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FRANCO PURINI – Natura e artificio in architettura


di Franco Purini

Costruire vuol dire, infatti,
dare ordinamento e norma
alla materia, nei rapporti prestabiliti dello spazio e
secondo gli archetipi universali
delle idee eterne.

Salvatore Vitale

In architettura, ma la stessa cosa si potrebbe dire per la scultura e la pittura, il legame tra materia e materiale è fondamentale. L’architettura non è costruita direttamente dalle materie, ma da queste solo quando, attraverso un complesso lavoro, esse sono state trasformate in materiali. Tale passaggio non è meccanico, né puramente tecnico. Esso si riveste infatti di significati profondi, di contenuti non presenti nelle materie originali, nel momento stesso in cui produce una serie di valori nuovi, metrici e spaziali, che vanno rinterpretati con attenzione e sensibilità. In ogni modo, prima di continuare questa riflessione, è necessario proporre una idea di edificio che contempli, in modo concettualmente congruente, la presenza dei materiali. Nell’ambito di queste note si suggerirà la seguente nozione: un edificio è una società di materiali sui quali è stato fatto un certo lavoro per metterli a contatto stabilmente e durevolmente, al fine di costruire un oggetto architettonico definito, quasi sempre dotato di un interno, un oggetto architettonico che si situa in un punto preciso dello spazio contrapponendosi, per così dire, allo spazio circostante. Data questa definizione occorre argomentarla, seppure brevemente. Essa contiene un concetto importante, quello di società. Un manufatto non è un semplice insieme di parti o un sistema di elementi. Le nozioni di insieme e di sistema, pur essendo corrette, non danno infatti conto fino in fondo della natura nello stesso tempo e solidale e conflittuale dell’edificio, né restituiscono, pur essendo corrette, la grande varietà dei suoi componenti. Solo paragonando un edificio alla società umana è possibile cogliere il nesso che lega le componenti stesse all’unità. La società umana ha una funzionalità, una gerarchia, una finalità, una struttura, un significato che trascende ogni sua singola parte, un codice rappresentativo, una dimensione narrativa. Tutti questi caratteri sono presenti anche in un edificio, nel quale i molti materiali che lo compongono vivono, come peraltro la società umana, una condizione di conflittualità che deve trasformarsi in solidarietà. I suoi materiali costruttivi che sono numerosi, devono adattarsi l’uno all’altro stabilmente e durevolmente per dar luogo a quella specificazione della ratio vitruviana che è la firmitas. Tuttavia questa stabilità è durevole, ma non eterna. Così come le parti di un edificio sono state pensate e predisposte per collaborare, contemporaneamente esse sono soggette a forze che tendono a disgregare la compagine tettonica, separandone gli elementi. Elementi i quali, a loro volta, sono sottoposti a un degrado fisico inevitabile, che porta spesso alla loro sostituzione. Per questo la società di materiali nella quale un edificio si riconosce è destinata, come ha scritto Georg Simmel, a un disfacimento totale, per il quale i materiali guadagnano, alla fine, una condizione di riposo. Probabilmente nella visione del filosofo e sociologo tedesco, una concezione che assegna ai materiali un tempo limitato c’è il ricordo preciso della definizione di architettura che è stata data da Arthur Schopenauer, il quale sosteneva che l’architettura è espressione della dialettica tra carico e sostegno. In altre parole essa va considerata come la forma del contrasto tra forze opposte che cercano un equilibrio stabile ma temporaneo.

Affermare che l’edificio è una società di materiali sostituisce anche un’altra sua storica definizione, quella che lo identifica come un organismo. Questa nozione, a lungo centrale, incorpora notoriamente una metafora antropomorfa per la quale l’edificio stesso è l’analogo del corpo umano. Questa corrispondenza, che implica l’assunzione del modello del corpo stesso come rappresentazione del divino nell’umano, non appare più in grado di corrispondere alla realtà dell’architettura. Prima la rivoluzione industriale, che ha irreversibilmente sostituito al modello organico quello meccanico, poi la rivoluzione digitale, che ha imposto l’ossimoro concettuale del corpo immateriale, hanno definitivamente sottratto all’idea di organismo architettonico la sua legittimità. All’unità dell’organismo è succeduta, così, sia una sua articolazione processuale, sia una genetica incompletezza o, se si vuole, una continua apertura. Il corpo architettonico è divenuto così l’esito, sempre in progress, dei processi di formalizzazione, piuttosto che un oggetto definito una volta per tutte.

