno, allo stesso tempo, protettore ed infido, di ancora di una salvezza precaria, minacciata .
Architettura sognata e rappresentata, si diceva: relitto della memoria che forse, realizzato, avrebbe deluso le attese. Al contrario di quasi tutti  i luoghi costruiti questi volumi abbaglianti,  abbandonati al limite di spiagge divenute ormai affollatissime, non sarebbero mai divenuti col tempo necessari e familiari perché, senza dubbio, non ci  si attende che una progressiva rovina degli incorruttibili colonnati  renda  più umana quest’architettura  di studiata, immutabile fissità.
Del sogno di Susini  rimane dunque solo un bellissimo racconto notturno che la storia, per una volta forse saggiamente, ha risparmiato alla realtà.