Se l’altezza non vuol dire qualità

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dI Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 10 giugno 2010

Le recenti dichiarazioni di Alemanno hanno riacceso, in questi giorni, le polemiche sull’opportunità di costruire grattacieli a Roma. E’ stato perfino proposto di indire un referendum che finirebbe per aumentare la confusione su un già tema molto complesso. A cominciare dai termini, non sempre chiari, della questione.
Il grattacielo vero e proprio nasce nell’America del liberismo e della competizione. La sua forma si sviluppa quasi “naturalmente” per densificazione, sotto la spinta economica dello sfruttamento del suolo, cui si aggiunge il significato simbolico del capitale che li ha generati.
E, del resto, il celebre progetto di Wright per un grattacielo alto un miglio, non era, in fondo, che il sogno estremo dell’edificio insuperabile, che non ha concorrenti.
Oggi non c’è metropoli del nostro pianeta, dalla Cina al Brasile, che non abbia il proprio panorama di grattacieli aggressivi che sembrano combattere per la sopravvivenza,
Questo tipo di edifici costituisce, credo, la faccia antiumana della metropoli contemporanea che schiaccia gli abitanti, dove architetture spettacolari e firme illustri organizzano il consenso a grandi operazioni immobiliari.
Di queste cose, a Roma, non abbiamo bisogno. E forse molti milanesi, di fronte alle contorsioni dei nuovi grattacieli di Libeskind e Zaha Hadid guarderanno con nostalgia alla saggezza della Torre Velasca, capolavoro dei BBPR.
Che, infatti, non è un grattacielo.
Perchè costruire in altezza può significare ben altra cosa: non si tratta di misure e dimensioni ma di ruolo dell’edificio rispetto alla città ed al territorio.
Un intero filone di pensiero che percorre il moderno europeo ha dato all’edificio alto forme e valori diversi, positivi, ancora attuali. Come la Città Radiosa di Le Corbusier, ad esempio, che costituiva il tentativo di conciliare le grandi densità abitative con la necessità di preservare la natura, riunendo gli abitanti in edifici alti separati da ampi spazi verdi. Di fronte ai disastri dello sprawl urbano, alla frammentazione del territorio laziale in una miriade di volumi senza senso, ci si chiede se questa non potrebbe essere una strada, se non sia a volte preferibile demolire e concentrare le cubature in pochi edifici circondati da un paesaggio dignitoso.
Potrebbe essere una sfida. Perchè il problema non è l’altezza degli interventi, ma gli interessi che li muovono e la qualità del progetto.

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Caro Giuseppe,

leggo il tuo articolo ALTEZZA NON SIGNIFICA QUALITA’. Finalmente! Sono d’accordo su tutto tranne che sul finale: “potrebbe essere una sfida”. Il desolante livello del dibattito pubblico (riferito dai media e, in particolare dal n° di oggi del Corriere) e la forza d’urto degli interessi in gioco potrebbero farla diventare una sfida molto pericolosa. Specie se affidata ad un farsesco referendum. Temo che vincerebbero i grattacieli.
E’ vero, ci mancavano i grattacieli per omologare anche Roma al resto del pianeta urbano. Così finalmente i turisti romani quando andranno a Seul o a Shanghai si sentiranno a casa, oppure potranno risparmiarsi il viaggio. Non piacciono le periferie? Basta demolirle e sostituirle con qualche grattacielo. Come non averci pensato prima?
Certo, costano di più, molto di più di quanto non possa permettersi l’edilizia sociale; sono poco adatti per abitarci (tant’è che storicamente nascono per altre funzioni); è tecnicamente provato che non fanno risparmiare spazio al suolo; se mal disegnati (v. quelli di Lieberskind a Milano o il cetriolo di Foster a Londra) sfregiano irreparabilmente il paesaggio. Però hanno alcune qualità taumaturgiche: fanno entrare Roma nella modernità (l’epoca che, secondo Scalfari sarebbe tramontata con Nietsche);  segnano il “riscatto” delle periferie; infine fanno guadagnare di più i grandi immobiliaristi. Il recente boom edilizio (frenato solo dalla crisi mondiale), le diecine di asteroidi commerciali atterrati sulle centralità del nuovo piano regolatore non sono bastati. Ora è la volta dei grattacieli.
C’è ancora qualcuno disposto a riflettere seriamente sulla morfologia “necessaria” per una Roma diversa dal resto del mondo, come sono profondamente diverse la sua storia e la sua geografia, perché Roma non diventi quella “città generica” che piace a qualche rinomata archistar?

