PAESAGGIO CON ROVINE

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di Giuseppe Strappa

in “La Repubblica” del 7 gennaio 1994.

Il grande flusso di trasformazioni che la rivoluzione industriale ha provocato nelle maggiori città europee sta portando a riva, in questi anni, i suoi ingombranti relitti. Dovunque, in Europa, le sagome cadenti di grandi coperture metalliche segnano la terra di nessuno delle aree industriali abbandonate, sepolte a ridosso dei gangli nevralgici della città, attorno alle quali scorre, estranea, la vita. L’unità della città tradizionale viene frantumata nei resti dispersi delle infinite attività produttive in disuso, dando vita ad un nuovo paesaggio metropolitano fatto di discontinuità e cesure: instabile, vago, provvisorio.
Anche Roma ha i suoi cospicui paesaggi di moderne rovine. Basti pensare ai grandi serbatoi di archeologia industriale dell’Ostiense, allo straordinario mattatoio di Testaccio di Gioacchino Ersoch, all’ ex Pantanella di Porta Maggiore, dove Pietro Aschieri ha realizzato nel 1929 una delle migliori architetture industriali romane. Ma, al contrario di molte città europee che hanno da tempo colto l’occasione delle aree dismesse per rinnovare interi quartieri, a Roma la cultura del riuso del patrimonio industriale raramente ha trovato terreno fertile. Lo stesso centralissimo  Borghetto Flaminio, occupato per molto tempo da un disordinato agglomerato industriale, costituisce ancora oggi un nodo irrisolto.
In questo quadro la vicenda del complesso della ex Birra Peroni a Porta Pia rappresenta la rara testimonianza del potenziale circolo virtuoso che un coerente intervento di riuso può innescare. Progettato in gran parte, a partire dal 1908, da Gustavo Giovannoni, giovane ingegnere che diverrà uno dei protagonisti della cultura romana tra le due guerre, il complesso contiene un vero capolavoro di architettura nel fabbricato su via Alessandria, potentemente scandito dall’ordine di monumentali paraste intervallate dalla leggerezza di grandi superfici vetrate. Dopo il trasferimento della produzione il complesso rimase  a lungo abbandonato. Solo nel ’93 ne fu completata la parziale riconversione. In particolare il riuso del fabbricato di via Alessandria aveva posto importanti questioni di metodo, costituendo, oltre alla dimostrazione della versatilità dei grandi contenitori industriali, la testimonianza di come la conservazione dei loro valori architettonici non debba contrastare, necessariamente, con nuove funzioni. La trasformazione delle scuderie, destinate a nuova sede della Galleria Comunale di Arte Moderna, veniva terminata nel 1999. Basate su un buon progetto di ristrutturazione redatto dai tecnici comunali, le opere mantenevano il senso e il carattere di un’architettura congruente con gli spazi originali.
Oggi un altro capitolo si aggiunge alla vicenda dell’ ex Peroni, con la rapida conclusione, segno di lodevole efficienza amministrativa, del concorso  bandito dal Comune di Roma per la nuova ala della Galleria nelle aree ancora abbandonate tra via Nizza e via Cagliari. Ma, in questo quadro, non può non essere rilevato come la scelta del progetto di Odile Decq, vincitore per parere unanime di una giuria internazionale presieduta dallo spagnolo Juan Navarro Baldeweg, con le sue lacerazioni di maniera e fluidità mutuate dal più consumato repertorio internazionale, ponga fine all’esperimento del “laboratorio Peroni”. La compiaciuta dissoluzione di ogni vincolo imposto dalle preesistenze, che pure altri progetti presentati (si veda la proposta del gruppo Di Battista) reinterpretavano con rigore e poesia, sembra irridere all’appartata ma originale ricerca di una “via romana” al riuso del patrimonio di archeologia industriale, alla difficile strada della continuità che la vicenda della ex Peroni aveva intrapreso, contro gli spettacolari colpi di scena ormai imposti dai media.

