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l’arte della progettazione e l’avvenire delle scuole di architettura in italia

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Universita’ degli studi di Roma “La Sapienza”

Facoltà di Architettura “Valle Giulia”

Venerdì, 18 aprile 2008

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LECTIO MAGISTRALIS

l’arte della progettazione e

l’avvenire delle scuole di architettura in italia

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Prof.Giuseppe Strappa,

ordinario di Progettazione architettonica e urbana

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Il titolo generale di queste lezioni riguarda il ruolo sintetico dell’insegnamento della progettazione.

Non è un titolo neutrale.

Il momento attuale vede anzi, in Italia, una progressiva frammentazione e specializzazione della didattica di architettura, con le conseguenti derive tecniche da una parte, ed artistiche, dall’altra, ponendo quesiti ai quali, ritengo, la riforma stessa dei nostri corsi di laurea dovrebbe dare una risposta.

La tesi di questa lezione è che occorra riconsiderare per intero l’insegnamento della progettazione intendendolo soprattutto nella forma di una scuola.

La scissione cui ho fatto cenno, peraltro, tra le due anime dell’architettura, sintetica e analitica, è parte costituente, da lungo tempo, della pratica e della didattica di progetto.

Questa condizione sembra anzi informare un intero ciclo della storia stessa dell’architettura nel quale possono essere riconosciute due fasi segnate da due opposte condizioni di crisi.

La prima è costituita dalla nascita della grande ingegneria ottocentesca che rivendicava una propria autonomia estetica la quale finiva per relegare il ruolo dell’architetto in uno specialismo comunemente indicato, con una contraddizione terminologica, “artistico”.

Una divisione che non era affatto insita nello spirito dei progressi della scienza i quali sembravano, al contrario, predisporre all’unità delle discipline di progetto.

Io credo che gli architetti non seppero cogliere, allora, le grandi prospettive di reale sintesi artistica aperte dalla comprensione del rapporto tra sapere scientifico e forma architettonica.

Claude-Louis Navier ad esempio, aveva esposto, già nella prima metà dell’Ottocento, attraverso la sua rivoluzionaria raccolta di lezioni di Scienza delle costruzioni un’interpretazione “architettonica” del problema strutturale, legando la lettura della realtà fisica al metodo operativo, la scienza all’estetica.

Anche se sotto il solo aspetto della costruzione, Navier aveva gettato le premesse per distinguere alcuni caratteri fondamentali degli organismi architettonici: la serialità di strutture nelle quali i diversi elementi sono sostituibili senza che cambi il carattere dell’intera struttura, dalla progressiva organicità di altre nelle quali ogni elemento stabilisce con il suo intorno un rapporto di necessità tale che la sua stessa forma e dimensione influenza il carattere dell’intero organismo.

Il termine “congruenza”, impiegato nella soluzione dei problemi iperstatici, legava insieme deformazioni, sollecitazioni e forma delle strutture, ed è lo stesso termine che può essere impiegato per leggere la progressione di organicità nelle architetture, il loro graduale predisporsi alla collaborazione.

La stessa nozione di vincolo, contribuiva a spiegare, in termini logici, uno degli aspetti della nozione di nodo che gli architetti del passato avevano sempre intuito.

Molte delle considerazioni sulla conformità e proporzione tra le parti di una costruzione elaborate per secoli dai trattatisti, trovavano un primo legame, seppure parziale, con la fisica e la matematica, dimostrando come intuizione e scienza potevano divenire due aspetti di uno stesso processo di conoscenza: espressione, appunto, dell “arte della costruzione”.

L’inadeguatezza a comprendere questo momento di potenziale sintesi era, in realtà, conseguenza di una trasmissione dei saperi fondata sulla scissione tra Écoles des Ponts et Chaussées e Academies des Beaux-Arts, portato di una cultura della progressiva specializzazione del lavoro funzionale ai nuovi equilibri sociali ed economici.

Aspetto, quest’ultimo, che Schopenhauer metteva in luce con profetica chiarezza, peraltro, con la pubblicazione del suo “La filosofia delle università” denunciando il ruolo funzionale dell’ insegnamento universitario al potere economico e politico.