Sui materiali di cui è composto un edificio è stato fatto, come si diceva nella definizione proposta, un lavoro per metterli a contatto stabilmente. Ciò significa che in architettura non è sufficiente predisporre i materiali nella loro autonomia, che per quanto detto finora non può esistere, ma occorre che essi siano in grado di accogliere gli altri in un gioco di connessioni e di congiunzioni. Nello stesso tempo, come avviene con il mattone, i materiali devono essere il più possibile maneggevoli. Il mattone è, infatti, dimensionato sulla mano, ma tutte le misure sono in realtà dedotte dal corpo umano. Il palmo, il piede, il braccio svelano la diretta discendenza delle misure da quelle del corpo di chi abita e costruisce l’architettura. Si è detto che l’edificio è una società di materiali. Tale società è governata da una sua logica, ma tale logica non è lineare né meccanica. Si tratta di una coerenza che non può essere solo deduttiva, ne può risultare dall’applicazione rigorosa di principi. Nell’architettura esistono procedimenti – si pensi al tempio greco – che sono logici solo nell’ambito di una sfera costruttiva, percettiva, semantica e simbolica. Ciò che si vuole qui di nuovo sottolineare, è che la logica dell’edificio come società è una logica conflittuale che deve mediare tra esigenze diverse, non riconducibili facilmente, o forse mai, all’unità. Per questo motivo un edificio è sempre intermedio tra il suo essere qualcosa che tende all’unitario e al contempo un’entità che non può che configurarsi come composita. Proprio come la società umana. Nel passaggio dalle materie ai materiali alcune qualità delle prime si mantengono. Altre invece si modificano, fin quasi a renderle irriconoscibili. Tra un profilato di acciaio e il ferro in natura, che si presenta come un sasso o come una striatura rossastra in una roccia,  non c’è una relazione diretta. Tra un blocco di travertino e una lastra della stessa materia, lucidata, c’è una differenza notevole. Alcune materie invece, riescono, trasmettere quasi integralmente il proprio senso originario. Il legno ad esempio. Le venature trapassano, per così dire, dal tronco alla tavola levigata. Per contro è possibile, invece, un altro tipo di passaggio diretto tra materie e materiali, quello delle misure. Esiste una relazione profonda e per certi versi misteriosa, tra una materia naturale, e le misure dei materiali che da essa dipendono. Se voglio impiegare in una architettura una lastra di travertino di 220×120 cm devo dare ad essa uno spessore legato alle sue due misure da un rapporto preciso. Se voglio utilizzare un profilato a doppio T alto 2,00 m l’anima e le ali devono avere certe grandezze e determinati spessori. In sintesi ogni materia propone un proprio arco metrico, una declinazione di misure che va intesa nel suo senso più implicito. Costruire un edificio significa comporre una sorta di sinfonia metrica che è fatta di blocchi numerici, inverati in materiali che si accostano e a volte si attraversano l’un l’altro in un movimento virtuale di grandezze e di quantità. Quantità spesso invisibili – si pensi allo spessore di un pannello di rivestimento, che non è leggibile mai dall’esterno – ma che è possibile intuire decifrando le dimensioni delle parti.