LABORATORIO LPA – INCONTRO CON ROBERTO MAESTRO SUL PROGETTO PER IL CASILINO 23


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Incontro del 18 1 2010 a Roma sul progetto del Casilino 23
Relazione di Roberto Maestro

Ho lavorato con Ludovico Quaroni per un paio di anni dopo il mio ritorno dall’Africa, all’incirca tra il 1963 e il 1965. Avevamo uno studio in via Nizza dove andavano e venivano vari architetti: alcuni come titolari, altri come collaboratori, altri ancora come semplici amici di passaggio, Un periodo molto stimolante e per me formativo.
Quaroni era il contrario di un capo autoritario: era una persona molto intelligente, ma insicura. Aveva in uggia chi lo definiva “maestro del dubbio” perché riteneva che, se era vero che lui aveva dei dubbi, non era vero che li volesse comunicare agli altri. Aveva un’idea della progettazione architettonica come un lavoro di gruppo, dove ciascuno affidato un ruolo diverso. Idea che gli derivava da una sua esperienza nel cinema, dove ognuno fa la sua parte senza sovrapporsi guidato da un regista e secondo una traccia o un soggetto. Lui per certi aspetti si sarebbe Immaginato come soggettista (anziché che regista). Un soggettista pronto a mettersi in discussione e a lasciare spazio alle idee degli altri, anche se più giovani e inesperti di lui. L’ideale per un giovane architetto poco più che trentenne molto presuntuoso, come ero io e con molta voglia di misurarsi sui grandi temi dell’architettura e dell’urbanistica.

Al tempo del progetto del Casilino 23 sperimentammo una sorta di “brain storming” progettuale, Una tecnica in uso negli studi pubblicitari, consistente nel confronto diretto (scontro) tra idee diverse e quanto più contrastanti tra loro, senza seguire una linea precisa.
Avevamo allora discusso e deciso una qualche linea comune? Io ricordo le cose delle quali si parlava quando si parlava di Roma e della sua periferia, A me la periferia di Roma piaceva, invece Quaroni la trovava anonima retorica e, tolto pochi rari esempi, pretenziosa è volgare. Sosteneva che Firenze aveva conservato il suo carattere anche nella periferia, Roma invece no. Il disegno dei quartieri era inesistente: un insieme di architetture dissociate che non riuscivano a creare un luogo riconoscibile.

È in quel clima di critica alla città contemporanea, che nacque l’idea di un quartiere che costituisse fino dal suo disegno di insieme, un segno riconoscibile, di appartenenza a questa città, Si veda a questo proposito il saggio “Com’era bella la città,come è brutta la città “ pubblicato sulla rivista Spazio e Società di De Carlo.
Facemmo dei disegni basati su forme ellittiche e circolari, che non ci convinsero perché le ritenemmo statiche, chiuse in se stesse, Cercavamo forme urbane che proponessero un disegno estensibile alle zone confinanti, una forma dinamica aperta ad aggiunte e integrazioni. Io avevo vinto il mio primo concorso di progettazione con un motto significativo: “antipaese”.
In quegli anni lavoravo contemporaneamente al progetto del terminal per Venezia con un progetto che proponeva “l’ultima parete del canale grande” una parete che si apriva sulla laguna con un ventaglio di moli,
Tra Roma, Firenze, Venezia, Tunisi era più il tempo che si passava in treno che al tavolo da disegno. È quando siamo lontani da una città che si riesce a immaginarla e a pensarla in modo sintetico (l’ellisse di una piazza, la rotazione delle gradinate del Colosseo…).

È così che nacque l’idea del quartiere Casilino 23. Un disegno che ricordasse un grande rudere fuori scala, come lo sono certe parti della Roma antica che emergono dalla trama delle palazzine. Oggi il progetto lo leggo così, ma quando si scelse quel disegno non pensavamo certo di ispirarsi alla Roma dei Cesari. Cercavamo solo un segno forte “moderno” che fosse riconoscibile anche dall’aereo (Il satellite venne dopo), Un disegno che giocasse sull’effetto prospettico falsato dovuto alla disposizione a ventaglio di corpi di fabbrica ad altezza variabile. L’importante era non creare ripetizione.
Quaroni sosteneva che la ripetizione serve solo al costruttore per ridurre i costi, mentre la gente vuole una casa che sia diversa, riconoscibile. Vuol abitare in un quartiere diverso dagli altri, da amare e da esserne orgogliosi, come lo è per Trastevere ,i Parioli o San Frediano a Firenze.
Sotto questo aspetto possiamo dire che il Casilino 13 si può ritenere un successo: la gente che ci abita, ci si riconosce. Non sempre capita anche quando gli architetti sono bravi (vedi lo “Zen” di Palermo).

Il discorso potrebbe chiudersi qui. Il nostro è  soprattutto un lavoro al servizio della gente. Ho visitato ieri questo quartiere dopo tanti anni, un progetto nel quale abbiamo realizzato solo il disegno urbanistico, ma che è stato realizzato con pochissime varianti, I progettisti dell’architettonico che hanno seguito le nostre indicazioni in modo intelligente (condividendone gli obiettivi) sono, secondo me quelli che hanno lavorato meglio, Ma il progetto urbanistico era sufficientemente forte per reggere anche variazioni nell’architettura dei singoli fabbricati.
Io preferisco, naturalmente, quel gruppo di case rivestite in cortina di mattoni, contenute in una geometria solida semplice, senza tanti giochi di balconi sporgenti, e con il tetto che segue  un’unica linea di pendenza dall’altezza di un piano a quella massima di otto piani. Averne costruiti di più alti mi sembra sia stato uno sbaglio.