Con i più cari saluti,

Elio Piroddi

PS l’immagine che segue concludeva un mio seminario del 2006; è una vignetta di Vincino dal Corriere Economia, 11.12.06

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RIPENSARE IL CASILINO 23

workshop

RIPENSARE IL CASILINO 23
WORKSHOP INTERNAZIONALE DI RIPROGETTAZIONE URBANA

ASSOCIAZIONE CULTURALE CASALE GARIBALDI
Facoltà di Architettura “Valle Giulia”
S.A.C. – Corso di Laurea in Scienze dell’Architettura e della Citta’
Laboratorio di Progettazione 2A, Prof. G. Strappa A.A. 2009/2010
Con il Patrocinio della Consulta dei Beni Culturali dell’Ordine degli Architetti P.P.&C. di Roma e Provincia

Giovedì 17 giugno ore 9,00
– Presentazione del workshop
– Lavori dei seminari
Venerdì 18 giugno h. 9,00
– Lavori dei seminari

Dal Casilino 23 a villa de Sanctis
Venerdì 18 giugno 2010, ore 18.00
ASSOCIAZIONE CULTURALE CASALE GARIBALDI
Via Romolo Balzani, 87 (Villa De Sanctis) Roma
Saluti: Giammarco Palmieri (Presidente, Municipio Roma 6)
Sandro Sanguigni (Assessore all’urbanistica, Municipio Roma 6)
Pino Bendandi (Presidente Associazione culturale Casale Garibaldi)
Coordina: Giuseppe Strappa (Presidente del corso di Laurea in Scienze dell’architettura e della città, Facoltà di Architettura “Valle Giulia”)
Intervengono: Marco Corsini (Assessore all’urbanistica, Comune di Roma)
Francesco Coccia (Direttore Dip. XVI – Politiche per lo sviluppo e il recupero delle periferie, Comune di Roma)
Daniel Modigliani (Dirigente ATER, Comune di Roma)
Tom Rankin (Coordinatore California Polytechnic State Institute Rome Program in Architecture)
Alessandro Camiz (Direttore del seminario “Architettura e Città“)
Paolo Carlotti (Direttore seminario, Laboratorio di Progettazione 2)

Ingresso libero, la cittadinanza è invitata
A cura di:
Alessandro Camiz

alessandro.camiz@uniroma1.it
3388713648 Lpa
Laboratorio di Lettura e Progetto dell’Architettura

V. anche
Camminare Roma
X Uscita 17 Giugno 2010

COMMEDIA E REALTÀ – I furbi del mattone alla carica

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 9.12.2004

Qualche anno fa l’idea surreale di costruire una villetta abusiva a Trinità dei Monti sarebbe entrata di diritto tra i grandi miti dell’astuzia metropolitana, sulla scia della truffa fantastica di Totò-Peluffo che vende la Fontana di Trevi al signor Deciocavallo,.
Oggi episodi di questo tipo stanno invece rapidamente scivolando nella realtà quotidiana.  Le oltre duemila domande di sanatoria presentate nel I Municipio sono solo la punta di un iceberg che mostra come la selvaggia trasformazioni del centro storico faccia ormai parte di una consuetudine che sembra legittimare le furbizie più avventurose. Certo, sul patrimonio storico si sono da sempre compiute modificazioni. Ma i dati confermano la diffusa sensazione che una sorta di legittimazione strisciante sia entrata nella mente di chi compie gli abusi, che l’intera edilizia del passato sia percepita come una grande area semiedificata in attesa di completamento. Credo che due siano le ragioni di questo cambiamento che sembra investire la coscienza profonda della città.
La prima è indubbiamente l’effetto dirompente del condono edilizio che non solo rende irreparabili i danni già prodotti, ma inocula la convinzione che nessuna trasformazione sia in realtà proibita: se si legalizzano opere private costruite perfino sulle proprietà dello Stato, figuriamoci se non ci si può costruire sulle proprie. E, infatti, la sanatoria esclude solo gli illeciti estremi, come quelli che comportano rischi di disastri statici e idrogeologici.  Cioè veri reati penali.
Ma, ritengo, esiste una seconda ragione del cambiamento, meno evidente perché indiretta, dovuta al diffondersi dell’idea, sostenuta da illustri esperti, che occorra rivitalizzare il tessuto antico con gli interventi più moderni a condizione che siano di qualità.
Come il condono ha demolito il confine tra lecito ed illecito, quest’idea rischia di minare alla base  la nozione stessa di tutela. Cosa s’intende infatti per qualità? Perfino alla soprelevazione ben disegnata di un attico, sulla base un parametro tanto vago ed elastico, si potrebbe riconoscere qualche legittimità. E perché spazi moderni, pur ricavati da demolizioni di antiche pareti murarie, non potrebbero avere grande valore estetico e quindi dignità urbana?
In realtà questo diffuso modo di ragionare impiega, alla grande come alla piccola scala, categorie di una modernità ancora ottocentesca (l’opportunità estetica, il pittoresco) quando il problema è di tutt’altro tipo: quello di una moderna casualità che sta frammentando la struttura profonda che ordinava in unità gli spazi antichi, li aggregava, divideva, fondeva tra loro in un organismo vitale.
Dobbiamo riconoscere che oggi abbiamo perso l’arte di rifondare i tessuti, i quali sono divenuti, perciò, un bene irripetibile.  E che, nel centro storico, la comprensione operante dei loro processi formativi, la loro difesa da condoni e falsi progressisti, in breve la loro tutela attiva, è l’unico valore autenticamente contemporaneo che la città può esprimere.