E’possibile a questo punto introdurre una breve riflessione sui valori visivo-tattili dei materiali. Per valori visivo-tattili si intendono quelle impressioni visive che derivano dall’aver avuto un esperienza tattile dei materiali. Tali valori sono la scabrezza, la levigatezza, la sensazione del caldo e del freddo, la granulosità o il carattere liscio, astratto o venato delle superfici. Tra questi valori visivo-tattili, uno molto importante, è quello della profondità virtuale. Quando guardiamo una serie di materiali alcuni ci appaiono visivamente penetrabili, come certi marmi che sembrano stratificati, altri, invece, non consentono allo sguardo di attraversarli, neanche per uno spessore minimo. Una lamiera verniciata è impenetrabile; una lastra di Onice d’Egitto – come quella che Ludwig Mies van der Rohe ha collocato nel soggiorno della Casa Tugendhat a Brno – guida invece la vista dentro le sue venature, così come fa il legno, che è come composto di più livelli. Se disponessimo lungo una parete tanti pannelli dello stesso spessore, fatti di materiali diversi, potremmo virtualmente disegnare una sezione in cui ciascun pannello ha una sua profondità corrispondente a quanto si può entrare virtualmente dentro di esso. Tra i valori visivo tattili c’e’ anche da ricordare la strutturazione delle superfici, ovvero il disegno di pavimenti, pareti, involucri, soffitti, rivestimenti. Un mosaico è bello non solo per lo splendore della sua configurazione generale e per il nitido cromatismo delle sue singole tessere, ma anche per la fitta tessitura della sua superficie. Allo stesso modo un pavimento si apprezza non solo per le qualità del suo materiale ma anche per quella del disegno con il quale le sue parti sono messe assieme. Griglie e tessiture la cui origine si deve al fatto che in una costruzione, a parte l’involucro, i movimenti che le coinvolgono obbligano a dividere in sezioni i materiali che si utilizzano. Pavimenti, soffitti e pareti si configurano, così, come cretti assumendo la mobilità dell’elemento più piccolo, che può quindi assecondare il respiro del manufatto senza che esso subisca fratturazioni.

Costruire un edificio è quindi come è stato già detto, comporre una sorta di sinfonia metrica ma anche combinare una serie di profondità ottiche, nonché di sensazioni legate alla consistenza fisica dei materiali. Si pensi ad esempio all’architettura di Carlo Scarpa, che sapeva alternare la scabrezza del cemento armato a faccia vista alla levigatezza del marmo, alla chiarezza geometrica di un profilato di acciaio, a una cerniera in ottone, alla proprietà riflettente di un mosaico al dispiegarsi morbido delle superfici lignee, imbevute di luce. L’architetto veneziano ha saputo coniugare i vari aspetti dei materiali di cui si è parlato, in composizioni estremamente sapienti, in cui ciascun passaggio materico riverbera in modo poetico le sue potenzialità. Tra i valori visivo tattili occorre inoltre ricordare la luminosità e il peso. La luminosità è quell’attitudine del materiale a trattenere e a rinviare la luce che riceve. L’acciaio, se non è inossidabile, ma verniciato, è un materiale opaco, mentre una lastra di marmo lucidato puo’ divenire splendente. Un caso a parte è il vetro, che può essere trattato sia in modo da raccogliere la luce sia da farsene attraversare. Anche il peso è un elemento che entra nell’ambito dei contenuti architettonici espressi dai materiali. Lo sguardo è in grado di stabilire la densità dei materiali, immaginando spessori che sono invisibili, mediante il solo prendere atto della dimensioni dei singoli elementi.

