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IL PROCESSO DI RIFUSIONE E LA FORMAZIONE DELLA CASA IN LINEA

di Giuseppe Strappa

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Due case a schiera rifuse in via del Babuino a Roma

Nel corso del processo di trasformazione del tessuto si formano le abitazioni plurifamiliari, dove due o più famiglie occupano una costruzione servita da un unico vano scale,  a partire dalla trasformazione di unità unifamiliari esistenti, spesso a schiera.
Le prime forme di plurifamiliarizzazione avvengono per semplice utilizzo del costruito esistente, in condizioni di emergenza dovute alla rapida crescita demografica, dove ogni singolo piano viene occupato da una sola famiglia. E’ evidente il disagio, impensabile ai nostri giorni, di una distribuzione che non permetteva l’isolamento del singolo nucleo familiare.
Presto si sviluppano, tuttavia, nuovi tipi edilizi basati sulla formazione di un vano specializzato adibito ad ospitare la scala comune (vano scala) che distribuisce un appartamento bicellulare per piano. Il vano scale si pone, in questo caso, parallelamente al percorso esteno, addossato al muro centrale “di spina”. E’ evidente come anche questa soluzione presenti un basso rendimento, con una diminuzione della superficie di ciascuna unità abitativa, che risulta meno che dimezzata rispetto allo standard quadricellulare raggiunto dalla casa a schiera matura.
Ma la forma di trasformazione determinante nella formazione della città moderna è quella basata sull’unione di due o più elementi di schiera che vengono uniti (rifuse) a costituire unità di scala superiore.
Se nei tipi più maturi il vano scale occupa parte (o per intero) un vano posteriore delle abitazioni originali, non è raro che, soprattutto nella fase iniziale delle trasformazioni, questo si ponga nell’area di pertinenza, come avviene con grande frequenza in area romana.

E’ evidente come l’innovazione, la formazione di un vano scala comune di distribuzione agli alloggi, contenga il germe di un profondo cambiamento nel tessuto edilizio permettendo che più abitazioni occupino un solo piano.
L’esperienza acquisita attraverso rifusioni operate direttamente sul costruito viene poi riutilizzata anche negli edifici costruiti ex novo attraverso l’acquisizione di nuovi tipi edilizi che verrano impiegati anche quando, a partire soprattutto dal XIX secolo, l’architetto si interesserà al progetto di grandi interventi di edilizia di base (1). La prima e più semplice forma di unione di abitazioni à costituita dalla rifusione dalla semplice acquisizione di superficie abitabile ottenuta annettendo i vani di un’abitazione adiacente.

Questa forma di aggregazione derivata dalla rifusione di elementi di schiera  costituisce la casa in linea, che da origine a tessuti di case in linea, spesso sul perimetro dell’isolato, caratterizzati dall’associazione seriale di elementi plurifamiliari (corpiscala) costituiti dal vano scala e dagli appartamenti che vi fanno distributivamente capo. Si noti, come rientrino nella definizione processuale del tipo anche abitazioni plurifamiliari costituite da un solo corposcala, considerandole case in linea non aggregate.

La nozione di casa in linea deriva dunque da un processo, dall’esperienza abitativa della casa unifamiliare. Questo legame con la consuetudine edilizia, con l’uso e la trasformazione della realtà costruita, costituisce il raccordo con l’innovazione del tipo edilizio successivo: quando la casa in linea viene intenzionalmente progettata e costruita,  si conserva ancora l’eredità della casa in linea ottenuta per rifusione. Ne sono evidente testimonianza i grandi quartieri della Roma postunitaria, criticamente progettati da architetti, dove il tipo vigente (a doppio corpo  di fabbrica strutturale) mantiene il muro di spina centrale derivato, come abbiamo visto, dalla struttura statica della casa a schiera romana. Studi recenti hanno dimostrato

come esistessero, nell’edificazione dei quartieri di edilizia economica tra le due guerre, soprattutto negli anni ’20, tipi in linea consolidati che gli uffici tecnici impiegavano estesamente condizionando anche l’intervento degli architetti più noti. Si veda ad esempio l’attività dell’ICP romano, nel cui sviluppo è ancora leggibile  la nozione di trasformazione processuale dove l’apporto corale dei tecnici e della tradizione costruttiva ha un ruolo più rilevante dell’innovazione criticamente apportata dai singoli progettisti.