Solo un grande, dimenticato architetto e ingegnere romano, Giovan Battista Milani, tradurrà, molto tempo dopo, queste considerazioni in didattica progettuale riproponendo la nozione di organismo come sintesi di strutture collaboranti, come solidarietà tra costruzione e forma.

E, tuttavia, la parzialità delle successive ricerche, non solo tecnico-scientifiche, dimostra come le conseguenze della crisi sia ancora operante, le contraddizioni non risolte.

Questa lunga frattura ha condotto, ritengo, ad una seconda fase di crisi, ancora in corso, simmetrica ed opposta alla precedente, individuabile nell’esaltazione di nuovi specialismi, che inducono alla contemporanea subordinazione dell’intero organismo architettonico alla potenza mediatica di forme elaborate con tecniche analogiche, funzionali al mercato globale dell’immagine.

Il nuovo distacco tra forma e costruzione, il fascino della grafica computerizzata che trascina ad equivocare il mezzo col fine, induce, questa volta, ad esaurire per intero il senso della costruzione nella sua autonoma superficie, proprio quando la tecnica,di nuovo, consentirebbe inediti strumenti di progetto capaci di controllarne, insieme, tutte le componenti. Il risultato è quello di una città dispersa costituita da oggetti non collaboranti, della perdita della nozione di tessuto,

Nell’ansia di immergersi nella contemporaneità, le università hanno coltivato un vero, nuovo genere letterario che sembra produrre una sorta di consenso estetico a questa forma della città contemporanea.

Vorrei dire in proposito, anticipando alcune conclusioni, che forse, al contrario, non bisognerebbe aver paura di introdurre nel nostro insegnamento quel tanto di inattuale che permetterebbe di vedere le cose in prospettiva, favorendo la formazione di una coscienza critica rispetto alle presenti condizioni della città.

In realtà il termine crisi dovrebbe contenere, come indica la sua etimologia, la nozione di critica: la messa in discussione di una realtà in trasformazione che, per ora, sembra ancora non aver luogo.

Si ripropone, ancora una volta, l’inadeguatezza delle università a fornire un’ analisi e un giudizio indipendente dalle condizioni stabilite dal potere. Con la differenza che il potere è ormai costituito da un sistema di mercato sovranazionale nel quale l’ informazione svolge un ruolo fondamentale di mediazione.

Non a caso in molte nostre facoltà vengono proposti come esempi di ricerca progressiva le opere delle grandi firme internazionali, le quali producono, con ogni evidenza, architettura ufficiale. E cioè, per definizione, il contrario stesso della sperimentazione.

Parafrasando una citazione tratta dallo scritto di Schopenhauer sulle università si potrebbe affermare che oggi, di fatto “se un’idea (ma anche un progetto) nega i principi della città contemporanea essa è ritenuta falsa, oppure, anche se vera, è inutile”.

Oggi, in un mondo in convulso e spesso drammatico cambiamento, è invece necessario ripensare in termini liberi e critici la forma dell’architettura, della città, del territorio. Collegandola a necessità reali.

Eppure perfino di fronte alle immense conurbazioni che sorgono nelle aree più povere del mondo, ad esempio, o di fronte alle distruzioni e alle emergenze delle aree di conflitto, l’architetto sembra invece, auto-esonerarsi dal penetrare nella struttura dei problemi, osservare da lontano e proporre distaccate considerazioni estetiche, come isolato in un grazioso salotto.

E veniamo alla nostra situazione.

Non occorre ricordare come nella didattica di architettura italiana la scissione cui ho fatto cenno abbia configurato un doppio binario formativo il quale, originato dalle accademie di Belle Arti e dai Politecnici, giustappone senza fonderli due opposti tipi insegnamento: intuitivo-artistico l’uno, logico-tecnico l’altro.

Una dicotomia che non solo si va accrescendo, ma che si ripropone oggi in modo ancora più chiaro con la formazione di due corsi di laurea paralleli (in architettura e in ingegneria-architettura) che hanno uguale fine ma ambiti culturali assai diversi.

Credo che l’origine di molti dei problemi della nostra didattica progettuale derivi dal fatto che la formazione delle facoltà di architettura ha recepito appieno lo spirito e la logica dell’insegnamento universitario.