Ritengo comunque che la città sia un organismo vivo difficile da ingabbiare in un disegno definito una volta per tutte. Le variazioni apportate derivano da scelte economiche forse inevitabili. Ad esempio il centro commerciale, posto nel fulcro del “Ventaglio” è stato orientato con il fronte verso il quartiere esterno, molto più popoloso. Così l’attività commerciale interna al quartiere non ha retto la concorrenza. Si poteva evitare forse, che il quartiere perdesse quella vivacità determinata dalla presenza di attività commerciali integrate alla struttura residenziale.
Per il resto il quartiere si presenta bene. È tenuto pulito, la gente si comporta in modo educato, curando i giardini e gli spazi comuni. Io dopo aver traversato una periferia romana fortemente degradata, ne sono rimasto  piacevolmente sorpreso e ammirato. Ma questo è merito dei suoi abitanti che si sono organizzati in difesa del proprio quartiere e di conseguenza della propria città. A questi vanno i miei complimenti insieme agli auguri di successo per gl’ impegni futuri.

Roberto Maestro
Roma 18 1 2010

 

 

 

Plastici dei progetti iniziali


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Una delle alternative al progetto definitivo


Plastico di studio della versione definitiva

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L’ARCHITETTURA AI MONDIALI DI NUOTO

di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del 5.05.09
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Le rovine della mai costruita Città dello Sport disegnata da Santiago Calatrava, abbandonate nei cantieri di Tor Vergata, non saranno un buon biglietto da visita per i prossimi mondiali di nuoto che metteranno sotto gli occhi di 400.000 spettatori e dei media planetari le capacità organizzative della città e la qualità dei suoi caratteri moderni.
Eppure questa catastrofe gestionale, che c’è costata quasi 200 milioni di euro, avrebbe potuto avere qualche effetto positivo. Poteva costituire, in fondo, un modo innovativo e civile di frammentare un solo grande evento in tante opportunità di rinnovo urbano distribuendo gli impianti (e le occasioni d’architettura) nei quartieri e nelle periferie, secondo lo spirito del piano d’emergenza.
Quello che resterà, dopo l’ondata di polemiche su conflitti d’interesse e denunce di “cubature improprie” saranno queste opere decentrate.
Le quali, purtroppo, sembrano annunciare un’ulteriore occasione mancata.
Perché non ci rimarranno nuove, vere strutture integrate nella vita della città, ma microcosmi autonomi del fitness, ampliamenti frettolosi di circoli privati costruiti, a volte, in luoghi di straordinario valore paesaggistico. Come lo Sport Village sulla Salaria, a Settebagni, con i suoi 160 mila metri cubi costruiti nell’area alluvionale del Tevere, o il caso estremo dello Sport Palace sull’Appia Antica, che le bocciature della commissione organizzatrice e della Soprintendenza archeologica non sono riuscite a fermare.
Architetture degli affari, senza un cuore, che sembrano lo specchio di una città che non riesce a guardare al di sopra del contingente, a raccogliere le cose che accadono in un progetto condiviso di rinnovamento.
E sono nuove testimonianze della deriva schizofrenica dell’architettura romana, eternamente in bilico tra spettacolari spot firmati da archistar internazionali e la disattenzione per la qualità diffusa, per le opere che vengono usate tutti i giorni dai cittadini che lavorano, studiano, si divertono, viaggiano, fanno sport.

Viaggio a Sabaudia alla ricerca delle radici

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di Giuseppe Strappa
in «La Repubblica» del 15.8.1995