Può essere utile a questo punto riepilogare quanto esposto finora. E’ stata proposta all’inizio la definizione di edificio come società di materiali. Successivamente è stato messo in evidenza come questa società sia governata da una logica non lineare né meccanica, ma intrinsecamente conflittuale. Subito dopo sono state affrontate alcune operazioni riguardanti il passaggio dalle materie ai materiali, introducendo infine i valori visivo-tattili. C’è infine un ulteriore argomento. In architettura esistono edifici fatti di un solo materiale, o quasi esclusivamente, e manufatti realizzati con più materiali. Le piramidi egizie, i templi greci, i templi cinesi, coreani e giapponesi, le case di legno americane, le isbe russe, le iurte delle steppe mongole sono costruzioni monomateriche. Il Partenone è una sorta di idealizzazione della materia unica come sogno di una totalità di concezione e di esecuzione sintetizzata in un principio al contempo costruttivo, plastico e spaziale. La stessa cosa si può dire per le piramidi, che anzi, con l’essenzialità delle loro forma, esaltano la volontà di far corrispondere idea e sostanza. Questa volontà sovrintende e ispira anche le architetture stereometriche. In queste non solo l’architettura è di pietra ma il disegno di ciascun elemento incorpora la legge costitutiva del tutto. Non esiste più una gerarchia tra le varie parti della compagine tettonica, ma ognuna di esse è carica dei significati dell’intero manufatto.  Nella mostra “Città di Pietra”, curata da Claudio D’Amato nell’ambito della XI Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia 2006, Claudio D’Amato ha dimostrato come il principio stereometrico, insito nel materiale lapideo, possa infondere la propria determinazione formale nell’intero edificio, plasmandone anche il più piccolo elemento. Entrando anche nello spessore del muro la legge stereometrica fa sì che l’ordine prospettico non si limiti a modellare l’edificio nei suoi esterni e nelle sue cavità interne, ma sia capace di penetrare anche nelle mosse murarie, disgregandone le singole componenti. A differenza di quelli in pietra, negli edifici costruiti con più materiali – pietra, legno, ferro, plastica, vetro – ciò che si fa contenuto architettonico primario è invece il modo attraverso il quale la molteplicità ritrova una coerenza nel complesso tettonico-architettonico. Nel primo caso la metafora dell’edificio come società si da in una forma assoluta, come un teorema perfetto, nel secondo caso l’edificio assume un tono più narrativo, proponendosi come l’intreccio di temi costruttivi, spaziali, decorativi.

Oltre a essere considerato come una società di materiali, un edificio si presta ad essere interpretato come un rapporto tra fibre. In effetti un manufatto non è altro che un certo numero di tessuti messi in reciproca relazione. Travi e pilastri sono un tessuto che al loro interno contiene un ulteriore tessuto fatto di tondini di ferro; un solaio anche è un tessuto; lo è anche un muro di tamponamento, un rivestimento o una copertura metallica. Ognuno di questi tessuti è composto di materiali uguali o diversi. In questa essenza c’è forse la radice dell’idea semperiana di architettura, un’idea che influenzerà anche Robert Venturi che ne darà un’interpretazione fortemente personale. Gli edifici possono essere classificati, dal punto di vista tettonico, come continui o puntiformi. Si ha un edificio continuo nel caso delle strutture murarie, che si risolvono in mosse compatte, dal carattere sostanzialmente plastico; si ha invece un edificio puntiforme quando la struttura si concentra in una serie di pilastri collegati da travi e dei solai. Le costruzioni in cemento armato appartengono al secondo tipo. Saverio Muratori sosteneva che il modo puntiforme apparteneva alla cultura costruttiva nord europea, laddove quello continuo sarebbe stato l’espressione del mondo mediterraneo.

A proposito del rapporto tra arte, tecnica e natura San Tommaso ha scritto che, se è vero che una nave è fatta di legno, non è detto che il legno generi in sé la nave. Occorre un salto creativo che sappia misurare la distanza tra materia, materiale e intenzione. C’è bisogno di  risalire dall’edificio alla natura per cogliere quell’essenza intransitiva che è contenuta nella natura stessa e che l’architettura utilizza, ma senza riuscire, comunque, a renderla strumentale fino in fondo. Per contro Carlo Marx, nel celebre apologo su l’ape e l’architetto, ricorda che la sapienza dell’ape, che sa costruire celle in cera con una geometria perfetta, non è confrontabile con quella dell’architetto. Nella mente dell’ape non c’è un progetto, solo un istinto biologico, in quella dell’architetto c’è l’idea di ciò che egli vuole realizzare. E’ proprio la presenza di questa intenzione che rivela quanto di creativo, e conseguentemente di indicibile, c’è nel passaggio dalla natura all’artificio, un passaggio reso possibile da una fondamentale metamorfosi, quella che consente di trasformare la materia, mai inerte, ma già portatore di valori metrici e di virtualità formali, in materiali costruttivi.