L’ università è il luogo dove si insegnano i principi universali di ogni disciplina la quale, per questo, possiede un corpus autonomo di regole e metodi.

La sua origine, va ricordato, è legata alla sabauda legge Boncompagni che possedeva un forte carattere centralista e statalista, carattere che è rimasto nonostante le tante riforme apparentemente autonomistiche succedutesi nel tempo. Al loro interno le facoltà sono, per istituzione, strutture amministrative delegate a coordinare corsi di studio cui afferiscono discipline indipendenti, “liberate” dall’onere dei rapporti reciproci, legate dalla sola affinità scientifica. La ricerca e le relative occasioni di sintesi avvengono invece all’interno dei dipartimenti, in luoghi lontani dalla didattica.

Ma le esigenze dell’insegnamento del progetto vanno nella direzione opposta.

Io credo che l’avvenire dell’insegnamento dell’architettura non risieda nell’affrontare la complessità del mondo contemporaneo inseguendone i frammenti specialistici, come si è ritenuto di fare con la prolificazione delle lauree triennali, spesso statuti spesso incerti e fragili, ma nella rifondazione del centro disciplinare delle scienze di architettura, che non può che essere la sintesi progettuale.

Occorre cioè rifondare una scuola come luogo dove tutte le discipline, pur nella totale libertà di ricerca, collaborino (convergano) ad un comune fine didattico.

La tradizione moderna indica, peraltro, questa direzione, confermata non solo da esempi internazionali come il Bauhaus, ma anche dal dibattito italiano sulla formazione delle scuole di architettura che, profeticamente, educatori come Camillo Boito avrebbero voluto tenere lontane dalla logica universitaria.

La stessa tradizione di Valle Giulia, dalla sua fondazione nel 1921 è stata quella di una scuola dove Gustavo Giovannoni sulla scia delle convinzioni di Boito, proponeva la figura dell’”architetto integrale”, nella quale ogni materia impartita doveva essere finalizzata alla comprensione della realtà costruita e della sua storia, comprensione che per larga parte doveva coincidere col progetto stesso.

Oggi quel tipo di insegnamento non è più attuale.

Non solo per il numero degli studenti che sono passati dagli iniziali 55 a diverse migliaia, ma perché sono cambiate le condizioni al contorno: il mercato del lavoro, la complessità delle tecniche, la divisione del processo produttivo. E, tuttavia, ritengo, rimangono vitali alcuni principi fondanti.

Perché le mie affermazioni non sembrino astratte, vorrei proporre tre argomenti concreti di riflessione su come i diversi ambiti disciplinari potrebbero concorrere, a mio avviso, alla formazione di una scuola.

I materiali e le strutture

Proprio il processo di crescente astrazione del modo con cui viene comunicata l’architettura, insieme alla progressiva specializzazione delle discipline che concorrono al progetto, ha indotto a considerare i materiali, gli elementi, le strutture che danno forma all’organismo architettonico come la conclusione di un processo ideativo, la parte che riguarda la “realizzazione” , la traduzione di un programma in realtà costruita.

La conseguenza è che gli studenti “subiscono” oggi la tecnica costruttiva come un pesante compromesso tra ideazione soggettiva e realtà materiale.

In una scuola di architettura il loro studio dovrebbe indicare come materiali e strutture siano parti costituenti dell’invenzione stessa della forma.

Anzi, se si può propriamente parlare di atto “creativo” nel mestiere di architetto, questo riguarda la scelta del materiale, l’attribuzione (che è frutto della nostra coscienza) di caratteri alla materia, riconoscendone le attitudini alla costruzione.

Presso ogni civiltà la creazione è soprattutto ordinamento della materia operato distinguendone i caratteri con un gesto che è, dunque, fondamentalmente architettonico: la trasformazione del caos iniziale della materia in cosmos, in sistema ordinato di elementi.

Credo che se vogliamo proteggere i nostri studenti dalla cultura delle riviste, insegnare loro a non imitare, ad essere originali, dobbiamo indicargli questa origine, anche fisica, delle cose.