La rifusione  delle abitazioni in aggregati plurifamiliari è immediatamente leggibile, anche attraverso la permanenza delle dimensioni delle cellule elementari che determinano la partizione delle facciate e  dimensione dei corpi di fabbrica (2),  esprimendo la vocazione dei tipi più semplici alla convivenza organica, alla formazione di unità a scala maggiore. Vocazione che, progressivamente acquisita e intenzionalizzata, diviene linguaggio cosciente, in un passaggio assimilabile alla transizione dalla lingua solo parlata alla lingua scritta,  permettendo, anche, di acquisire intenzionalmente caratteri imitativi dell’edilizia specialistica.

Come per la linguistica, inoltre, anche in architettura l’osservazione del linguaggio spontaneo originato dalle rifusioni fa nascere l’ovvia constatazione che esso sia originato dalla tendenza naturale dell’uomo ad associarsi in comunità, a comunicare; e tuttavia, come per la linguistica, questo dato, pur evidentissimo, non aiuta che in piccola parte a ricostruire il processo di trasformazione degli edifici e la sua strettissima relazione con le mutazioni processuali del tipo: la ricostruzione deve essere necessariamente  eseguita in modo unitario partendo non solo dalla leggibilità esterna, ma da tutte le componenti che determinano le forme più semplici e spontanee di aggregazione, individuando  tipi matrice,  tipi base e varianti, tessuti  ecc.

NOTE

1.    Si vedano in proposito le osservazioni contenute in : Gianfranco Caniggia, Permanenze e mutazioni nel tipo edilizio e nei tessuti di Roma (1880-1930), in «Tradizione e innovazione nell’architettura di Roma capitale ; 1870-1930)» a  cura di Giuseppe Strappa, Roma 1989.

2.    Corpo di fabbrica é  la porzione di spazio compresa tra due assi longitudinali individuanti la struttura statica a pilastri o murature (corpo di fabbrica strutturale) o le pareti principali che determinano la distribuzione, spesso includenti (ed a volte coincidenti con ) gli elementi statici (corpo di fabbrica distributivo).

Bibliografia specifica sulla casa in linea a Roma:

L. Bascià, P.Carlotti, G.L.Maffei, La casa romana, Firenze 2000, pag. 201 e segg.

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ESEMPI DI AREE NORDEUROPEE

 

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Oud, case in linea a Spangen

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Sharoun, case in linea a Siemensstadt



CASE ROMANE. LA VERA TUTELA E’ LA VITA CHE SCORRE

 