Franco Purini
Bari 12.10.2007

I GIOIELLI DI GEHRY

MOSTRA  “BEAUTY WITHOUT RULES”  DA TIFFANY
IN VIA DEL BABUINO, 118
MARTEDI 7 NOVEMBRE

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 08.11.2006

Negli anni ’70 la sedia in cartone riciclato disegnata da Frank Gehry, quella usata a Ballarò, si  comprava nei supermercati per pochi dollari. Oggi, prodotta dalla Vitra, ne costa 850.
Re Mida dell’era mediatica, il famoso architetto emana ormai, in ogni gesto, un’aura di ricchezza: la sua intera ricerca, anzi, sembra dirigersi verso i paradisi del lusso, indicando non solo il progressivo distacco dell’arte dal quotidiano, ma la sua fusione con l’haute couture.
Nella nuvola di cristallo da lui disegnata per la Fondazione Vuitton, Bernard Arnault, primo mecenate di Francia, annoderà mostre d’arte a collezioni di oggetti preziosi, i marchi del suo impero, Dior, Givenchy, Moët, ai profeti della pittura contemporanea, Dubuffet, Basquiat, Hirst. Nello scontro planetario che lega arte, lusso e finanza, la struttura parigina sarà, anche, una scintillante macchina da guerra rivolta  contro il rivale François Pinault (Gucci, Saint Laurent, Christie’s), recente padrone di Palazzo Grassi.
I magnifici gioielli disegnati per Tiffany, da oggi in mostra nella sede romana di via del Babuino, con le loro forme mutuate dalle architetture, sembrano indicare il culmine della parabola di Ghery: “Beauty without rules”. Del resto, se il Guggenheim di Bilbao è un gioiello prezioso perché un monile non può essere disegnato come un’architettura? Le forme fluide dei suoi edifici si confondono così nelle volute di collier e bracciali, una volta disegnati da Elsa Peretti o Paloma Picasso per gli happy few. Ed è solo l’inizio perché Gehry progetterà per Tiffany anche oggetti da tavola lasciando tracimare la sua estetica fastosa nella vita, invaderne i gesti quotidiani come tagliare una fetta di pane o bere un bicchiere di vino.
Si chiude così il circuito. Relegati nei musei i relitti del moderno (l’impegno delle avanguardie, la tensione etica degli oggetti del Bauhaus) la storia infinita di Gehry sembra mostrare come l’architettura sia avviata a diventare la nuova frontiera del lusso e della sua spettacolarizzazione.