Si pensi, a dimostrazione di quanto detto, al flusso di materiali innovativi che stanno irrompendo nel modo dell’architettura contemporanea (vero caos artificiale che attende di essere trasformato in cosmos) al quale l’architetto ha il compito di attribuire carattere e finalizzazione costruttiva. In modo non molto diverso, a ben guardare, dal primo costruttore che si trovava, all’origine stessa dell’architettura, di fronte alla diversa plasticità della pietra e dell’argilla o all’elasticità dei rami e del tronco d’albero.

E’, in fondo, l’eterna nozione aristotelica di “materia segnata”, che andrebbe riconsiderata in un momento nel quale la ricerca sulle strutture segue ormai una specializzazione estrema, una deriva matematica ed astratta che sembra far perdere, come ci ha insegnato Edoardo Benvenuto, il contatto con la fisicità dei materiali e la forma concreta delle cose.

Credo che dovremmo far comprendere soprattutto ai nostri studenti come l’architettura sia una condizione di precario equilibrio nel grande flusso delle trasformazioni della materia e della storia, e poi riproporre in questa luce l’insegnamento di Mies Van der Rohe che spiegava come “ nuovi materiali, nonché nuovi sistemi costruttivi, di per sé non garantiscono alcuna superiorità. Ogni materiale vale per quello che si sa ricavarne.”

La rappresentazione

Quest’area disciplinare ha sempre avuto, nella Scuola romana, un fondamento critico, a partire dal “rilevamento filologico” di Giovannoni, che prevedeva lo studio “anatomico” dell’organismo costruttivo e il suo collocamento nel contesto più generale dei tipi consolidati, Non a caso nei disegni che ci sono pervenuti di Giovannoni non è possibile spesso distinguere la parte di rilievo dalla ricostruzione per fasi.

E in tempi più recenti i corsi di elementi di architettura e rilievo dei monumenti, confermavano come, almeno nelle intenzioni, lettura e progetto dovessero essere legate nello stesso insegnamento.

Un particolare problema ha sempre posto, sotto questo aspetto, l’insegnamento di disegno dal vero che ha costituito fino a tempi recenti uno strumento fondamentale dell’educazione al progetto.

La sua decadenza negli insegnamenti di architettura è molto precedente all’introduzione del disegno al computer. Nel ’57, in occasione del 1° Convegno dei docenti di Disegno dal Vero, a Firenze, Luigi Vagnetti poneva con molta chiarezza il problema, sostenendo che se il disegno doveva avere solo valore strumentale, sarebbe stato opportuno toglierlo dagli insegnamenti di architettura perché l’abilità manuale che ne derivava poteva essere ottenuta come esito secondario di molti altri insegnamenti.

E tuttavia, notava Vagnetti, alcuni dati della realtà non possono essere indagati attraverso alcuna “scienza del disegno” perché sono legati a fenomeni “la cui percezione ed il cui studio non sopportano il binario di alcuna teoria scientifica”.

Credo che, nell’attuale fase di progressiva astrazione del rapporto tra realtà e rappresentazione, recuperare la relazione diretta tra l’occhio che osserva e la mano che disegna possa essere ancora uno strumento fondamentale di educazione.

Ma va anche compresa la grande utilità didattica delle nuove tecniche dove software innovativi consentono la costruzione diretta della forma, non la sua derivazione da processi simbolici. Un procedimento che consente di superare l’eterno problema della rappresentazione del progetto secondo i piani della pianta, della sezione e del prospetto che, come sa bene ogni docente di progettazione, costituiscono un ostacolo alla trasmissione dell’idea sintetica di forma come aspetto visibile del sistema di relazioni tra spazio e materiali organizzati in strutture.

La storia, infine

Sull’utilità e sul danno della storia per gli architetti si è scritto molto.

Lo stesso Piacentini scriveva che “la storia non può darci suggerimenti per la vita di tutti i giorni”

La salvezza dalla storia (intuizione latente nel pensiero moderno che i grandi architetti del passato, tuttavia, inconsciamente possedevano) consiste nel riconoscere i nessi che individuano nel tempo la struttura processuale profonda e operante dei fenomeni, nel coglierne la capacità di rigenerazione a partire dalle matrici formative.