Cattedrale di Toledo – il Trasparente di Narciso Tomè

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Narciso Tomè. Trasparente della Cattedrale di Toledo, 1732.

Il Trasparente della Cattedrale di Toledo è l’opera maggiore dell’architetto spagnolo Narciso Tomé (1690-1742).  Realizzata tra il 1729 e il 1732, si può considerare una delle opere più spettacolari del tardo barocco spagnolo.

È un complesso scultoreo in marmo e alabastro situato nel deambulatorio della cattedrale di Toledo, proprio alle spalle del polo archiitettonico dell’altare maggiore. Fu costruito in modo da illuminare il tabernacolo sul lato opposto. Per questo Tomé aprì in questo Transparente, un oculo che facesse penetrare la luce fin sul tabernacolo; evidenziandone il ruolo architettonico, a sua volta questo oculo ricevette una potente illuminazione dagli abbaini e dalle finestre che Tomé realizzò nei muri della parte superiore dell’abside. In questo modo si illuminava  meglio il deambulatorio della cattedrale e il Transparente viene messo in forte evidenza filtrando la luce fino al tabernacolo.

Nuvole scolpite, raggi dorati, angeli in movimento, la stessa luce naturale direzionata in modo calibrato producono un grandioso effetto mistico. I cappelli rossi appesi davanti al Transparente appartenevano ai cardinali che scelsero di essere sepolti in quel luogo.

OSTIA MODERNA

 