LA BELLA METROPOLI

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 09.12.2006

L’architetto ha creduto, per secoli, che il mondo esistesse per essere ordinato attraverso la bellezza, pur sapendo che quest’ordine è illusorio, un fragile stato di transizione.
Ma da almeno mezzo secolo gli architetti indagano la qualità estetica delle cose che hanno perso equilibrio e proporzione. Dal Robert Venturi del caos di Las Vegas, al Rem Koolhaas della New York dei deliranti disastri nasce l’epica metropolitana del moderno nomade eternamente in viaggio tra universi frammentati. La quale ha contribuito, bisogna pur dirlo, all’abbandono di quelle ricerche sull’abitazione che hanno costituito, da Morris a Le Corbusier, l’origine e il sale dell’architettura moderna.
Oggi, persa la carica provocatoria, questo pensiero sperimentale si è trasformato in genere letterario frequentatissimo e vagamente lugubre dove il termine “bellezza” viene ormai rimosso, schivato dagli intellettuali.
Tanto che esso, associato al tema della metropoli, genera un singolare cortocircuito. E’ quello che è accaduto nel recente convegno al Palazzo dei Congressi (Corriere del 24 e 25 scorso) che, con il titolo “La bellezza dove non c’è”, poneva il problema della rigenerazione delle periferie romane, dell’hinterland verso il mare che l’EUR spa si propone di rinnovare.
Se l’aver dimenticato il ruolo della bellezza e del giudizio sintetico che essa contiene sembra averci privato di uno dei grandi strumenti di orientamento nel caos del mondo, le schegge delle borgate romane che scorrono dietro i finestrini di un’auto sembrano ancora indicare, senza bisogno di dimostrazioni, che il bello è altrove.
In realtà la città, anche quella del passato, è sempre stata un mondo di frammenti e i centri storici che abbiamo ereditato sono stati anche, e per lungo tempo, luoghi invivibili.
Ma l’uomo del medioevo vedeva nella polvere e nei blocchi di pietra che affollavano le piazze la forma della città ventura. E gli architetti del Quattrocento disegnavano la Roma antica non per quello che era, ma per quello che avrebbero voluto che fosse. Questo desiderio struggente era il vero progetto di futuro.
Forse anche noi, liberandoci dalle incrostazioni delle teorie (ma anche dalle nostalgie per il passato), dovremmo provare a guardare alla catastrofe, alle rovine della speculazione edilizia romana con occhi nuovi. Accettare il mutamento delle cose sapendo che si potranno ancora ricomporre in nuova bellezza. O, almeno, desiderarlo.

LE CITTA’ NELLA CITTA’

CONVEGNO INTERNAZIONALE ALL’EUR

in «Corriere della Sera» del 22.10.2006

di Giuseppe Strappa

Nella metropoli della densificazione e della babele dei linguaggi, che, in America come in Cina, esplode e si disperde in frammenti, il virtuale sembra sostituire la realtà e l’immateriale la fisicità dei paesaggi urbani.
La stessa nozione di città, intesa come spazio dove l’uomo non solo vive e lavora, ma s’identifica con i luoghi deputati alla vita civile, sembra sgretolarsi.

Paesaggi di reti tendono a separarsi dalle forme reali, dai luoghi fisici: l’immagine mentale  di una metropolitana, della distribuzione commerciale, dei collegamenti autostradali o aeroportuali, è ormai una rappresentazione convenzionale come le icone sul desktop di un computer. E Bill Gates promette l’avvento di un uomo nuovo, telematico, liberato dall’appartenenza al luogo, che può essere “qui e là e in ogni possibile posto”.

Dopo i fiumi d’inchiostro e di bite spesi ad alimentare questa retorica della delocalizzazione e le sue fughe dalla realtà, forse è il momento di chiedersi se non stiamo perdendo i reali termini del problema. Non tanto perché il 50% degli abitanti del nostro pianeta non ha mai fatto una telefonata, ma soprattutto perché abitare e leggere e-mail in un condominio di Calcutta o in un attico di New York non sarà mai la stessa cosa.

E forse l’uomo, soprattutto il nuovo, mitizzato, nomade metropolitano, ha ancora bisogno di appartenenza, degli spazi essenziali dove la vita affonda le sue radici. L’accettazione della città dispersa, combinatoria, costruita per frammenti sembra segnare, peraltro, la rinuncia definitiva a quella carica ideale, ottimista ed utopica, che aveva dato senso all’architettura moderna, finendo per assegnare all’architetto contemporaneo il ruolo, omologato e rassicurante, di autore di spettacoli urbani.

La crisi della metropoli contemporanea, il suo governo, le ideologie che ha generato sarà il tema di un convegno internazionale che si svolgerà il 13 e 14 maggio al Palazzo degli Uffici all’EUR.

Proprio l’immagine dell’EUR, con il richiamo alla concreta fisicità di città moderna-non moderna che la sua architettura contiene, può indicare alcuni argomenti di riflessione: la validità e la durata dell’architettura urbana; i guasti della specializzazione nell’arte di costruire le città di due momenti separati, il piano urbanistico (lo zoning, gli standard), ed il frammento edilizio che, quando raggiunge la qualità della grande architettura, si compiace narcisisticamente del suo isolamento. La crisi del piano e la caduta di significato civile dell’architettura sono, in questo senso, due facce di uno stesso problema.