Questo uso della storia dovrebbe liberarci, auspicabile corollario, tanto dalle letture estetizzanti che hanno contribuito ad immettere la nostra disciplina nel circuito del puro consumo dell’immagine, quanto dalla storiografia intesa come museo, in fondo, davvero poco utile.

Io credo, dunque, che la storia, agli architetti, serva moltissimo. Non la storia consolatrice, quella che Nietzsche definiva “storia monumentale” del passato come modello, ma la storia critica, la comprensione dei processi formativi che servono all’operare

I padri fondatori di questa Scuola insegnavano la storia dei monumenti come riprogettazione.

Vincenzo Fasolo ricostruiva alla lavagna l’essenza degli organismi architettonici spiegandone i rapporti di necessità tra le parti, come costruendoli davanti agli occhi degli studenti. Era storia, la sua, ma anche disegno, strutture, progetto.

E “la storia operante “ di Saverio Muratori come la “critica operativa” di Bruno Zevi possono essere riguardate come diversi aspetti del comune problema di leggere la storia come rivolta al mondo concreto delle azioni umane, stratificazioni di esperienze e sperimentazioni sul modo di costruire e abitare lo spazio.

L’architettura, a differenza delle arti visive, non è solo raffigurazione della realtà: è la realtà, e la sua storia è quella di un flusso d’esperienze che dimostrano come l’uomo abbia cercato di abitare lo spazio riuscendovi, a volte, con sapienza e gioia e come questo sia ancora possibile.

Quindi non solo la storia della personalità degli artisti, non solo quello che è individuale ed unico, ma, soprattutto, se non vogliamo rendere allo studente un’immagine deformata della realtà contemporanea, quello che è generale e tipico.

Non ho considerato, in queste brevi riflessioni, discipline come l’urbanistica, il restauro, il paesaggio, per l’evidente ragione che costituiscono aspetti diversi di una comune disciplina di progetto dove l’oggetto è di volta in volta, la grande scala, l’eredità storica, la forma del territorio. Campi di applicazione che prevedono problemi e tecniche specifici, ma una comune formazione.

Per concludere.

Il progetto è dunque arte: non solo come espressione di un mondo individuale, nell’accezione romantica che da tre secoli informa la nostra disciplina, ma, se davvero vogliamo rinnovare il nostro insegnamento, come arte della sintesi, della capacità, insieme, di conoscere, interpretare, operare.

Credo che di questa considerazione si dovrebbe tener conto nella formazione delle nuove strutture per la didattica di architettura, cercando di superare il pericolo di arroccamenti e fughe specialistiche, attraverso il tentativo di una ristrutturazione orientata al principio di costruire una nuova scuola, dove il progetto non sia una delle discipline insegnate allo studente, ma possa, di nuovo, costituire il catalizzatore delle diverse discipline.

Un “organismo didattico” dotato della indispensabile elasticità e capacità di adattamento, ma dove anche, come in un’architettura ben disegnata, ogni elemento stabilisca con gli altri alcune solide relazioni di necessità, in modo che l’alchimia dei crediti non si sostituisca alla chiara visione dei fini dell’insegnamento.

E dove il recente titolo ministeriale di Scienze dell’Architettura non finisca per costituire un bizzarro esorcismo contro la corrente deriva irrazionale di un’ arte ed un insegnamento che rischiano di perdere il loro centro e la loro identità.

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Giovan BattistaMilani, , L’ossatura murale, Torino, s.d. [” 1920]

RISCOPRIRE DEL DEBBIO

 

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Foresteria sud al Foro Mussolini, 1927-33

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Ampliamento della Facoltà di Architettura, 1963