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di Giuseppe Strappa

Ostia, la città interrotta, in «La Repubblica» del 20 maggio 1994
Ostia vista dal mare.  L’orizzonte  è occupato quasi per intero  dalle sagome di casermoni senza volto, figli del   boom economico degli anni ’60. Edifici generati  senza amore,  condannati ad affollarsi confusamente  lungo una  spiaggia  un tempo bellissima.  La metropoli  non ha rovesciato su queste coste  solo i liquami che hanno  avvelenato  il mare; ha vomitato qui anche milioni di metri cubi di cemento che hanno trasformato una delle città balneari più singolari  d’Europa in una periferia desolata .
Al centro  della massa informe,  appena sopra  la linea d’acqua ,  si scorgono  tuttavia le  tracce di un’edilizia dignitosa  raccolta intorno alla sagoma della chiesa Regina Pacis  , ultimi resti   della stagione  che vide Ostia crocevia   di un originale  percorso verso l’architettura moderna interrotto dal cinismo di chi ha saccheggiato per decenni queste coste.
Volgendo lo sguardo un po’ a nord , dove l’edilizia più recente e volgare domina incontrastata,  emergono dal caos  edilizio del lungomare Toscanini , inaspettate  come un’apparizione ,  le sagome nettissime e tutte uguali   dei dormitori della colonia  Vittorio Emanuele III.  Volumi semplici come giochi o disegni infantili, architettura ridotta alla sua essenza: le pareti nude  increspate da rari ma meticolosi dettagli, le finestre  regolarissime, il semplice tetto a due falde, i comignoli.
L’ elementare purezza  dei volumi rimanda ad immagini consuete e lontane,  alla  pacata allegria di quelle costruzioni  balneari tra le due guerre ,un po’ nude ma  ravvivate da  tende a grandi strisce bicolori , alle  file di cabine , a sereni viali di palme. Eppure quella della colonia non è un’architettura di “intrattenimento”: troppo rigida e forse un po’ sgradevole, apparentemente priva di slanci, quest’architettura rinuncia ad ogni espediente accattivante a  favore della delicata, enigmatica poesia dell’elenco.  Come in un quadro di Carrà , il suo “realismo magico”  deriva dalla  laconica parsimonia dei mezzi espressivi impiegati.
La progettazione di questo “ospizio marino” del 1927 deve essere stato un arduo esercizio di rigore per il suo  architetto Vincenzo Fasolo, virtuoso del disegno (i suoi allievi  ricordano ancora ammirati  le complesse piante disegnate alla lavagna  con ambedue le mani) e acrobatico interprete  degli stili storici la cui versatilità è testimoniata ,tra l’altro,dal  neobarocco liceo Mamiani in viale delle Milizie e dal pastiche  medievaleggiante della caserma dei  Vigili del Fuoco in via Marmorata .
Della colonia  Vittorio Emanuele III sono ora, finalmente,iniziati i restauri delle opere esterne, in attesa dei molti milardi necessari a completare anche l’interno. Non è dato sapere quando nè, soprattutto, come finiranno questi lavori. L’architetto Luigi Ventura Piselli , che cura la difficile impresa  con la collaborazione dell’architetto Valerio Andronico, assicura che verranno  rispettati integralmente sia i prospetti dell’opera che le strutture interne,  compatibilmente con le nuove funzioni che il grande  complesso dovrà ospitare :un centro anziani,case-famiglia con alloggi indipendenti per  giovani disadattati, mensa ,centro culturale , biblioteca  e ,all’esterno ,orti per anziani e campi sportivi. Tuttavia  anche qui compariranno quelle  terribili scale esterne in metallo imposte dai Vigili del Fuoco  che hanno già deturpato molti edifici pubblici romani .Si spera che sia la sola violenza che  questo insolito  edificio , abbandonato dalla storiografia di architettura ,dovrà subire.
La vicenda   di questa costruzione  è un esempio di come nell’avventura  del  patrimonio edilizio di Ostia moderna gli edifici migliori escano regolarmente malconci .  Destinato al recupero di bambini  affezioni polmonari , l’edificio fu progressivamente abbandonato col regredire della frequenza del male fino a quando si decise di destinarlo ad altro uso. I geometri del Comune incaricati dei rilievi che nel 1983 fecero irruzione nell’universo segregato delle poche, operose suorine rimaste raccontano la sorpresa di aver trovato gli interni dell’edificio fermi agli anni Trenta, intatti negli arredi originali, con i tavoli  in massello  lucidati con cura e i bagni ben costruiti in perfetto stato di conservazione . Solo all’esterno le ingiurie inevitabili della salsedine avevano provocato qualche ferita.  Poi, nel breve intervallo che ha preceduto i lavori  di ristrutturazione, lo sfascio. Occupato e devastato dai baraccati, territorio di conquista frammentato in possedimenti autonomi occupati da USL,  Vigili Urbani , scuole , l’ex colonia  è giunta   in stato di pietoso degrado ai lavori di restauro.
Ma non solo sul lungomare si stanno eseguendo lavori. A piazza della Posta si restaurano (anche qui con molta lentezza) quella “ricevitoria postelegrafonica”  inaugurata nel 1934 che rappresenta forse il gioiello di Ostia Moderna. Nella tranquilla scacchiera della cittadina  l’immagine folgorante  di un edificio dalle forme nuovissime arenato sul litorale   riportava le suggestioni del nuovo mondo della velocità e delle comunicazioni   nelle tranquille sabbie del Lido .Le cure  filologiche che  l’arch. Marina Del Bufalo  dedica all’edificio, sono indicative sia della nuova sensibilità  per i problemi del patrimonio storico da parte del Ministero delle Poste , sia della nuova attenzione per il suo autore Angiolo Mazzoni, architetto-funzionario delle Ferrovie di Stato e   protagonista di primo piano dell’effimera ventata dell’architettura futurista ,del quale studi recenti  vanno  riscoprendo il valore .
E tuttavia , a fronte di  qualche timido segnale che fa sperare  in una riscoperta del fascino  del Lido di Roma, in una considerazione meno distratta della sua vocazione tradita, stanno i tanti guasti irreparabili dell’edilizia recente.
Triste destino di Ostia decaduta, degradata a  periferia e  abbandonata alla sua sorte  di frammento segregato  di città  (nessun  collegamento moderno integra ancora la  primitiva linea ferroviaria ,  alleggerendo   il fiume di auto riversato dalla Colombo e dalla via del Mare).
E mentre non si è ritenuto di  costruire   la chiesa di S. Maria di Bonaria secondo il disegno solare  di Berarducci, Monaco e Rinaldi, opera che poteva costituire, nel panorama della nuova Ostia, una   testimonianza di ottimo livello della cultura architettonica  alla fine degli anni ’60,   si è realizzato  di recente , verso Castelfusano ,  il  verde sombrero  che copre il  nuovo,   “Palazzetto delle arti marziali” . Infelice testimone dell’imbarbarimento di un  costume edilizio che ha  sostituito   al raffinato   razionalismo delle case di Libera e al brio delle ricerche di Marchi   lo stile neocaprese   e  il moresco di cartapesta delle ville dove fumano instancabili  barbecue o  il kitsch senza volto delle discoteche nei paradisi delle  nuove maiemi.