La fortuna critica e storiografica dell’EUR ha avuto nel tempo alterne vicende. Oggi  è un po’ fuori moda e si torna a parlare dell’arretratezza del suo impianto “ottocentesco”. Ma, se è vero che il suo modello, rigido e marmoreo, è ormai inattuale, il suo impianto ha in realtà fondamenta molto più antiche che riportano all’essenza della città italiana. E proprio questa  è la sua forza: la capacità di trasmettere, se si guarda oltre le tendenze del momento, la dimenticata, fondamentale nozione di tessuto, il legame tra edificio e città, tra  struttura di percorsi ed architettura, tra episodio eccezionale e continuità edilizia. Nozioni che non sono né vecchie né nuove facendo parte del modo dell’uomo di abitare e orientare lo spazio. Averle dimenticate è uno dei disastri della città contemporanea.

Non a caso l’EUR, che pure nel dopoguerra assomigliava ad una città di rovine più che ad un quartiere in costruzione, ha resistito ai disastri del boom edilizio ed è oggi capace di accogliere il plurale e il diverso, il Palazzo della Democrazia Cristiana come la nuvola di Fuksas.

La vicenda dell’EUR, generato dal demone della compiutezza incorruttibile, dove la  storia ha stratificato nel tempo, invece, segni disuguali e contraddittori, c’insegna come governare i processi di trasformazione della città contemporanea significhi anche accettarne, senza presunzioni di totalità, il carattere aperto, la continua dialettica. Ed anche la sua parte arbitraria e ingovernabile, distinguendo l’essenziale della forma urbana, la struttura profonda e riconoscibile, dall’inevitabile arbitrio del casuale, del particolare, dell’individuale. L’Eur sembra mettere in guardia intellettuali e progettisti dalle seduzioni delle profondità astratte, invita a ridiventare chiari e concreti.

Perché la città contemporanea non è solo il mondo dell’accidentale e del fortuito, è anche un testo continuamente riscritto, alla cui vitalità occorre il grande respiro, la chiarezza di una struttura condivisa nella quale riconoscere la lingua colta delle grandi architetture civili e, insieme, il flusso delle mutazioni combinatorie, il contributo dal basso dei tanti singoli edifici, il molteplice e l’eterogeneo del parlato quotidiano che rinnova e dà ricchezza al linguaggio.