  • RISCOPRIRE DEL DEBBIO

di Giuseppe Strappa

in “Industria delle Costruzioni” n° 394, 2007

Finalmente una grande mostra alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, promossa in collaborazione con la DARC, ha reso giustizia all’opera di Enrico Del Debbio, figura centrale quanto problematica della fase di passaggio al moderno nella cultura architettonica romana.
La mostra propone, con i materiali straordinari dell’archivio Del Debbio, di guardare da vicino, attraverso i dati reali, un periodo della storia dell’architettura in cui l’ordine accademico sembra disgregarsi sotto l’aggressione di nuove istanze e nel quale la storiografia ha cominciato a riconoscere i rivoli dei molteplici esiti che questa rottura ha prodotto, tra accettazioni, resistenze, adeguamenti.
Se letta attraverso le opere tangibili dei protagonisti, la cultura romana di quel periodo si mostra aperta al cambiamento e, insieme, legata ai suoi processi formativi, alla consuetudine col paesaggio costruito ereditato.
In realtà proprio la secolare stratificazione di caratteri plastici e murari depositati nel corso della formazione dell’architettura romana, permettono ancora di riconoscerne gli aspetti specifici nella complessa fase di transizione del ‘900, quando alla permanenza dell’eredità organica si contrappongono le laceranti istanze di un mondo in rapida trasformazione ed il contatto col moderno nordeuropeo.
Condizioni delle quali i protagonisti sono perfettamente coscienti, come testimoniano le riflessioni di Giovannoni sulle nuove incertezze del progetto di architettura: sull’interruzione dell’evoluzione “logica” nella leggibilità degli organismi architettonici, in una fase di perdita di unità della costruzione, quando sembra affievolita quella capacità di sintesi che permetteva all’architettura del passato di essere universalmente compresa, sostituita da tentativi personali, “talvolta immeschiniti in mode mutevoli ed arbitrari individualismi”. Personalismi, dato di fatto rilevante, meno accentuati tra gli architetti romani rispetto a quanto avveniva nell’aree culturali mitteleuropee, come dimostra l’elevato livello di persistenza di caratteri condivisi. Questa continuità ha, a volte, indubbiamente presentato il volto di uno storicismo compiaciuto e pittoresco, riscontrabile anche nelle opere che Del Debbio realizza negli anni ’20:si veda il piccolo quartiere per artisti della Cooperativa Ars o le case Berring Nicoli, Villani, Selva, Tonnini. Ma che è anche all’origine di una ricerca inquieta e complessa, con esiti meno spettacolari dei manifesti del moderno nordeuropeo e che, proprio per questo, avrebbero bisogno di un’indagine più attenta.
Del Debbio è, nel quadro del contesto romano, una delle figure che interpreta in maniera più contraddittoria, e quindi fertile, l’eredità dell’impiego di strutture continue, organiche, plastiche, portanti e contemporaneamente chiudenti, che storicamente avevano avuto esito nell’unità tra struttura statico-costruttiva, distribuzione, spazi e leggibilità. Si veda l’esempio dell’Accademia di Educazione Fisica, apparentemente riconducibile alla tradizione dell’edilizia specialistica romana, dalla quale tuttavia, per molti versi, non potrebbe essere più lontana: la canonica ripartizione verticale (basamento, elevazione, unificazione, conclusione) viene sovvertita dalla inedita gerarchizzazione dei piani mentre è del tutto assente il legame con la nozione di tessuto espressa dai percorsi e dall’aggregazione dei vani. E mentre un complesso, innovativo  meccanismo aeroilluminante della grande aula magna sostituisce il consueto claristorio, l’innovazione della struttura a telaio in calcestruzzo armato, al contrario, viene assorbita, addomesticata nel gioco delle specchiature.
Le splendide prospettive a tempera del progetto dell’Accademia, nella loro apparente serenità, esibiscono, inoltre, il conflitto tra simmetria e moderna ratio compositiva, come pure ostentano l’ opposizione tra elemento e struttura delle quinte di facciata dove il travagliato impiego dei nodi tettonici sembra alludere ad una lingua consolidata che in realtà nega.
Siamo alla fine degli anni ’20, gli anni del sanatorio di Paimio, del padiglione di Mies a Barcellona, della fabbrica Van Nelle a Rotterdam. Del Debbio, architetto informatissimo, conosce bene il panorama del moderno internazionale.  Ha piena coscienza, dunque, di come la differenza tra l’architettura romana e quella nordeuropea non sia dovuta solo a manifesti, slogan, teorie,  intuizioni, ma a condizioni culturali di ben più lungo respiro. E come le specificità del moderno dei “pionieri” abbiano radici in un processo formativo, tipico delle aree del gotico, nel quale continua, anche con l’impiego dei nuovi materiali, l’uso di quelle strutture discrete, seriali, elastiche, portanti e non chiudenti che sono uno dei presupposti delle ricerche del movimento moderno. Caratteri dei quali Le Corbusier ha dato un’accezione estrema e spettacolare nei principi della pianta e della facciata libere.