diGiuseppe Strappa

in “Dimore storiche”, 12 maggio 2007

Il processo di trasformazione delle abitazioni, grandi e piccole, del centro storico di Roma, il loro abbandono da parte dei vecchi residenti e l’irruzione progressiva del terziario, costituiscono un danno incalcolabile per il patrimonio storico della città.
I caratteri specifici di una città di secolari stratificazioni come Roma sono dovuti, infatti, non solo ai suoi monumenti più illustri e noti, ma anche, forse soprattutto, al fitto tessuto di edilizia “minore”, specchio del carattere molteplice della vita che si svolge dentro le sue piazze e le sue strade. Un’ edilizia, che ha generato, all’interno della città e nel corso della sua storia millenaria, una lingua condivisa tanto dai grandi architetti quanto dai semplici mastri: lingua colta e “parlato” popolare che concorrono a formare una cultura per larghi versi omogenea, dove la semplice abitazione, il palazzo, il monumento, sono espressione di una comune consuetudine civile. Consuetudine iniziata fin dalla formazione stessa della Roma antica, quando ha preso forma la straordinaria struttura delle insulae, delle grandi abitazioni popolari con cortile legate alle strade della città da botteghe e tabernae al piano terra. Un tessuto scomparso che ha depositato, tuttavia, tracce durature, ruderi trasmessi (quasi un lascito augurale) come potenziali fondazioni sulle quali si sono aggregati e frantumati i microcosmi feudali, intrecciati i percorsi dei pellegrini, edificate le case a schiera che conservavano la geometria modulare delle preesistenze antiche: come da un sostrato geologico profondo, la città morta che giaceva sotto le rovine riaffiorava, potente, trasmettendo i propri caratteri al tessuto urbano che rinasceva.
Da allora le nuove case romane nascono e si uniscono tra loro generando, nel tempo, organismi aggregativi che concorrono alla formazione dell’ organismo urbano rinascimentale e barocco. Organismi, si diceva, cioè strutture dove ogni elemento è in stretto rapporto di necessità con gli altri: Roma non è la somma di tante parti, ma la loro aggregazione e fusione a costituire strutture di grado sempre superiore.
La prima e più semplice forma di aggregazione è costituita proprio dall’unione di semplici case abitate da una sola famiglia che mettono in comune, come per una concorde forma di collaborazione, le due pareti murarie ortogonali all’affaccio su strada dando origine alla casa a schiera, elemento base sul quale la nuova Roma viene ricostruita. La scala edilizia che ne deriva è quella dell’aggregato, che esprime l’iniziale solidarietà tra abitazioni e costituisce il momento di passaggio tra insiemi di edifici e città.
La casa a schiera si sviluppa, nel corso del tempo, per raddoppi di cellule e attraverso la progressiva specializzazione dei vani: al piano terra, oltre alla bottega (o all’atrio), è collocata la scala, il passaggio all’area di pertinenza sul retro, il magazzino, mentre al piano superiore trova spazio l’abitazione propriamente detta, che aumenta il grado di specializzazione con la progressiva moltiplicazione verticale delle cellule e la distinzione della zona giorno dalla zona notte.
Se si osservano con attenzione le facciate dei quartieri del centro storico romano, del quartiere Rinascimento, di Trastevere, del Tridente, il passo delle coppie di finestre mostra ancora la permanenza evidente delle tracce di queste semplici case costruite secondo un tipo pressoché costante dal Medioevo al Settecento.
Anche la forma immediatamente più complessa di abitazione, determinante nella formazione della Roma moderna, è costituita da successive aggregazioni. La casa plurifamiliare è ottenuta dall’unione di due o più case unifamiliari con la formazione di un vano scala comune, dove una o più abitazioni occupano un solo piano. Questa forma di aggregazione, derivata dalla rifusione di elementi di schiera, costituisce la casa cosiddetta “in linea” costruita inizialmente ristrutturando il perimetro degli isolati antichi. Questo legame con la tradizione edilizia, con l’uso e la trasformazione del costruito esistente, costituisce il raccordo con l’innovazione ottocentesca: quando la casa in linea verrà intenzionalmente progettata e costruita, conserverà ancora l’eredità della casa ottenuta per rifusione da esperti maestri muratori. Ne sono evidente testimonianza le case plurifamiliare della Roma di Pio IX e, soprattutto, i grandi quartieri della Roma postunitaria dai Prati di Castello all’Esquilino, progettati ormai ex novo da architetti, dove il tipo vigente mantiene, tuttavia, l’impianto ereditato con la permanenza del muro di spina centrale derivato dal sistema statico-costruttivo della casa a schiera romana.
I grandi, gloriosi palazzi romani confermano questo comune processo, essendo sorti dalla trasformazione di parti di tessuto costituito da case a schiera. Ciascuno di essi finisce per strutturare anzi, al termine del proprio processo formativo, una sorta di tessuto “introverso” nel quale i percorsi delle strade vengono ribaltati all’interno mantenendo gli stessi principi aggregativi delle case da cui derivano. Si veda, tra i tanti, l’esempio di palazzo Lancellotti ai Coronari, nato attraverso successive acquisizioni di case a schiera, iniziate da Monsignor Scipione II Lacellotti nel 1574, lungo via Recta e lungo la via che conduce alla Chiesa di San Simeone. Case che vengono rifuse tra loro e unificate empiricamente da un percorso interno finché due grandi architetti, Francesco da Volterra prima, e Carlo Maderno poi, trasformeranno in edificio unitario un brano di tessuto, unificando le strutture, introducendo il cortile e il principio della parete ritmica in facciata. Se si osserva il fronte principale del palazzo si noterà come il passo irregolare tra le finestre della parte a sinistra del portale mantenga ancora la traccia delle unità di schiera originarie, mentre la parte a destra presenta il passo regolare dell’impianto costruito ex novo.