Sommerso sotto il cielo d’agosto da un turismo che ormai, dietro una stessa cortina di umani arrostiti dal sole e  boutique balneari, unifica il villaggio delle Cicladi, la cittadina della Costa Brava, il porto delle Eolie, si stenta a riconoscere il carattere straordinario di Sabaudia, città silenziosa per vocazione.
Occorre fare qualche sforzo di concentrazione per riconoscere la memoria delle origini, pure ancora evidente, di questa città singolare, amatissima da Pasolini.  Origini che la nostra corta memoria storica associa al volto migliore del ventennio fascista, quello della “redenzione delle terre”, delle città di fondazione, delle bonifiche, ma che in realtà appartengono, se viste nei tempi lunghi delle grandi trasformazioni territoriali, allo stesso ciclo storico che ha portato, agli inizi del nostro secolo, come avverte Braudel, alla bonifica delle grandi pianure del bacino del Mediterraneo, dalla piana di Salonicco, alle aree del Basso Rodano, fino alla Mitidja algerina.
Di questo epocale processo di addomesticazione idraulica delle paludi, Sabaudia, sorta nel ’34 tra due bracci del lago di Paola, sembra coagulare l’immagine più moderna: volumi ostinatamente puri, artificiali, costruiti come per esorcizzare l’antica natura ostile del luogo. Edifici che appaiono nelle foto d’epoca, visti dal mare o dalla maglia regolare dei campi coltivati a grano, come la semplificazione, estrema e trasognata, della città italiana, il trionfo della civiltà sulla natura selvaggia: evocano le architetture che si incontrano nei dipinti di Giotto, Ambrogio Lorenzetti o Taddeo Gaddi.
Gli architetti che la idearono, Cancellotti, Montuori, Piccinato, Scalpelli, non disegnarono un semplice piano urbanistico, ma progettarono per intero la città, la forma nuda degli edifici, il sereno dispiegarsi dei viali. Le abitazioni, tutte a due piani, dovevano essere più dense, ad appartamenti, lungo le strade centrali; quelle più periferiche, per famiglie singole, più rade, a schiera; le altre erano case isolate, a carattere rurale. Il degradare della densità edilizia dal centro verso la campagna esprimeva uno dei caratteri di Sabaudia, città senza mura dove manca il confine netto col territorio retrostante, al quale la lega la rigida geometria viaria dell’Agro bonificato. E l’asse viario sul quale si imposta la città, corso Vittorio Emanuele II, infatti non è altro che la continuazione di una delle direttrici che partono dall’Appia in direzione della costa, la Migliara 53, il cui nome deriva dalle “fosse milliarie” fatte scavare da Pio VI per la sfortunata bonifica iniziata alla fine del ‘700 .
E proprio la Migliara 53, traversate le quinte di verde del parco del Circeo,  incontra la torre in travertino del Palazzo Comunale, con la sua campana di due tonnellate, cuore del sistema di piazze ed edifici pubblici: la piazza  del Comune, circondata dall’albergo, dal cinema teatro, dai negozi; la piazza Circe, destinata in origine alle adunate ed oggi sistemata a parco; l’edificio dell’Associazione Combattenti (oggi Istituto Galileo Galilei).
Architetture non a caso ammirate da Le Corbusier nel suo viaggio in Italia del ’34, che riconducono al centro stesso della modernità apparentandosi, è stato fin troppo spesso notato, al clima mitteleuropeo dei Dudok, degli Oud, dei Gropius. Ma che qui assumono un senso inedito: prive dell’ingegnosità dei modelli nordici (distanti dalle loro macchinose trovate), acquistano l’aria serenamente solare, fragile e incorruttibile allo stesso tempo, delle forme necessarie: non possono esistere, in realtà, che associate al luogo dove sorgono. E così, a differenza di molte città di quegli anni, la presenza dell’antico compare a Sabaudia in forma discreta, antiretorica, celata sotto molti strati di modernità.
Ma per avere un’idea dell’originale organicità di Sabaudia bisogna rintracciare anche altri frammenti, alcuni dei quali autentici capolavori di architettura moderna: la gelida Chiesa dell’Annunziata, posta a fondale di piazza Regina Margherita, col grande mosaico di Ferrazzi incastonato nella facciata di travertino;  le famose poste progettate da Angiolo Mazzoni, in corso Vittorio Emanuele III, lodate da Marinetti per la “policromia di forza e di entusiasmo che invita al colore gli altri edifici di Sabaudia”; gli edifici per l’Azienda Agraria e l’antistante Opera Balilla (oggi Centro Forestale) costruiti da Angelo Vicario in viale Carlo Alberto; l’Ospedale (ora U.S.L.) e  la scuola disegnati da Oriolo Frezzotti in viale Conte Verde.  Per terminare col bel ponte sul lago di Paola   costruito da Riccardo Morandi nel 1962, ultima delle opere notevoli di Sabaudia prima della catastrofe edilizia.
Ma in fondo la nuova città sorta intorno a quella originaria, proprio perché cinica e volgare come ogni periferia del dopoguerra, ha in un certo senso rispettato il nucleo “storico” lasciandolo riconoscibile: a Sabaudia ogni muro, come è giusto che sia, mostra al giudizio del visitatore la sua data.