Le ricerche che Del Debbio svolge del decennio successivo (si vedano i disegni per la case del balilla di Avellino, di Pagani, di Modena) possono non solo essere lette all’interno di quel processo di semplificazione dei volumi che sembra uno dei caratteri comuni del moderno europeo, ma come chiara indicazione della difficile strada di una modernità originale ed organica capace di fondere in unità muraria ed organica (contro la frammentazione del moderno internazionale) costruzione, pareti dell’involucro e spazi degli edifici.
In assenza di un quadro critico basato sulla concretezza delle opere e delle condizioni conflittuali in cui si è svolta la sua vicenda architettonica, la fortuna critica di Del Debbio ha subito fasi alterne, condizionata dal momento politico, dal gusto, perfino dalle mode. Nell’immediato dopoguerra, per ragioni peraltro evidenti, la critica ha costruito una cortina di ostili pregiudizi (con poche eccezioni) nei confronti dell’architettura tra le due guerre, identificata come uno dei simboli più evidenti del drammatico periodo storico appena concluso. E in questo panorama la vicenda di Del Debbio è stata considerata una sorta di espressione distillata della retorica di regime, secondo valutazioni che ben poco avevano a che fare con la realtà delle opere. All’estero, invece, ci si accorgeva immediatamente delle qualità di queste architetture. Nikolaus Pevsner, tra i primi, parlerà del Foro Mussolini come del prodotto di una tradizione dell’antichità ancora vitale ritenendo, già nel 1945, che “molti di questi edifici verranno un tempo giudicati con maggiore obiettività”.
Nell’intero corso degli anni ’50 si parla pochissimo dell’opera di Del Debbio: quasi solo nelle monografie sulle vicende dell’architettura moderna romana di Marcello Piacentini (1952) e di Francesco Sapori (1953). E’ l’inizio di una lunga fase di rimozione nel corso della quale pochi cenni sono dedicati dalla letteratura specializzata all’opera dell’architetto di Carrara, mentre i quotidiani, in ripetute occasioni, ne divulgano con colpevole superficialità un supposto ruolo di architetto di regime e retroguardia culturale. Rare le eccezioni come le poche righe di apprezzamento scritte da Ludovico Quaroni e da Accasto, Fraticelli e  Nicolini nel loro libro sull’architettura moderna romana del ’71.
Una piccola monografia pubblicata nel ’76 da Enrico Valeriani propone alcune rapide coordinate interpretative definendo Del Debbio non architetto di regime, ma frutto diretto “di quel tipo di cultura che dalle esperienze del romanticismo post-risorgimentale, attraverso le innocue sovversioni futuriste, le suggestioni floreali e i lieviti razionalisti, finì oper consumarsi nella Seconda Guerra mondiale”. Della continuazione di questa ostinata damnatio memoriae negli anni successivi posso riportare molte esperienze dirette, come la diffidente accoglienza, nel 1989, del primo regesto delle opere di Del Debbio in Tradizione e Innovazione nell’architettura di Roma capitale  da me curato (pericoloso perché “può capitare in mano agli studenti” si disse) e la valanga di proteste che accolse, l’anno successivo, un articolo su La Repubblica in cui mettevo in evidenza le qualità del Foro Italico compromesse dai lavori per i Mondiali di calcio.
Negli ultimi anni si è assistito ad un fenomeno di generale, progressiva “rivalutazione” dell’architettura tra le due guerre. Sull’onda della riscoperta dell’architettura “accademica” (vera o presunta) tutte, indistintamente, le opere di quel periodo sembrano così divenire, quasi per una bizzarra nemesi, improvvisamente straordinarie.
Il catalogo della mostra romana sulla figura di Del Debbio, curato da Maria Luisa Neri costituisce, purtroppo, un’espressione tarda di questa moda storiografica dove tutto è creativo, elegante, solare. Un’agiografia che non fornisce alcun reale contributo critico.
Ne è un esempio il capitolo  “Un poema pieno di spazio e di sogno: il Foro Mussolini”  dedicato ad uno dei temi nodali nell’ interpretazione dell’opera di Del Debbio e particolarmente attuale considerati gli urgenti problemi di tutela dell’ opera, come rileva in una nota contenuta nel catalogo stesso, Margherita Guccione. Nel testo della Neri ricorrono infinite osservazioni sul “rigore compositivo” dell’opera “esito della più autentica tradizione costruttiva italiana” dove “tutto è perfettamente calibrato” con una “perfetta simbiosi tra architettura e natura”. Ma, sul piano critico, non una sola aggiunta a quel poco che è stato già detto.
Una mostra straordinaria per la quantità e qualità del materiale esposto, dunque, ma anche un’occasione mancata per contribuire a fare luce su una delle figure più problematiche del passaggio al moderno dell’architettura romana.