Altri palazzi, a dimostrazione della poliedricità e ricchezza di questo processo, sfruttano i percorsi sul retro delle case a schiera per favorire un’organica rifusione delle diverse unità, come nel caso delle case che danno origine al primo nucleo di Palazzo Altieri, distribuite sul retro da un percorso che insiste sul vecchio vicolo degli Altieri.
Una solidarietà continua, insomma, di tutto il costruito romano, che costituisce il vero patrimonio da conservare ad ogni costo. Un bene mai tanto a rischio come in questi ultimi anni che, purtroppo, si va rapidamente deteriorando sotto l’aggressione di un consumismo divenuto globale, minacciato da fenomeni di alterazione selvaggia dei quali sarebbe colpevole non esaminare le cause.
Credo che l’origine delle più insidiose tra queste trasformazioni, proprio per le specificità del processo cui abbiamo fatto cenno, risieda nel cambiamento di destinazione d’uso della nostra edilizia abitativa storica. La quale vive e si aggiorna in modo congruente con i propri caratteri originali solo se mantiene la propria funzione di residenza. L’abbandono della residenza, espulsa dal tessuto storico per far posto ad un industria del divertimento sempre più invadente e vorace, è la causa prima, ritengo, della decadenza del nostro patrimonio di edilizia e architettura storiche, della frammentazione della loro solidarietà e organicità. Perché all’interno delle vecchie case a schiera o di edifici abitativi più illustri, gestori di pub e birrerie vogliono oggi ricavare grandi spazi, liberi e fluidi, da arredare alla moda, come negli esempi ammirati sulle riviste. Spericolati geometri, ingegneri, architetti, tra svuotamenti, demolizioni ed acrobazie statiche, contro ogni logica e norma, hanno inventato un vero e proprio metodo di disinvolta decostruzione degli organismi edilizi storici, confidando nell’infinita generosità delle solide mura antiche.
E che il fenomeno invada anche i tessuti di Parigi o Barcellona, infinitamente meno coesi e preziosi, non è certo una consolazione.
Perché gli stessi pub, fast food, ristoranti alla moda che hanno cambiato gli spazi romani tradizionali s’incontrano a Ios, a Ibiza, a Bali. Scompaiono, ormai, le diversità dei luoghi. I vecchi abitanti se ne vanno e, uno dopo l’altro, gloriosi salumieri e antichi librai cedono all’invadenza vorace di nuovi esercizi commerciali che non hanno nulla a che vedere con la vita dei quartieri.
Quanti speculano sulla dilapidazione del nostro patrimonio storico vanno ripetendo che è, questo, l’inevitabile portato della condizione contemporanea. E’ vero il contrario: assistiamo ad una rovinosa regressione, alla formazione di un nuovo territorio barbarico dove spazi pubblici ed edifici, ridotti a merce, si lacerano obbedendo ad una sola, selvaggia brama di appropriazione.
Un processo di dissoluzione del patrimonio di abitazioni storiche che trova, peraltro, i suoi tristi estimatori tra i cultori della complessità caotica della vita metropolitana, del mondo globalizzato che genera un’infinità di architetture tutte ugualmente effimere ed autopubblicitarie. Succede così che il tessuto delle abitazioni romane venga considerato da non pochi critici alla moda un semplice anacronismo architettonico, legittimando, in qualche modo, la sua rovina.
Un’intera civiltà urbana fondata sul modo di costruire le case, trasformarle, unirle e rifonderle a formare gloriosi palazzi, la quale ha richiesto tempi lunghissimi per crescere e formarsi, sta scomparendo in pochi anni sotto i nostri occhi che in realtà, assuefatti a un mondo di immagini spettacolari, sono ormai capaci di riconoscere i valori della nostra eredità storica e artistica solo nei musei o nei monumenti certificati dai media.
Credo che occorra reagire rivendicando, prima di tutto, il mantenimento della residenza nelle abitazioni storiche grandi e piccole, insieme alla conservazione di quel tessuto civile del quale l’architettura è espressione. E’, in questo senso, una grande fortuna che molte grandi dimore storiche romane siano ancora abitate dalle famiglie di chi le ha edificate. Ma, purtroppo, per un grande palazzo mantenuto da un uso appropriato, molti palazzetti e centinaia di case vengono ceduti, trasformati, piegati ad ogni genere di utilizzazione.
Occorrono regole che favoriscano l’aggiornamento intelligente e contenuto delle strutture esistenti, che non consentano l’invadenza delle multinazionali del consumo o le lacerazioni del profitto spicciolo, che, soprattutto, mantengano ai tessuti la loro funzione abitativa, se si vuole fermare il collage eterogeneo e discontinuo di cambiamenti che stanno avvenendo in modo palese o strisciante, attraverso infiniti variazioni delle destinazioni d’uso, nelle abitazioni storiche romane.
La tradizione non è eredità inerte, ma è una scelta e un progetto. E dunque le trasformazioni del centro storico di Roma (ridotte comunque a quelle realmente inevitabili) non possono essere lasciate agli speculatori ma debbono costituire una scelta condivisa di continuità, l’espressione della vita che si rinnova.