ELOGIO DEL PALAZZO PUGLIESE

di Giuseppe Strappa
in «Dimore Storiche» n° 47/48, 1/ 2002

La grande rilevanza che la formazione del palazzo italiano ha assunto nel quadro della cultura europea non può essere fatta derivare unicamente dal ruolo che esso ha svolto nella storia dell’arte, dallo splendore delle sue facciate, dalla bellezza della composizione architettonica che ne organizza le parti: la sua importanza è dovuta anche, forse soprattutto, al valore di testimonianza dei caratteri di una civiltà che esso contiene, al profondo rapporto che instaura con l’aggregato di abitazioni che lo circonda e dal quale, dato fondamentale, esso trae la propria origine.
Questo processo formativo lega solidalmente il grande o il piccolo edificio nobiliare alla città in cui sorge, in un rapporto organico che vede le stesse nozioni di percorso, aggregazione, nodalità riscontrabili nei tessuti urbani, rispecchiarsi nel palazzo. Il quale finisce per organizzarsi, per dirla con l’Alberti, come una piccola città, regolato com’è dalla gerarchizzazione dei propri percorsi interni, dall’aggregazione dei vani, dalla polarità di scale e sale di rappresentanza.
Tanto a Venezia, quanto a Firenze o Roma, il palazzo deriva, in realtà, da quell’insieme di abitazioni di piccole dimensioni, l’edilizia “di base”, che costituisce la gran parte della città tradizionale, e la sua architettura è pertinente al tessuto che, nelle diverse aree culturali, assume caratteri specifici in funzione delle diverse forme che gli aggregati di abitazioni presentano: la casa-fondaco, e poi il palazzo veneziano, sorgono dalla trasformazione delle domus su cui è stata impiantata la città; il primo palazzo fiorentino nasce dall’incremento della casa mercantile; il palazzo romano ha origine dalla rifusione di modeste case a schiera, unificate da percorsi comuni “ribaltati” all’interno e da una facciata nella quale il ritmo ancora apprezzabilmente irregolare delle aperture lascia trasparire il travaglio del lavoro di unificazione e regolarizzazione svolto dal costruttore. Ma ben presto ai palazzi formatisi per diretta trasformazione dell’edilizia di base succedono strutture progettate ab initio, le quali, pur ereditando per intero i caratteri originali del processo formativo, vengono piegate, tuttavia, alle regole della geometria ed alla retorica individuale dell’architetto. Edifici come Palazzo Corner, Palazzo Davanzati, Palazzo Ossoli contengono, in altre parole, l’eredità operante della storia edilizia locale filtrata dall’apporto critico del progettista che si pone il problema del disegno unitario di un nuovo edificio. La complessità e la ricchezza dell’architettura spontanea vengono, in qualche modo, semplificate dall’ordine generale dell’architettura completamente progettata, mentre scelte estetiche colte e dichiaratamente orientate dalla personalità dell’architetto immettono il nuovo edificio in un contesto culturale molto più ampio di quello locale.
In questo contesto, articolato negli esiti ma comune nei principi, i palazzi e le dimore nobiliari formatisi in Puglia a partire dal XV secolo assumono un’importanza particolare costituendo, nella grande maggioranza dei casi, la testimonianza di una sintesi architettonica fondata con continuità sulla trasformazione diretta dell’edilizia di base della quale permangono, evidenti, non solo le tracce murarie, ma i contributi strutturanti la forma ultima dell’edificio. Nelle tante città pugliesi di illustri (e spesso malnote) tradizioni edilizie, la mano dell’architetto raramente irrigidisce la costruzione di un palazzo in un progetto geometricamente preordinato, derivato da un trattato o dall’esperienza di edifici simili individuati in altri contesti culturali; più spesso opera, almeno fino all’inizio del XIX secolo (quando si abbattono le mura delle città pugliesi e si costruisce su nuovi terreni), per accorpamenti, per raccordi di facciate, per ricuciture di percorsi, che l’architetto, tuttavia,   utilizzando ancora la materia viva del tessuto esistente, del patrimonio di piccole case monocellulari, cortili, vicoli portati a riva dalla storia locale.
Il fluire imprevedibile della vita delle città, che scorre e trasforma piazze, strade, edifici, è dunque ancora leggibile nella forma molteplice del palazzo pugliese, nell’apparente casualità leggibile nonostante la cortina dell’ordine geometrico disposto dall’architetto. Il quale interpreta attraverso la nuova costruzione, a sua volta, le regole che, nella città, unificano, in una comune nozione di tessuto, il frammento nella totalità, l’accidentale nell’ordine generale dell’organismo urbano. Il palazzo pugliese contiene, dunque, la seducente, duplice rappresentazione del desiderio di unificare una parte di città, e della necessità di mostrare il sostrato degli edifici che lo hanno generato: in modo non diverso da quanto avviene per la lingua, dove il parlato quotidiano è il fondamento dei codici della scrittura e, in qualche caso, del linguaggio della poesia.
Constatazione questa, peraltro evidentissima in tessuti che, come a Trani, si sono formati attraverso un lungo processo di stratificazioni successive: qui i grandi e piccoli palazzi delle famiglie che hanno avuto un ruolo importante nella vita economica e civile della città ( i Caccetta, i Lopez, i Filangeri, i Carcano) sembrano affiorare da un potente strato geologico di edilizia “minore” che trasmette loro, in modo diretto, attraverso la fisicità della costruzione, il patrimonio della cultura del luogo.