LA SVENDITA DEL FORO ITALICO

 

 

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 11.04.2004

 

 

Ancora negli anni ’80, lo Stadio dei Marmi appariva al visitatore in tutta la sua sorprendente, metafisica astrattezza. Varcando l’ingresso dell’Accademia di Educazione Fisica incorniciato dal grande arco rosso pompeiano, si presentava la scena di uno stadio popolato di atleti pietrificati, sorpresi e fissati negli atti consueti delle attività sportive.

Le grandi statue si stagliavano ancora, bianchissime nel bagliore solare del marmo delle Apuane, contro la quinta verde della collina di Monte Mario. Ci vollero gli interventi per i Mondiali di calcio del ’90 e l’irruzione delle volgari strutture di copertura dell’Olimpico per distruggere il misterioso equilibrio del paesaggio disegnato da Del Debbio.

In realtà, a tre quarti di secolo dalla sua costruzione, il Foro Italico si presenta come un gigantesco monologo di marmo che riassorbe e unifica ogni singolo contributo: lo straordinario monumento all’altra faccia della modernità che non ammette alterazioni, il cui uso va dosato con la cura amorosa che si riserva alle architetture antiche.

Eppure i guasti del ’90 non hanno insegnato nulla e si prevedono altre distruzioni, cupamente annunciate dalla spirale di debiti nelle quali si avvitano le squadre di calcio e dalla disperata ricerca di risorse per risanarne i bilanci.

La lotta per il Campionato si combatte, ormai, a colpi di centinaia di milioni di euro. In questa selvaggia epopea d’indebitamenti vertiginosi e cinici eroi che si offrono al miglior offerente in condizioni di monopolio, salvare lo spettacolo globale diviene un drammatico problema di Stato.

Accade così che per alimentare questo voracissimo e chiassoso circo planetario si sia disposti a svendere la nostra eredità moderna. Perché di questo si tratta. Anche se nelle proposte che vengono presentate in questi giorni si assicura, ipocritamente, il rispetto delle architetture, i futuri gestori (finanzieri, squadre di calcio, imprenditori) parlano solo di poli di divertimento, centri per lo shopping, discoteche all’aria aperta, dove il “valore culturale” diviene un accenno rituale e grottesco.

Non un progetto che riguardi la reale salvaguardia delle architetture, non un piano credibile di tutela quando, già oggi, l’uso intensivo delle strutture del Foro continua a produrre danni irreparabili. Abbiamo visto tutti, su questo giornale, l’orrore sbattuto in prima pagina, i brandelli dei mosaici della Fontana della Sfera, fatti a pezzi nel corso dei tumulti seguiti al mancato incontro Roma-Lazio, raccolti in una carriola come in un pietoso sudario.

Certo, the show must go on e non sarà il rispetto per le architetture disegnate da Del Debbio o Moretti, per i mosaici di Rosso o Canevari che lo fermerà. Eppure la colossale massa di denaro che muoverà l’operazione “Città dello Sport” potrebbe, vorrei suggerire, non solo risanare i disastrati bilanci delle squadre capitoline, ma costituire anche l’occasione per realizzare nuove, scintillanti architetture “autenticamente contemporanee”. Ma il più lontano possibile dal Foro Italico.